Il mondiale russo, dopo una prima giornata quasi conclusa, ci ha già riservato non poche sorprese ed ha fatto saltare parecchi pronostici: la caduta della Germania ed i passi falsi di Argentina e Brasile non possono che essere sintomi di una competizione equilibratissima fin dall’inizio.
Il Belgio di Roberto Martinez, invece, tra tutti questi equilibri cambiati e risultati inattesi ha necessariamente fatto notizia rispettando alla perfezione le aspettative. L’ex allenatore dell’Everton ha esordito al meglio in competizioni ufficiali sulla panchina dei Red Devils, battendo con facilità la non-irresistibile Panama, convincendo sia per il rotondo risultato – 3-0 in scioltezza – che per un gioco tutt’altro che inaccettabile.
Il CT del Belgio è forse , tra tutti i tecnici delle big di questi mondali, quello meno conosciuto o comunque passato più sottotraccia, soprattutto in rapporto al clamoroso hype creatosi attorno alla sua squadra.
In realtà l’idea calcistica di Martinez meriterebbe molta più attenzione, è un autentico mosaico risultante dalle sue esperienze calcistiche passate ed è molto interessante vedere come può adattarsi ad una competizione particolare come una coppa del mondo. Lo spagnolo ha tra le mani un gruppo talentuoso e pronto, almeno ipoteticamente, al grande salto ed il suo stile di gioco così particolare potrebbe essere l’ago della bilancia verso questa definitiva consacrazione.
Per capire al meglio cosa aspettarci dai fiamminghi, dobbiamo ripercorrere le tappe principali della storia calcistica di Roberto Martinez.
??Belgium's record since Roberto Martinez took over in 2016:
LWWWDWDDWWWWWWDWWDWW
Time for the golden generation to shine? pic.twitter.com/Ol09lSUbpH
— Coral (@Coral) June 18, 2018
Wigan – dove tutto è iniziato
Come già detto in precedenza, il calcio di Roberto Martinez è figlio delle sue esperienze passate e in particolare possiamo notare come sia formato da due componenti principali: quella spagnola, intrinseca nel suo genoma e basata sul palleggio e la qualità dei singoli, e quella inglese, acquisita nel tempo e fondata sulle doti fisiche.
La parte inglese di questo binomio non può che essersi formata nella sua decennale esperienza britannica, prima da giocatore e poi da allenatore: dopo tante avventure nelle serie minori, riesce finalmente ad arrivare in Premier nel 2009, alla guida del Wigan, tappa che si rivelerà fondamentale per la crescita della sua idea calcistica.
Wigan è una città dalla fortissima vena rugbistica – non a caso la squadra locale è la più titolata in terra inglese – e in qualche maniera questa tradizione sembra influire sul suo gioco: i suoi Latics tendono a non badare troppo alla forma di ciò che fanno, ma nonostante ciò riescono comunque, seppur a tratti, ad esprimere lampi di qualità.
In quegli anni il catalano è bravissimo a creare un perfetto connubio tra il suo spirito spagnoleggiante e la natura fisica e propensa ad un calcio più d’intensità dei giocatori a sua disposizione, con notevole prevalenza della seconda componente. Quel Wigan, nonostante tanti interpreti siano più propensi a spostare pianoforti che a suonarli, riesce comunque a mettere in mostra una buona costruzione fin dalle retrovie ed un più che discreta organizzazione offensiva, basata su giocatori come Hugo Rodallega, Jordi Gomez e N’Zogbia (se avete seguito la Premier in quegli anni non potete che definirli giocatori di assoluto culto).
Anche se sembrano due realtà distanze anni luce, certi aspetti di quel Wigan possono essere ricondotti al Belgio versione Russia 2018.
La principale similitudine sta nell’atletismo su cui basano le due fasi, difensiva e offensiva, le due squadre. Se quel Wigan sfruttava queste doti soprattutto in fase di pressing e ripartenza, il suo Belgio le fa valere soprattutto quando attacca, unendole alle grandi doti dei singoli, per togliere letteralmente ossigeno alle difese avversarie.
L’esempio più calzante di come il Belgio utilizzi il proprio atletismo è la terza rete rifilata a Panama all’esordio mondiale: una volta recuperata la palla si corre e si cerca il modo più veloce per arrivare in porta, ecco perché avere atleti del genere aiuta parecchio.
Everton – completare la crescita
Per Martinez l’approdo a Liverpool nel 2013, sponda Everton, è l’ultima tappa – almeno finora – della sua avventura inglese, ma rappresenta anche il passaggio decisivo per completare la sua crescita tecnico-tattica.
Rispetto ai tempi di Wigan ha a disposizione una qualità maggiore ed un ambiente intenzionato a puntare ad obiettivi più prestigiosi di una salvezza tranquilla, ecco quindi che può finalmente prevalere il lato spagnolo del suo animo calcistico: i suoi Toffees si rivelano, almeno per il gioco espresso, un’evoluzione della sua idea calcistica.
Nei tre anni passati sulla sponda blu della Mersey non porta a casa risultati clamorosi – fatta eccezione per il quinto posto del 2014 – ma riesce comunque a mettere in piedi un sistema di gioco solido su entrambe le metà campo, sul quale si baserà in tutto e per tutto il suo Belgio qualche anno più tardi.
Quell’Everton ha il grande pregio di giocare un calcio molto propositivo e comunque molto variegato dal punto di vista delle soluzioni offensive. Martinez riesce finalmente a mettere in pratica tutto quello che in NBA chiameremmo playbook, in poche parole il suo repertorio tattico.
Il tecnico catalano mantiene un minimo dell’anima operaia del Wigan, soprattutto in fase di non possesso con il solito pressing asfissiante, aggiungendo un palleggio di qualità e sostenuto, un gran gioco sugli esterni ed il tutto al servizio di una macchina da goal come Romelu Lukaku, fondamentale in quella squadra esattamente come nel Belgio per convertire in goal i numerosi palloni ricevuti o dalle fasce o dalla trequarti.
Se il Wigan poteva in qualche modo avere punti di contatto con il Belgio, l’Everton ne è fondamentalmente una versione leggermente più grezza che differisce soprattutto per gli interpreti e per la velocità d’esecuzione.
Le similitudini sono riscontrabili anche per come sono costruite le due squadre: Martinez basa tutto su una difesa forte fisicamente ma anche abile nel palleggio e con il Belgio – tra Alderweireld, Vertonghen e Kompany – ha a disposizione i giocatori perfetti; un centrocampo molto mobile e formato da giocatori ibridi in grado di ricoprire più ruoli, con due mediani davanti alla difesa o uno solo accompagnato da due mezzali-trequartisti, ed un attacco formato sempre da un centravanti finalizzatore – Lukaku, ieri esattamente come oggi – e due ali.
I due esterni d’attacco sono forse i due giocatori fondamentali in questo sistema, devono aiutare l’attaccante e sostanzialmente lavorare per lui ma devono avere anche la personalità necessaria per prendersi responsabilità. Mertens e Hazard sembrano nati per ricoprire questo ruolo – anche se pure Carrasco e l’altro Hazard non sfigurerebbero in ogni caso – perché rappresentano i perfetti partner di Lukaku: dribblomani fino all’osso con grande visione di gioco, ma anche una certa vena realizzativa.
Questo sistema di gioco ha ovviamente le sue pecche, soprattutto in fase difensiva per i buchi che possono essere lasciati da così tanti giocatori offensivi tutti insieme, ma permette allo stesso tempo di far esprimere al meglio l’estro dei campioni a disposizione. Il capolavoro di Mertens e l’immaginifico assist di De Bruyne, pensiero e azione di questo Belgio, contro Panama sono stati resi possibili proprio dalla libertà tattica e tecnica che concede questo sistema.
Il peso di un presente che incombe
E’ abbastanza chiaro come, con un talento del genere a disposizione e dopo degli Europei così deludenti, il Belgio sia chiamato a ricoprire un ruolo da protagonista in Russia. Il gioco di Martinez può sicuramente risultare come un arma in più, soprattutto contro squadre chiuse, ma i veri dubbi stanno nella capacità del gruppo e del proprio allenatore di gestire la pressione.
L’ex Everton ha già dimostrato in passato di gestire al meglio un clima disteso, con poche pressioni e dove tutti sono disposti a collaborare, ma di non riuscire a tirare fuori il meglio da situazioni tese in spogliatoio o da caratteri troppo ingombranti, cosa che è anche il motivo più probabile per il quale Nainggolan è stato lasciato a casa (a dispetto delle motivazioni ufficiali).
Portare una squadra definita da tutti come la più probabile sorpresa del mondiale a compiere il passaggio delle definitiva crescita è un compito veramente complicato: Martinez deve dare dimostrazione di essere una grande gestore, soprattutto nei momenti difficili, più che un bravo allenatore, cosa che ha già ampiamente dimostrato nei suoi anni di Premier.
Detto questo, il Belgio ha tutto quello che serve fare bene in questo mondiale: un gruppo talentuoso che gioca insieme ormai da anni, un sistema di gioco funzionante, campioni in grado di risolvere le partite e anche un girone e dei possibili accoppiamenti nella fase finale decisamente abbordabili.
Solo il tempo saprà dirci se i Red Devils compieranno questo passo definitivo nella loro crescita e se Martinez riuscirà, finalmente, a completare il variegatissimo mosaico delle sue idee calcistiche.