Trinità

C’è un qualcosa di magicamente intrigante nel numero 3. Al suo interno nasconde qualche elemento di inconscia magia, che lascia presagire una capacità oltremisura di riuscire a vedere oltre ciò che gli altri vedono. Lo studio della simbologia analizza il numero 3 come espressione e sviluppo dell’intelletto, mettendo in evidenza nuove metodologie di integrazione e di comunicazione. E se si provasse a far entrare il numero preferito di Dante all’interno del vasto e meraviglioso mondo NBA e della corsa all’MVP? Del resto, tutto ciò che è sport è espresso in numeri, quindi che fastidio potrebbe mai dare? Una canotta con il numero 3, 13, 23, 33 e così via…in ognuna di queste compare la fatidica cifra.

Intrigante.

Intrisa di magia.

I tre pretendenti MVP

Un 13. Colore di appartenenza: rosso;

Un altro 13. Colore di appartenenza: blu;

Il 34. Colore di appartenenza: verde.

Si, decisamente scarna la top 3 di quello che potrebbe figurare come MVP della stagione NBA 2018-109; eppure in questi tre numeri, c’è una qualità traboccante. James Harden porta la Barba come abbigliamento principale tra i piedi e la divisa rossa, contornata con attenzione certosina da movimenti tanto sinuosi quanto micidiali per qualsiasi avversario. Fa parte di una continua ricerca verso il canestro, è figlio di una stressante voglia di dimostrare che lui è oltre quel campo nel quale è costretto a giocare.

Il secondo 13 viene da Oklahoma City, nonostante fosse a Indianapolis la sua Eldorado, quella città e quella squadra che ha regalato il suo viso a tutto il panorama NBA. Paul George sta finalmente mettendo il punto al suo infinito girovagare, tra insicurezze, dubbi e certezze che lo convincono a possedere un talento da non sprecare.

L’ultimo è il protagonista di una storia incredibile, e basta leggere il nome per capire dove questa storia ha avuto inizio: Giannis Antetokounmpo. Un gigante greco che è arrivato con più sogni che pretese, e ora si trova ad avere la responsabilità di una squadra che non ha fatto altro che metterlo al sicuro da chi voleva strapparlo ai Bucks.

Cos’hanno in comune questi tre giocatori? Il talento senza dubbio. Il numero 3 sulle proprie magliette, anche se con cifre differenti. Sono tra i favoriti concorrenti per la conquista del titolo stagionale di Most Valuable Player. MVP. Il giocatore più forte della stagione. Ma soprattutto sono in grado di fare ciò che il 3 presagisce: elaborano nuove tecniche di comunicazione.

Perché James Harden

Il ragazzo cresciuto cestisticamente a Oklahoma City ha trovato dopo tanto tempo in NBA la sua consacrazione, la sua tranquillità mentale, la capacità comunicativa con il campo e con il ferro. E con quel palleggio, che spesso gli ha permesso di frantumare tutto e tutti, che altrettante volte non ha permesso ai Rockets di battere quelle stesse difese per la sua imprevedibilità.

“The Beard” vuole ripetersi; è l’MVP in carica e chissà che stavolta non cerchi anche gloria di squadra oltre che personale. Harden è la trasfigurazione della capacità dell’essere umano di andare più veloce dei suoi pensieri, oltre la velocità del pallone, dell’avversario, di sé stesso. Il numero 13 di Houston è la velocità di esecuzione di un’idea che ancor prima di essere prodotta è già stata realizzata.

Ma questa sua velocità di esecuzione lo porta spesso a essere contestato dalla giuria di quei fanatici del regolamento che non vogliono ne sia cambiata o elaborata neanche una regola. E qui si aprono i dibattiti su Harden e i suoi “step back”, che vedono la popolazione americana che non tifa Houston Rockets alzarsi in piedi continuamente per poter gridare ai ‘PASSI’ che il Barba commette infinitamente in ogni match.

Ma davvero questo dovrebbe contribuire a privare il pubblico dello spettacolo? No di certo. E allora “in barba” ai passi e via verso il canestro.

Palla, barba e fantasia.

Perché Paul George

In fondo il ragazzo della California se lo meriterebbe anche questo riconoscimento. Adesso si trova dove Harden aveva cominciato, con quel blu addosso che poteva e doveva essere l’ultima nave sulla quale salire per poter riuscire a trovare la fortuna di cui ha sempre avuto bisogno. Annoverato sempre tra “quelli che possono arrivare”, è a Oklahoma che è riuscito a trovare continuità con quel suo gioco senza risparmiarsi mai.

Non si risparmiò nel 2014 neanche all’All Star Game, dove si ruppe il ginocchio durante un tentativo di stoppata su un contropiede portato in fondo da Harden. Una casualità? Eppure entrambi giocano col 13. IN maglia Thunder, dopo essersi ripreso con quel ginocchio, George ha fatto in modo e maniera di renderlo più forte, più pronto, più deciso in caso di urti o prove di infortunio.

E per essere sicuro di riuscirci, continua a fare ciò per cui mezza NBA si innamorò di lui da free agent prima che OKC gli rinnovasse di nuovo il contratto: stupire. Penetra, tira, si prende falli e tiri liberi. Paul George è diventato un perno in una formazione a cui mancava la giostra per girare. E forse si può dire che ora Westbrook ha trovato un “nuovo” Durant con cui fare coppia.

Sangue freddo ne abbiamo?

Perché Giannis Antetokounmpo?

The Greek Freak. Una statua greca. La perfetta combinazione di muscoli e velocità. Insieme a fasci di nervi che lavorano su un’intelligenza tattica che un ragazzo di 24 raramente possiede. Soprattutto se prima di spezzare difese in NBA, il mingherlino ragazzo di Atene che nel 2013 era carico di speranze ma non di certezze, è riuscito a esplodere in maniera talmente inaspettata da essere premiato nel 2016 come MIP (Most Improved Player).

Il suo migliorarsi continuamente, la sua passione e ossessione per ogni aspetto del gioco in ogni zona di campo, lo ha portato ora, dopo pochi anni dal suo draft, a giocarsi il ruolo di Miglior Giocatore (MVP). Giannis ha il fisico del campione navigato e la faccia da bimbo, una miscela infernale e decisiva per chiunque provi ad abbassare la guardia davanti al 34 dei Bucks, che grazie a lui sono sempre più una contender.

Duecentoundici centimetri di precisione quando va in attacco, di cattiveria agonistica quando va a stoppare. Un greco che ha stregato tutti, che ha messo anche lui sulla sua canotta un pizzico di perfezione del 3, chissà che davvero allora la simbologia non abbia un fondo di verità nell’analizzare questi concetti. Perché così come Harden e George, anche il giovane europeo ha delle sinapsi talmente attive da evolversi in continuazione, tanto da non fermarsi mai ad aspettare, ma pronte ad andare avanti senza sosta.

Cinque minuti di superiorità greca.

Menzioni speciali: Curry, Durant & Co.

Anche quando l’attenzione non è rivolta a loro, un piccolo trafiletto bisogna pur farlo. Del resto loro sono stati MVP (due volte Steph e una volta Kevin) e, guarda un po’, anche sulle loro canotte appare il numero 3. Il 30 per il ragazzo di Akron, il 35 per l’ex Thunder e Sonics.

Stephen Curry ha stretto forte tra le mani per due anni di seguito anello e premio MVP, andando a riscrivere la storia dei Golden State Warriors. E con lui, in questi ultimi anni anche Kevin Durant, un altro talento passato per Oklahoma City, che ha preso il largo dalla città per quel titolo che gli mancava, quasi vilmente secondo alcuni. Eppure quello che gli scout e gli osservatori cercano, è sempre la parte ludica e fondante di questo gioco: la superiorità.

La lotta per l’MVP è talmente serrata che fino alla fine si vedranno tutti i possibili accoppiamenti tra il Premio e il vincitore. Sicuramente i tre di cui abbiamo parlato prima hanno più di qualche piede verso la “finalina” a 3, verso quel concetto di superiorità che chi decide riesce ad ammirare come non mai. Ma quando sul parquet hai ancora giocatori che sparano triple come fossero arance in un cesto e altri, come Russell Westbrook, che viaggiano con la tripla doppia di media, allora significa che la gara per stabilire il Most Valuable Player può davvero durare più di qualche semplice scrollo di spalle o tiro di palla. E soprattutto che forse non è sempre detto che sia un semplice 3 a decidere tutto.

L’anno passato fu il Barba a vincere il titolo di MVP della Regular Season

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