Chi vi accompagnerà tra queste righe è un tifoso della Fiorentina a cui il sangue Viola scorre dentro. Il lavoro non mi permette di essere troppo sentimentale. Anzi, talvolta, più distaccati si è, e meglio si analizzano certe situazioni. Naturalmente, in alcuni casi, se sei dentro ai meccanismi tutto quadra più velocemente e l’interpretazione ne giova. Però un giornalista non può farsi trascinare troppo dalle emozioni.
Ma mi è stato chiesto di raccontarvi una storia. E ho deciso di raccontarvi quella della Fiorentina di Claudio Cesare Prandelli che, in parte, è un po’ anche la mia. E quindi una manciata di sentimenti ce la devo mettere.
Scusatemi.
Ah, tranquilli, non sarà una sviolinata a livello locale, piuttosto un racconto che molti di noi – appassionati di questo sport e seguaci di una determinata fede – hanno vissuto in ambiti e con personaggi diversi: con lo stesso brivido che ci assale quando riemergono determinati ricordi.
La Viola di Prandelli
Sarà un qualcosa in salsa fiorentina. Purtroppo – o per fortuna – ci sentiamo diversamente uguali agli altri. Siamo estremamente attaccati a quella che consideriamo la città più bella del mondo. Non siamo provinciali. Bensì ci sentiamo unici. Non possiamo farci niente, risiede nel nostro DNA. Come l’essere allo stesso tempo simpatici e burberi.
Cesare, Toni e furmini
Agosto 2002.
O meglio, 10 giugno 2005.
La prima è la data in cui i Della Valle rilevano la Florentia Viola; il secondo è il giorno in cui Claudio Cesare Prandelli viene presentato in sala stampa come nuovo allenatore della Fiorentina.
C’era una volta…
Avevo otto anni e la fede Viola si era palesata nella sua massima esposizione l’anno precedente, quando Christian Riganò si avvicinò al dischetto del rigore, decisivo per la salvezza. Frequentavo il Franchi fin dalla Serie C2. Non sarebbe potuto essere altrimenti.
Dio perdona, Riga no.
Di conseguenza, in quella stagione (2005/2006) eravamo nuovamente ai nastri di partenza della Serie A, con la speranza di patire più forti. Arrivarono fior fiori di giocatori: Frey, Montolivo, Dainelli, Donadel e compagnia. Ma soprattutto sbarcò a Firenze Luca Toni.
Una stagione magnifica, al di sopra di ogni aspettativa. La partita da ricordare è sicuramente l’ultima, oltre ogni vittoria stagionale. Ci giochiamo l’accesso ai preliminari di quella Champions League scippata dal Tribunale. Da Calciopoli. Da tutto ciò che avverrà successivamente.
Quel giorno la tensione era a mille, e il Chievo di Giuseppe Pillon era tutto fuorché domo. L’ennesimo sigillo di Toni, il trentunesimo di un campionato magico, scaccia per un attimo la paura. Quello di Dainelli, invece, apre le danze. Quel sogno svanito poco tempo dopo si intreccia con un ricordo fotografico: il numero 30 con la parrucca viola che festeggia in mezzo al terreno di gioco del Bentegodi, mentre Firenze pensa nuovamente in grande.
Sogni infranti (o no?)
25 luglio 2006
Luca, rimani vero?
Sarà stata più o meno questa la conversazione tra Andrea Della Valle e Luca Toni nell’estate del 2006. L’attaccante, dopo essere salito sul tetto del mondo in Germania, scelse il giglio.
-19 nel campionato 2006/2007.
Questa la seconda sentenza di Calciopoli, dopo l’iniziale possibilità di una retrocessione in B. Più una penalizzazione che impedirà alla Fiorentina di partecipare alle coppe europee. Tutto rimandato. Tutto buio. Luce spenta. Le ferite del fallimento avvenuto quattro anni prima erano troppo fresche per essere lenite solamente dai buoni propositi. Non ci si perde d’animo: Mutu, Santana, Liverani. Tra gli altri. Si forma la spina dorsale della squadra del ciclo Prandelli.
Il campionato inizia con quattro sconfitte consecutive e quindici punti in meno in classifica. Terminerà con la qualificazione in Coppa UEFA, la miglior difesa, il terzo miglior attacco e un virtuale terzo posto con 73 punti.
2-1, 2-2, 2-3
2 marzo 2008
In campionato, durante quegli anni, ci furono tante partite epiche. Quella che è rimasta più impressa nell’immaginario collettivo fiorentino è sicuramente la vittoria contro la Juventus a Torino. In rimonta. Ancora oggi i tifosi viola hanno un coro per ricordare l’evento.
Non fu una gara banale, perché a deciderla furono due personaggi che fino a quel momento non avevano destato sospetti. La rete della vittoria fu segnata da Pablo Daniel Osvaldo, ma l’azione – e il giocatore – che tutti ricordano è Papa Waigo, senegalese nel cuore di Firenze. Uno come tanti, semplice e sorridere. Partiva da dietro nelle gerarchie. Da molto dietro. Un funambolo imprevedibile. Il gol del pareggio lo insaccò lui, consegnandosi alla memoria dei posteri. Ancora oggi, per le vie della città, alla domanda chi è il Papa? la risposta è sempre una: Waigo!
La leggenda del cucchiaino
1 maggio 2008
Ricordo molto bene la cavalcata in Coppa UEFA. Il vero punto focale però risiede nelle gare contro Everton, PSV e Rangers. Il gol di Christian Vieri ai gironi contro il Villarreal, i calci di rigore contro gli inglesi, dove Frey si esalta e Santana ci porta ai quarti di finale. Brividi.
La sera di Eindhoven, Mutu mi fece impazzire. E diede alla testa anche al povero Gomes, trafitto due volte dal Fenomeno. Quella notte, in Olanda, raggiungemmo la semifinale.
Davanti i Rangers, la squadra più chiusa, compatta e anticalcio che abbia mai visto. Tutti dietro e il solo Darcheville davanti, un giocatore con tutte le caratteristiche per essere schierato come pilone a rugby. Però nel calcio conta chi segna e quella sera, in Scozia, finì 0-0.
Le chiavi della finale erano al Franchi.
Tensione a mille. Io, a cena insieme agli amici pronti a guardare la partita. Dieci anni e un Mondiale appena vinto. Abbastanza per sognare. I parziali scorrono con una trama ben distinguibile: la Fiorentina fa la partita, il Rangers si difende senza lasciare il minimo margine di manovra. Le occasioni latitano. Io ho in mano il cucchiaino del gelato, e lo sto maltrattando dallo sgomento. Quasi come se fosse un amuleto per scacciare la paura.
A ogni intervallo tra i vari tempi, corriamo in terrazza a giocare a basket, tanto per scaricare. Poi c’è il momento della lavatrice, io devo porgere il mio cucchiaino. E lì probabilmente si è spezzato l’incantesimo. Andiamo ai rigori: Liverani sbaglia – proprio lui, dai piedi magici – e Vieri lo segue a ruota. Le leggende sull’errore di Bobo si susseguono ancora.
Con il magone in pancia torno a casa. Era finita. Il giorno della finale avevamo amici di famiglia a cena. Non potevo far altro che buttare l’occhio ogni tanto. Lo Zenit era riuscito dove noi avevamo fallito, scavalcando il muro di Darcheville.
Dai Matteo, spostati
18 maggio 2008
Non c’era verso. Non si dava per vinto. E loro in contropiede rischiavano di farci capitolare. Ma lui, Matteo Sereni, era insuperabile. Le prendeva tutte. Così come il suo collega Sebastien Frey. Conclusioni su conclusioni, tentativi su tentativi. Matteo Sereni le prendeva tutte. La Fiorentina era attaccata anche al risultato del Milan, io invece ero incollato al televisore anche con le retine che non avevo.
Cos’è il genio? recita una celebre frase di Amici Miei. A me viene sempre da rispondere Osvaldo. Pablo Daniel, naturalmente. Come mi ha fatto sobbalzare lui, in pochi ci sono riusciti. La trama non è distante da quella di un classico film sul calcio: attaccano, attaccano, ma la palla non entra. O non vuole entrare. Quasi rischi di perderla. Intanto sull’altro campo qualcuno ti sorpassa. Scenari triti e ritriti. Quel giorno l’immagine sulla locandina se la prese lui. Con quell’aria da attore alla Jhonny Depp.
Martin Jorgensen la scodellò nel mezzo con un tocco talmente morbido da far rilassare. Osvaldo vinse il corpo a corpo, addomesticò la sfera di testa e con una rovesciata perfetta abbatté il muro issato da Sereni.
Mutu d’orgoglio
15 febbraio 2009
Genoa-Fiorentina, da qui passa un pezzo di Champions League. I padroni di casa partono forte, con quella squadra forte di Milito e Thiago Motta. Primo tempo, 2.0. Secondo tempo, subito rigore per la formazione di Gasperini: 3-0. Sembra ormai una disfatta, a Marassi il clima è quello delle grandi vittorie. Anche io, seduto sul divano, ho perso le speranze. Sono veramente sfiduciato. Neanche la prima rete di Mutu mi dona coraggio. Poi accade l’impensabile: il romeno la ribalta fino a quell’acuto a tempo ormai scaduto, con tutta la Fiorentina che si riversa in campo.
Una rimonta epica. A fine anno sarà fondamentale per la qualificazione in Europa. Una delle massime espressioni di quella squadra, della sua forza e del talento di Adrian Mutu.
Un campeggio sulla costa spagnola
18 agosto 2009
Niente, in quel ristorante, in quel campeggio, la partita non la facevano vedere. Internet all’estero, la wifi (come dicono in Spagna) e gli altri metodi tecnologici erano lontani, così come la mia Fiorentina, impegnata a Lisbona. Io invece ero bloccato a quel tavolino, con mio nonno che mi inviava i messaggi che per ansia e tensione sembravano essersi persi alla frontiera. Sporting Lisbona-Fiorentina terminò 2-2. Ci pensò il ragazzino con i riccioli al ritorno, dopo ci arriviamo. Intanto eravamo ai gironi di Champions League, finalmente.
La vita è uno Jojo che oscilla tra i riccioli e Liverpool
29 settembre 2009

La città era in trepidazione, come quando una madre assiste a un evento che la rende orgogliosa del proprio figlio. Se ripenso a quel 29 settembre 2009, anche io cado in un nostalgico silenzio prima di iniziare a scrivere. Ricordo ancora tutto come se quegli attimi fossero stati stampati nel mio codice genetico. Nel pomeriggio era un cresimando: dopo la messa, partimmo in motorino alla volta dello stadio. Alla polo elegante venne sostituita la maglia Viola numero 22 di Kuzmanovic: pantaloni bianchi e divisa della Fiorentina, un binomio così diverso ma con un tocco di autenticità necessario per quella serata. Settore Maratona, e i brividi che salgono ancora fino alla testa ogni volta che ci ripenso.
Jovetic, Jovetic

Da record
9 dicembre 2009
Solo la location faceva sognare da sola. Entrammo ad Anfield per il riscaldamento e le facce erano la rappresentazione concreta dell’emozione. Li avevamo sconfitti all’andata, ma giocare in casa loro era tutta un’altra cosa. Soprattutto se lo fai in uno dei tempi del calcio. Una formazione quasi inventata da Prandelli, in cui De Silvestri viene schierato esterno d’attacco. Lo ricordo ancora. E poi c’era Martino Jorgensen. Sprofondammo quando Benayoun fece 1-0. Il danese però pareggiò. In caso di vittoria, saremmo passati per primi nel girone. Il Liverpool sarebbe stato condannato al terzo posto e quindi alla retrocessione in Coppa UEFA. La partita era ormai finita, mancava solamente il fischio finale.
Anche questo spezzone tagliatelo e inseritelo nel film dei vostri sogni.
Juan Manuel Vargas corre sulla fascia, alza la testa e con un cross dei suoi mette un pallone tagliato nel mezzo: tra i due centrali spunta Alberto Gilardino. Ricordo solo lo sbraitare e gli occhi che, appena riescono a mettere nuovamente la loro traiettoria sulla televisione, ammirano i tifosi Viola giunti a Liverpool e i giocatori che si sono buttati direttamente nello spicchio riservato agli ospiti. Insomma, eravamo agli ottavi. Lo steward sta ancora cercando di fermare il Gila.
Quel maledetto fuorigioco e la traiettoria di Robben
17 febbraio 2010, 9 marzo 2010
Il punto più alto. L’ultimo atto prima della fine. A gennaio Prandelli chiede rinforzi: Palombo e Cassano, tanto per fare due nomi. Arrivano Bolatti e Keirrison, sintomo delle prime scorie un amore, quello tra il tecnico, Corvino e la proprietà, sgretolatosi nel giro di pochi mesi.
La doppia sfida al Bayern Monaco rappresenta gioie e dolori. Due prove esemplari, di cui essere orgogliosi.
Andata
Per Kroldrup aveva acciuffato il pareggio prima che l’arbitro fischiasse al quarantacinquesimo. Poi nel finale accadde l’imponderabile. Miroslav Klose segna in netto fuorigioco, una scena che indigna e costringe il guardalinee addirittura a cancellarsi da Facebook per la rivolta dei tifosi. Ovrebo non arbitrerà per un po’. Ma intanto i bavaresi vincono 2-1 in casa. Successe di tutto quella sera. L’indignazione lasciò spazio alla carica. L’orgoglio venne fomentato dalla voglia di rivalsa. L’avversario era più che ostico, la convinzione era altrettanto elevata.
Ritorno
Una gara da grande squadra. Stavamo per passare. Poi Arjen Robben mostrò al mondo cosa è in grado di fare un campione. Il guizzo del fenomeno. Traiettoria imparabile anche per Sebastien Frey. 3-2 per i Viola, ma non basta: l’avventura europea però finisce lì. Tra mille rimpianti, ancora non digeriti. Uscire in quel modo, alla luce della gara d’andata, in virtù della regola delle reti in trasferta, era veramente doloroso. E lo è pure oggi.
L’epoca Prandelli
A Firenze passarono grandi giocatori: da Toni a Gilardino, da Vargas fino a Ujfalusi. Passando per i gregari come Zanetti, Semioli e Marchionni, ma anche pilastri come Kroldrup, Dainelli e Gamberini. Ci furono poi Frey, Mutu, Montolivo, Jovetic. Una nidiata di talenti, di ragazzi che ci hanno sempre messo il cuore come Donadel. Una partecipazione alla Coppa Uefa e due alla Champions League, uniti a campionati formidabili e calciatori che facevano sognare. Una Fiorentina che in Toscana non verrà mai dimenticata. Una Fiorentina che ha incarnato il vero sangue Viola di questa città.
La Fiorentina di Claudio Cesare Prandelli.