Si dice che alcune storie siano fatte per essere raccontate. Per essere prese e modellate da parole ed espressioni, liberandole dall’incantesimo di un tempo che tende a lasciarle invecchiare, senza curarsi di quante siano le rughe tra una virgola e l’altra. E forse, proprio per quest’incessante capacità della fantasia e della realtà di piegarsi tra i meandri di un orologio e delle parole, si può contestare questo modo di dire. Permettetemi di modificarlo così: “le storie sono fatte per essere vissute“. Quella di Elisa Di Francisca, mamma da 16 mesi e neocampionessa ad Algeri, merita di essere vissuta.
C’era una volta
A noi esseri umani piace viverle. Ci piace entrare dentro una realtà che vogliamo sia nostra, nella quale desideriamo addentrarci. Magari anche edulcorandola in qualche maniera, modificandone certi aspetti, trasformandone altri. Basta che si viva. Basta che sia nostra.
E per quanto si racconti, una storia non riuscirà mai a entrare dentro e toccare un’anima con la stessa profondità di chi quel momento l’ha vissuto. Il protagonista è e sarà sempre l’unico ad avere chiaro fino in fondo un quadro che solo gli anni potranno cancellare, nonostante le parole possano girare di bocca in bocca trasformandosi, cambiando sostanza. Perdendosi in quel limbo tra realtà e racconto fittizio.
Ed è per questo che forse, e dico forse, le storie devono essere vissute, non raccontate. Emozionando, permettendo alla nostra fantasia di credere che anche se qualcosa non è stato vissuto in prima persona, un domani potrà essere così. Non sono forse le storie a dare forma ai sogni?
Non sono forse proprio le storie a creare i sognatori di domani?
Una mamma
Elisa Di Francisca. Campionessa olimpica a Londra nel 2012. Già se si partisse da qui, la storia da scrivere sarebbe chilometrica. Però a volte è meglio partire dalle battute finali, non dall’inizio.
Sabato 24 novembre, Algeri. In tutto il mondo l’attenzione principale era focalizzata sulle varie manifestazioni per l’eliminazione della violenza sulle donne; ma nella capitale algerina, un’azzurra di 36 anni, che già aveva eliminato il demone della violenza e della cattiveria, si è presa i riflettori della scherma mondiale nella prima prova di Coppa del Mondo di fioretto femminile.
Fino a qui niente di strano. Se non fosse che Elisa Di Francisca mancava da una competizione internazionale da due anni. A Rio l’ultima gara, in quella finale olimpica che le valse l’argento, meravigliosa conferma dopo l’oro di Londra. In mezzo a queste medaglie, dal Sud America sempre più turbolento in queste ore al Nord Africa, un figlio.
Ettore. Quel sogno che le mancava, quella storia che ancora non aveva scritto, che ora ha messo nero su bianco aggiornandola ogni momento.
Un nome importante per chi conosce l’epica. Il nome di un eroe omerico che difese la sua patria e le sue mura, che combatté fino alla morte per quello in cui credeva. Probabilmente Ettore crescerà con l’idea di perseveranza tatuata nella mente, con quella voglia di difendere i propri desideri e i propri sogni, scrivendo la sua storia, così come la madre ha fatto.
Elisa Di Francisca ha fatto in modo di far tornare a gridare il suo nome, in un palazzetto dove qualsiasi schermitrice che le si è trovata di fronte ha dovuto arrendersi a quella fame che la jesina non ha mai perso. Che anzi, ha fatto in modo aumentasse in questi 24 mesi senza competizioni, nutrendola con un digiuno tale da non essere più sopportabile.
E’ tornata, vincendo. Mangiandosi la pedana, divorando una dopo l’altra le connazionali, le asiatiche, le russe. Tutte. E ha lasciato la terra d’Algeria con una storia in più da raccontare al suo ritorno, a quel figlio che sembrava fosse il coronamento di una vita vissuta ad alta velocità, che ora è il nuovo punto di partenza per un sogno: Tokyo 2020.
O forse due
Al contrario di Elisa Di Francisca, a Londra, la pisana Martina Batini non faceva parte della spedizione. Sarebbe entrata in squadra due anni dopo (2014), con un doppio argento conquistato tra Strasburgo (Europei) e Kazan (Russia), perdendo entrambe le volte con la Di Francisca e con la Errigo.
Ma così come l’atleta marchigiana, anche la fiorettista toscana ha deciso di inserire nella storia della sua vita, una virgola azzurra, Leonardo. Un punto di forza dal quale ripartire, da prendere come stimolo per ricominciare a calcare pedane che da un anno non la vedevano più tra le partecipanti.
Anche lei ad Algeri aveva fame, aveva voglia di dimostrare che a 29 anni ha tutto il diritto e la capacità di poter annoverarsi tra le migliori del mondo. Per sé stessa, per tutti quegli sforzi fatti negli anni, che l’hanno portata a un passo dall’Olimpo, tra quelle nubi che stanno appena al di sotto della cima della montagna. E sapendo che la roccia frana, che non sempre è stabile come si vorrebbe, Martina si è munita di corda bella spessa, si è messa le scarpe giuste, ha infilato la mano nel guanto che da tanti anni ha come seconda pelle.
È tornata per finire la scalata, per provare a prendersi quegli ultimi centimetri che la separano da un oro individuale mancato per un soffio a Europei e Mondiali. Così anche Martina avrà una storia da raccontare, rendendola un’appassionante sogno per quei figli della scherma che tanti esempi hanno da ammirare, che cercano sempre più stimoli ai quali aggrapparsi.
Che con personaggi come questi, non possono far altro che innamorarsi sempre più di questo sport.
Come finisce una storia
Nasce. Si sviluppa, crescendo autonomamente. Continua.
No, la storia non muore. Si evolve, cambia nome, si trasforma, rallenta, accelera, balza oltre i confini del tempo. Ma la storia non può morire.
Elisa Di Francisca e Martina Batini sono l’esempio di due donne che hanno cominciato a scrivere la loro storia molti anni fa. Non si sono mai fermate, sono sempre andate avanti, cercando di aggiungere paragrafi e capitoli a quella che sembrava avere una conclusione, che ha sempre avuto virgole e mai punti. Le virgole sono state Ettore e Leonardo, sono state la fame di medaglie e la voglia di ori e allori, sono state quell’inchiostro che è l’amore incondizionato per lo sport e per la vita.
A questo punto si potrebbe forse modificare la frase iniziale in un modo definitivo:
“le vite sono fatte per essere raccontate; perché sono il racconto di queste a creare i sogni negli oratori di domani”.