L’Argentina ha consegnato al calcio pagine di letteratura di cui è facile abusare. Terra dall’irresistibile fascino sanguigno, segnata da un rapporto viscerale con il cuoio, che nei campi di periferia rimbalza incerto e irregolare, come il profilo di molti ragazzi delle villas che li calcano. Quella di Pablo Aimar, è una di quelle storie che ha sofferto il peso e la grandezza di un paese, che ha visto nascere sotto i propri occhi alcuni tra i più grandi interpreti del fútbol. Li ha visti approdare in Europa, concedendo soltanto a pochi di loro la gloria di conseguire successi e trofei, lasciando a tutti gli altri il fardello del giudizio e del confronto.
Se l’Europa ti seduce, ti vizia e poi ti abbandona senza soluzione di continuità, il barrio non ti lascerà mai. Ti riaccoglierà senza far sentire quel suono stridulo e aspro del rimpianto. È disposto ad andare persino contro la legge, affinchè tu possa dimenticare tutto il resto. Come ha fatto Oscar Daniel Melero, un artista cordobino che ha scolpito una statua di Pablo Aimar a Rìo Cuarto, sua città nativa. Lo ha fatto senza autorizzazione alcuna da parte delle istituzioni cittadine, per le quali è vietato dedicare un monumento a persone ancora in vita. Per aggiungere un altro pizzico di fanatismo a questa storia tipicamente argentina, è stata eretta in Plaza del futbolista, dichiarando apertamente che si trattasse di un calciatore qualunque, nonostante la folta chioma ed il luogo di nascita corrispondessero perfettamente a quelle del Payaso.
Prima di continuare però, vorrei dare il giusto apporto musicale. Una milonga, por favor.
En bajofondo
Julio y Pablo, espressionisti di Rìo Cuarto
La ciudad di Rìo Cuarto, una città di 140.000 abitanti a sud di Cordoba, si è ritagliata il suo piccolissimo spazio nella storia del ‘900 nell’arco di appena trent’anni. Esattamente la distanza che intercorre fra la nascita di Julio Ducuron e Pablo Aimar. Se Ducuron ha iscritto il suo nome nel campo della pittura, l’arte più rappresentativa, possiamo affermare con certezza che da quelle parti la scena artistica del pallone, intesa come arte popolare, sia stata espressa attraverso le gesta calcistiche di Aimar. Entrambi lo hanno fatto con un comune denominatore, tanto fine come il loro inconfondibile tratto, quanto espressivo nella forma di quel che hanno rappresentato durante la loro carriera.
Julio Ducuron ha sempre pensato la sua arte figurativa come un sentimento soggettivo attraverso cui relazionarsi al mondo. Naturalista convinto, riteneva che il colore desse significato al contesto e non il contrario. Per cui anche un paesaggio di natura morta, realista e apparentemente oggettivo, debba risplendere con toni accesi, luminosi, riempiti di senso e quindi di immaginazione poetica. La tavolozza di Julio, sempre pregna di tonalità vivaci, dipinge perfettamente i tratti distintivi del calcio argentino. Tratti che in Pablo Aimar ricalcano quella corrente espressionista che ne esalta i valori emotivi, con la padronanza tecnica di cui dispone e una certa contemplazione poetica nel modo in cui intende l’arte del gioco.
Questo suo senso “espressionista”, in grado di racchiudere tutte le percezioni della profondità dell’animo, è stato anche il suo flagello in alcuni momenti decisivi della carriera. Quei momenti in cui razionalismo, e tutto ciò che è percepibile oggettivamente agli occhi, diventano predominanti. Aimar non ha mai concepito la razionalità e il minimalismo nella sua mente come forma espressiva. Ha sempre cercato la concretezza attraverso l’estetica, un abbinamento che, una volta affacciatosi al calcio europeo, ha bisogno di compromessi per manifestarsi. Non è un caso che la storia calcistica di Aimar sia stata segnata profondamente da sole tre città. Buenos Aires, Valencia, Lisbona: le sole tre piazze che hanno capito la sua esigenza, e che in cambio hanno ricevuto fedeltà e gratitudine. Lasciando ai propri tifosi il ricordo di un giocatore in grado di produrre istantanee dall’inestimato valore emozionale, in momenti estasianti di calcio.

Gli anni a La Banda
Per un timido ragazzo della provincia cordobina, essere catapultati a Buenos Aires è la sfida più grande a cui si possa attingere. Lo stesso Pablo ha sempre ribadito che quello sia stato lo scoglio più difficile da superare durante la sua carriera, più del suo trasferimento in Europa, più di qualsiasi altra cosa. Non era tanto una questione legata alla cancha, per Aimar non è mai stato un problema di campo, quanto un timore legato al contesto della metropoli. La sua riservatezza e il suo apparente distacco verso tutto ciò che stava al di fuori del rettangolo verde, non era adatto alla vitalità e al contorno mediatico che respirava una città come Baires.
Daniel Passarella lo chiamò al River, prelevandolo dall’Estudiantes de Rìo Cuarto appena quattordicenne. Con Los Millo è arrivato da impacciato Payasito qual’era, chiamato così per la sua estrosa capigliatura che ricordava quella di un clown. Se n’è andato da Mago, incantando una nazione intera, vivendo un quinquiennio idilliaco di magia pura e trionfi, che tutt’ora dalle parti di Núñez sperano possa ripetersi. L’hanno ribattezzata La Maquinita, il magico River Plate di metà anni ’90 che ha dominato il calcio argentino: due titoli di apertura, uno di clausura, una Copa Libertadores e una Supercopa Sudamericana.
Equipazo.
Preso sotto l’ala protettiva di un monumento del calcio uruguagio come El Prìncipe Enzo Francescoli, un giovanissimo Aimar ne faceva dignitosamente parte, dispensando geometrie con giocate di rara classe ed eleganza. Nei primi anni di apprendistato con La Banda, giocava sprazzi di partita con Ràmon Diaz in panchina, al cospetto di straordinari interpreti come Salas, Ortega e Fabian Ayala. Nel frattempo, lo si poteva ammirare da protagonista al Mondiale Sub-17 ’95 in Ecuador, poi nel Sub-20 del ’97. La selezione che ha partecipato e vinto nel ’97 in Cile, poteva disporre di una generazione che di lì a poco avrebbe scritto la storia recente del calcio argentino. El Mago Payasito era il giocatore più rappresentativo, assieme a lui, a condividere la trequarti, un altro ragazzo introverso dall’intelligenza calcistica sopra la media. Il suo nome è Juan Román Riquelme, che di Aimar sarà avversario di tanti Superclásico Boca-River, tra i più entusiasmanti di sempre a cavallo tra gli anni ’90 e 2000.

Il migliore amico di Pablito è Javier Saviola, di cui è stato compagno al River Plate. Assieme hanno preso le consegne di quella macchina perfetta che li ha visti giovani comparse. Un ideale passaggio di testimone, la cui cerimonia si svolgeva sulla cancha dello stadio Monumental ogni qualvolta ne mettessero piede. Sebbene El Conejo fosse ritenuto dallo stesso compagno il più forte tra i due, Aimar ha potuto togliersi qualche soddisfazione maggiore. Il rapporto che si creò in quegli anni fra i due è durato fino al termine della carriera. Una stima reciproca profonda, nata da un feeeling naturale con il pallone, consolidata nelle sofferenze di chi porta i segni di numerosi infortuni, che ne hanno frenato la definitiva consacrazione europea. Si sono ritrovati nel 2015 al River, con l’intento di scrivere un solenne epilogo, finito per essere un revival nostalgico dai contorni agrodolci.
Un quarto d’ora di mistica applicata al calcio contro il Rosario Central, con la hinchada in estasi e la partita in corso che perde repentinamente di importanza. Un quarto d’ora e nulla più: la sua caviglia non è in condizioni ottimali per proseguire, sceglie dunque di ritirarsi a 35 anni. Dirà, con la sua solita quiete d’animo, che quella è stata la partita più emozionante della sua carriera, ed è durata appena quindici minuti.
L’introduzione riservatagli dal telecronista, in quegli istanti prima di ricalcare il prato del Monumental, è quanto di più caratteristico possa mostrare il fútbol argentino. Il personaggio di Aimar risiede esattamente fra il sacro ed il profano, con tutta l’epica della narrativa che ne consegue.
Enganche purisimo
Ai tempi del River Plate Aimar era una delle stelle del campionato argentino, uno di quelli che ha influenzato una generazione successiva di calciatori per la sua classe cristallina. Più di tutti, Leo Messi, che a quei tempi era un adolescente con problemi ormonali piuttosto seri. Problemi che gli costarono il passaggio al club del suo idolo, perchè ritenuta un’operazione troppo dispendiosa, date le spese per curare il suo nanismo ipofisario.
Gioca rapido, pensa rapido, prima di ricevere palla sa già quale sarà la sua prossima mossa. Sono impressionato dalla sua velocità di pensiero, da come distribuisce il gioco e dalla sua qualità dei suoi passaggi.
Le parole della Pulce, all’epoca in procinto di lasciare Rosario e il Newell’s Old Boys per passare al Barcelona, ritraggono la figura di Pablo Aimar come un mentore calcistico. Un modello non soltanto tecnico, ma anche caratteriale, nello stare in campo e nel rapportarsi ad esso, nel modo di trattare il pallone e scandire i tempi di gioco. Con la grazia di chi ha ricevuto un dono essenziale, una sensibilità differente. Tutto questo, messo al servizio degli altri. Le sue giocate, i suoi passaggi, non si prendevano mai la scena, erano sempre finalizzati a creare gioco per i compagni e metterli in condizione di rendere al meglio. El Payaso era uno di quelli che faceva giocare bene gli altri, e lo faceva sembrare l’unica cosa che gli importasse davvero.

Ho sempre associato i mediocampisti albiceleste ad una milonga invece che ad un tango. La differenza è molto sottile: la milonga ha un passo leggermente più marcato. Predispone un invito al ballo, necessita di adattamento alle diverse carattetistiche del partner. Così come un enganche purisimo fa con i suoi compagni: si adatta a loro per trovare un punto di incontro. Era questo che faceva Aimar, ti cercava, ti consigliava la cosa giusta da fare, te la dava, se la faceva ridare. Senza farti pesare una statura qualitativamente imponente. Come un milonguero che batte il tempo in 2/4, lui controllava il pallone e quello che gli accadeva attorno, fermava il gioco e lo faceva ripartire. In Argentina, la figura dell’enganche, il trequartista che funge da collante fra i reparti, è l’anima del gioco. Significa passione, sentimento, ed Aimar ne è stato uno degli interpreti più brillanti. Il motivo va oltre le caratteristiche tecniche, Pablito amava giocare, il resto non aveva importanza, e questo in Argentina ti eleva a simbolo popolare a prescindere dalle maglie che hai indossato.
Golazo al Sub-20. Tiki Tiki, una variante tutta gergale del più famoso tiki-taka, tra Saviola, Riquelme e Aimar in un Argentina-Venenzuela. Divertirsi con la palla tra i piedi, per il solo amore del gioco.
Una milonga, por favor
Non mi piace stare al centro dell’attenzione, la cosa mi mette a disagio. Come ha detto Fabian: me ne sono andato in silenzio, così come sono arrivato.
Alla domanda su una possibile partita d’addio al Monumental, ha risposto citando il suo ex compagno Fabian Ayala, giocatore di tempra eccezionale di cui nutre grande ammirazione. A Lisbona, ai tempi del Benfica – ultimo suo grande palcoscenico – non ha mai parlato in portoghese perchè semplicemente se ne vergognava, ritenendo che lo parlasse malissimo.
Recentemente hanno destato parecchia attenzione alcune sue dichiarazioni – e questo è qualcosa di molto insolito – in merito alla passione sportiva del calcio amatoriale, a detta sua di gran lunga più coinvolgente di quella del calcio professionistico. È lì che, secondo lui, si conserva un certo attaccamento ai valori di questo sport, con tutte le problematiche e le contraddizioni che si porta dietro una cancha di periferia. Aimar lascia il ricordo di una persona estremamente lucida, che talvolta sorprende per la sua umanità spontanea. Un anti-eroe a tutti gli effetti, legato esclusivamente a sentimenti primordiali che suscita questo gioco.
