Dite la verità: avete visto un campionato più futuristico della Premier League? Già, perché da un punto di vista tecnico-tattico e di competitività media delle squadre – anche al di fuori dei confini nazionali – i club inglesi si sono rivelati in notevole crescita, sintomo di un campionato destinato ad essere sempre più globale e al centro delle attenzioni del mondo calcistico.
Ma proprio per quest’ingente e sviluppata globalizzazione, il livello s’innalza drasticamente. Stare al passo con tempi e ritmi, per alcune squadre, diventa quasi un’impresa stoica, una di quelle da raccontare agli eventuali nipotini.
E il tifoso dello Stoke, ai propri nipotini, dovrà raccontare dell’amara retrocessione 2017/18.
I Potters pagano una stagione veramente sottotono da ogni punto di vista, figlia di una progettazione sbagliata e fin troppo ambiziosa per il vero valore della squadra. Shaqiri & co. sono i principali candidati ad essere la delusione dell’anno.
Procediamo per gradi.
Sognare troppo in grande
Ma, come siamo giunti a questa situazione? Forse sogni troppo grandi per una realtà piccola?
O forse, l’abbandono dell’anima tipicamente operaia ha giocato un ruolo incisivo?
Dall’arrivo di Mark Hughes in poi, lo Stoke sembrava indirizzata per abbandonare gradualmente quest’anima, così grezza e romantica, che da anni contraddistingueva questa realtà. I Potters sono passati, in qualche stagione, dall’essere la classica squadra da 0-0, in grado di difendere col coltello tra i denti anche il punto più insignificante, all’esprimere un calcio non proprio eccezionale soprattutto per una qualità offensiva più che discreta.
Le gittate chilometriche di Rory Delap incarnavano alla perfezione lo spirito dello Stoke.
Alle sue rimesse la società ha preferito un gioco verticale, tambureggiante – quantomeno idealmente – facilmente intuibile da acquisti in linea con la nuova idea di gioco: nomi alla mano, la campagna acquisti non sembrava presagire una Caporetto: Jesè, Zouma e Choupo-Motig sembravano poter garantire quel salto di qualità che Hughes stava cercando da anni, lo Stoke iniziava quindi la stagione 2017-18 inseguendo un posto tra le prime 10 cercando magari di insidiarsi nella lotta per la qualificazione all’Europa League.
La distanza tra sogni, ambizioni e realtà si è però rivelata abissale.
La partenza dei Potters è stata subito un ostacolo troppo grande per poter essere ammortizzata – solo 5 vittorie nelle prime 19 partite – ma soprattutto un gioco, fattore che pareva ormai fondamentale per Hughes, diventato totalmente sterile in entrambe le metà campo.
Più che una mancanza di qualità – i vari Shaqiri, Allen e Diouf sono comunque riusciti in qualche maniera a tenere in piedi la baracca – lo Stoke ha sofferto una totale mancanza di idee e una progettualità che ha pensato troppo all’apparenza.
La dirigenza biancorossa ha pagato un errore già commesso da altre squadre inglesi, indipendentemente dal livello: il mercato non sostituisce il lavoro. Non lo farà mai, e il lavoro tattico-dirigenziale di alcune squadre inglesi è storicamente scarno.
Come se non bastasse, lo Stoke non può permettersi di riunire un’acozzaglia di buoni giocatori nella speranza che la qualità venga amalgamata: ci vuole equlibrio, un equilibratore oltre che gestore della situazione. Questa sconsiderata progettualità ha portato, quindi, la squadra in un vortice di risultati e prestazioni al limite dell’imbarazzante, nemmeno l’arrivo in panchina di Paul Lambert – uno che ha avuto a che fare con l’Aston Villa, altra realtà caduta in rovina per motivi abbastanza simili – ha potuto qualcosa e, anzi, le cose sono andate sempre peggio: due sole vittorie in tutto il girone di ritorno, score che non poteva che condurre ad una così tragica retrocessione.
Non a caso, anche i numeri parlano chiaro: lo Stoke in questa stagione ha segnato 34 reti in 38 giornate, calciando in porta con una precisione del 40% ed ha creato poco più di 7 occasioni a partita, il tutto viaggiando al clamoroso ritmo di due reti subite ogni 90 minuti. Statistiche simili, facendo forse eccezione per la precisione al tiro, avrebbero portato presumibilmente alla retrocessione in tutti i maggiori campionati europei – e non – sinonimo di quanto questa versione britannica dell’Armata Brancaleone fosse destinata ad un epilogo simile.
Lo Stoke, da parte sua, non ha mai dato la piena percezione di poter controllare gli influssi negativi e condurre la stagione in maniera fluida e serena: lo ha fatto, in maniera troppo sporadica, dalla vittoria contro l’Arsenal al bellissimo pareggio contro lo United, ricordi sbiaditi e scuciti da scivoloni soprattutto interni.
Perdere 0-3, in casa, contro il West Ham ancora a secco di vittorie esterne ha sancito iconicamente e irrevocabilmente la caduta psicologica dello Stoke. Da quel momento, giornata dopo giornata, la propria identità si è dissolta come nebbia al sole.
Perdere la propria identità
Al di là di tutti i discorsi tecnici e tattici, che comunque permettono al meglio di comprendere i motivi di questa disfatta, la spinta decisiva verso il baratro è stata data da una progressiva ed inesorabile perdita d’identità.
Riuscite a ricordare cosa fosse, o meglio cosa significasse lo Stoke nel panorama calcistico inglese?
Andare a giocare a Stoke-on-Trent era, per chiunque, un autentico inferno, voleva dire soffrire dal primo all’ultimo minuti, sia per portare a casa dei punti ma anche dal punto di vista fisico. I Potters sono stati, prima di questa tragica stagione, l’impersonificazione dello spirito calcistico inglese, quello fatto di lanci lunghi, grande intensità e giocate al limite del legale: tutte caratteristiche che quest’anno, ovviamente, sono mancate.
Analogo, in un certo senso, sembra il caso del West Ham, che ha voluto rinunciare al suo fortino, al suo valore asggiunto, l’irrestibile Upton Park. Decurtato quel valore aggiunto, gli Hammers hanno perso i punti di riferimento, si è ritrovato in una casa che non sentiva propriamente sua.
La casa, dello Stoke, è rimasta immutata. Eccetto il nome.
Piccoli dettagli, minuziosi, interpretabili in maniera chiaramente soggetiva. Bet365 Stadium non è la nomenclatura che i tifosi desiderano, non è l’equo riconoscimento al sudore versato in dieci anni di grezze battaglie in Premier League. Ma la questione si estende, perché lo Stoke ha voluto fare il passo più lungo della gamba.
Sulla carta potrà sembrare semplice, ma portare una squadra storicamente catenacciara ad una impostazione molto più basata sul possesso e la qualità dei singoli è un’idea complicata e veramente difficile da applicare, soprattutto in un così breve intervallo di tempo.
Tante volte nel calcio ci si dimentica dell’aspetto mentale, tipicamente venale, quel fattore che nella maggior parte dei casi permette di fare veramente il salto di qualità ma che, se sottovalutato, porta a risultati inspiegabili che nessuna soluzione tecnica è in grado di curare.
I Potters han provato letteralmente a costruire uno sfarzosissimo e costosissimo castello su fondamenta di sabbia; nessuno all’interno dell’ambiente era pronto per un salto del genere, tutti lo sapevano,
Ma nessuno ha voluto ammetterlo, probabilmente. Non viviamo a Stoke-on-Trent quindi non possiamo sbilanciarci oltre.
Non vorremmo viverci, adesso. Non vorremmo percepire nitidamente la delusione, il rammarico, ma soprattutto il fallimento dello Stoke: laddove Robbie Williams nacque, e laddove alcune vie si sono appropriate delle sue hit più celebri. A 6 miglia dall’ex Britannia – ci piace chiamarlo ancora così – sorgono Candy Lane, Supreme Street e Angels Way, tutte comunicanti fra loro.
Ora, le sue melodie, non risuonano più come prima. Risuonano canzoni internazionali, ma non abbastanza per tenere il passo delle altre. Un po’ come la Premier League, che lo Stoke abbandona dopo dieci lunghi e intensi anni: ci mancheranno i cari vecchi Potters, robotici come Peter Crouch e imponente come Ryan Shawcross, storica bandiera pronta a risollevare le sorti della sua squadra.
Una cosa è certa: rimane tangibile il fallimento dello Stoke.
Anzi, fallimenStoke.
Bonus Track
Normally I like to celebrate when I score but I’d like to apologise to Stoke City and their fans, I wish my goal didn’t relegate you, but you’ll be back soon! Great club with great fans ??
— Patrick van Aanholt (@pvanaanholt) May 5, 2018
L’unica soddisfazione di una stagione tetra. Van Aanholt segna il gol retrocessione e si scusa.
Le scuse, però, dovrebbero arrivare dalla società, a tutto l’ambiente Stoke. Dovrebbero…