Il numero di partite, di giocate, di rimbalzi e punti, la mania di stoppare sul tabellone o di rubare palloni di mano in mano. E ancora gli schemi chiamati da rimessa, le uscite dai blocchi, i tiri dall’arco e quelli liberi, i falli inutili e quelli antisportivi, gli assist a liberare le conclusioni perfette da tre. Tutto, ma proprio tutto, non è mai abbastanza per definire e amare completamente un match NBA.
Questo perché quando si va a vedere una partita del campionato più bello del mondo, ci si aspetta sempre e comunque qualcosa di eccezionale, sia da parte di quel nome in lizza per la giocata più bella della serata, sia da chi vuole avere riscontro e visibilità partendo dalla panchina. Queste righe sono dedicate a tutti quei giocatori che partono seduti per dimostrare quanto valgono, che approfittano di ogni singolo secondo di partita per dimostrare il loro reale inserimento negli schemi della squadra.
Lo sanno i vari Teletovic e Terry, che insieme hanno accumulato 35 minuti di gioco e 16 punti in due, più o meno quanto ha fatto da solo Jabari Parker, che di punti ne ha fatti però 28. Sì, sono i Bucks quelli di cui si sta parlando, una delle squadre che più di tutte tra le papabili ‘next generation teams‘ sta lavorando sodo e raccogliendo i frutti maturati con pazienza, come le giocate fenomenali di quel Giannis Antetokounmpo ancora una volta in doppia doppia (30 punti e 14 rimbalzi). Stavolta è stata Chicago a dover subire le galoppate lungo campo del greco, che ha rimesso in parità il numero di vittorie e sconfitte per la sua Milwaukee: 12-12, stesso numero di partite perse dei Bulls, una vittoria in meno dei tori dell’Illinois. Come al solito, Wade e Butler hanno fatto il loro lavoro, mettendo a referto quei 41 punti che da soli hanno significato quasi la metà del punteggio poi raggiunto; mentre Taj Gibson, tanto per rimanere in tema di giocatore che con la panchina fa molto spesso la spola, ha chiuso con 19 punti e tanta soddisfazione sul viso, inutile però in fatto di finale, visto la sconfitta per 108-97.
Per una squadra che sorprende, ce ne sta un’altra che ormai non è più una sorpresa da tre anni a questa parte, quei Golden State Warriors che da quando hanno fatto sedere Steve Kerr sulla loro panchina continuano a ondeggiare a un ritmo infernale sul campo da gioco. Gli ottimi Knicks di un Porzingis decisamente al di sotto di ciò che realmente sa fare, ma soprattutto rispetto a quello che sta abituando i tifosi di New York a vedere, sono usciti sconfitti per 103-90 contro i vice campioni in carica, ricchi e forti dei loro uomini di punta: Steph Curry e Klay Thompson, KD e Draymond Green. Fanno quasi paura solamente a leggerli, figurarsi a giocarci contro. Onore ai vinti, che giusto nel primo quarto hanno subito uno strappo più profondo da parte di Curry&co., ma che hanno provato (inutilmente) con carattere a rimanere aggrappati al match. Forse sono ancora acerbi, ma considerando che la crescita di Porzingis è davvero esponenziale e il talento e l’esperienza infinita di Anthony sono decisamente due fattori rilevanti, di sicuro New York potrebbe tornare a far parlare di sé anche nei Playoffs.
Così come faranno, e come già fanno da svariati anni a questa parte, gli scudieri di Popovich, gli Spurs che viaggiano con un 21-5 sul tabellone della classifica Ovest, dietro solamente ai Warriors appena citati. Nello scontro diretto hanno già avuto la meglio contro i californiani, mentre nella notte, per non perdere distanza dalla vetta, hanno passeggiato su Phoenix per 107-92. Quattro giocatori su cinque del quintetto titolare sono andati in doppia cifra: Leonard, Aldridge, Parker, Gasol. Dire che sono nomi altisonanti potrebbe addirittura sembrare un eufemismo. I 20 turnover che Popovich si è permesso di fare, non hanno fatto altro che confermare che anche la panchina ha capito cosa fare e come farlo quando è chiamata in causa; chiedere a Mills, Simmons, Ginobili (ci mancherebbe!), Anderson per sicurezza. Peccato per i Suns, che di talento ne hanno, il problema è che non hanno ancora capito come gestirlo. Booker e Bledsoe sono le due punte di diamante di una squadra che sta cercando un’identità ormai persa dai tempi di Nash e D’Antoni, ultimi baluardi di un basket giocato divertendosi e facendo divertire. Sarebbe bello immaginare che un giorno, magari molto presto, il mix di gioventù e bravura nascosta tra le mani di questi ragazzi, possa venire fuori dalle ceneri di un team malmenato da troppo tempo, per risorgere come la fenice che portano nel nome.
E mentre si aspetta Phoenix, il redivivo Gallinari ha portato alla vittoria i suoi Nuggets, con 27 punti che allontanano da lui critiche e malelingue decisamente troppo lunghe nell’ultimo periodo. Un ragazzo distrutto dagli infortuni, spesso lontano dal campo, ma ogni volta che ci tornava ha sempre risposto presente a chi si fidava di lui. E stanotte l’ha nuovamente dimostrato, insieme a tutta la squadra che ha chiuso in doppia cifra la partita (tranne Nurkic e Murray), segnale importante per un roster che finalmente ha capito che non è con il singolo che si risolve la gara, bensì con il gioco di squadra. In più, la squadra sconfitta sono stati i Blazers di Lillard, ancora mostruoso con 40 punti e 10 assist, ma troppo solo in quella rincorsa durata quattro quarti dietro ai ragazzi della montagna. Il solo McCollum e l’orgoglio di Plumlee (Mason) non sono bastati per far sì che Damian avesse compagnia e idee sul campo, lasciato con la quindicesima sconfitta a referto.
Un’altra vittoria non scontata è stata quella di New Orleans, decisamente inferiori ai Pacers, decisamente più rabbiosi e vogliosi di vittoria. Così è stato: 102-95 per Davis e compagni, nona vittoria su 27 partite giocate finora in campionato. Come al solito è stato il numero 23 a trascinare i Pelicans, con 35 punti e 16 rimbalzi, frutto del talento di un ragazzo che probabilmente non durerà un altro anno nella città del jazz. Fortunatamente stanotte Hield e Jones hanno dato una bella mano al diamante ‘monocigliato’, e un super Jrue Holiday non ha voluto essere da meno con una doppia doppia da 16 punti e 14 assist. Delusione assoluta i Pacers di un Paul George attivo in zona punti, ma troppo spesso distante dal gioco; molto meglio Jeff Teague, l’innesto estivo arrivato da Atlanta, che in questa prima parte di stagione sta giocando come meglio sapeva fare con gli Hawks, dimostrando a Indianapolis cosa voglia dire lottare e non mollare neanche un centimetro. E così sta insegnando a Myles Turner, sempre più attivo nella rotazione della palla, sempre meglio inserito nel gioco che lo porta a concludere e segnare, a fare della sua potenza un’arma micidiale per le difese avversarie. Un centro di belle speranze, che sta trovando finalmente la giusta chimica tra fisico e tecnica, che sta cercando di accendere la luce nei momenti di oscurità dei Pacers.
Per questo servono le panchine. Perché qualche notte, in NBA, i giocatori sono stanchi, sono privi di idee, svuotati dentro, sin nel profondo. E lì, nel momento di buio che attanaglia quelle menti troppo sotto pressione, sono sempre pronte quelle lampadine che non vedono l’ora di accendersi sul parquet, cariche per quelle notti in cui non si vedono le stelle, ma dove qualcosa deve pur brillare.