Lunga vita ai ribelli, a chi si ammutina, ai rinnegati. Lunga vita ai matti, ai folli, ai combattenti. Lunga vita ai caratteri forti, difficilmente smussabili e incredibilmente testardi.
Lunga vita alle anime dannate, ai senza dio, ai figli dell’anarchia. Lunga vita a chi corre da solo, a chi è odiato da molti e amato da nessuno, a chi non si arrende, a chi vive veloce e spericolato, agli Steve McQueen e ai Vasco Rossi.
Insomma, lunga vita a Marko Arnautovic.
Già Marko Arnautovic, talento maledetto, piede da campione e testa da fuorilegge: vita spericolata e menefreghismo a livelli altissimi.
Mourinho lo definì “il più folle che avesse mai allenato” e, in effetti, è anche difficile trovare un modo migliore per descriverlo.
Nell’annata interista il suo compagno di stanza era Mario Balotelli, e pure lui, rimase stupito dall’imprevedibilità, extracalcistica s’intende, dell’austriaco, il che è tutto dire.
A posteriori, non sappiamo come sia possibile che quella camera non sia saltata in aria: dai, sfidiamo chiunque a dire di non aver mai sognato di passare una serata con due personaggi così insieme.
Delle medaglie al valore, forse è questo il modo in cui Arnautovic hai sempre interpretato tutte le definizioni che gli sono state date, “pazzo”, “folle”, “incosciente” e chi più ne ha più ne metta.
Non poteva che andarne fiero, del resto lui è quello che si potrebbe definire un “Renegade”, un “rinnegato”, uno con tanti nemici e pochi amici, un personaggio al limite, costantemente sopra le righe.
Ce l’avete presente il personaggio interpretato da Lorenzo Lamas? Ecco lui è quel genere lì, in motocicletta a dare la caccia ai cattivi del mondo: poco importa poi che i cattivi magari non siano realmente dei cattivi, ma solo dei suoi personali antagonisti. Oppure dei suoi limitatori, perché un personaggio del genere non puoi racchiuderlo in uno schema o in un codice di comportamento, devi lasciarlo libero di agire, deve darsela da solo la classica regolata.
Non è un caso che l’unico allenatore sotto cui abbia convinto realmente sia Mark Hughes che non ha fatto altro che usare la stessa tecnica che Phil Jackson utilizzò con Dennis Rodman nei Chicago Bulls degli anni ’90, ovvero giudicarlo solo per le sue prestazioni sul terreno di gioco, senza la pretesa di cambiare la testa di un matto.
Compito semplicissimo all’apparenza ma in cui, in parte McLaren e completamente Mourinho e Thomas Schaaf avevano fallito.
Certo, sicuramente gran parte, se non la quasi totalità, della colpa è imputabile al caro vecchio Marko ma, si sa, la pazzia va compresa e allenatori a cui poco piace scendere a patti, come il tedesco e il portoghese, non possono che fare fatica con personaggi così.
Che poi, “fatica”, Mou avrebbe anche vinto il triplete nella stagione di Arnautovic all’Inter, ma questa è un’altra storia.
A proposito di Triplete, ci sarebbe gente pronta a vantarsi per quei titoli sino alla fine pur non avendo sfiorato il campo: non Marko però, lui ha sempre detto di non sentire suoi quei trionfi, quasi non sapesse l’affetto con cui i tifosi dell’Inter lo ricordano, un po’ per i bei tempi che erano un po’ perché da quelle parti i giocatori pazzi sono sempre stati amati. Ricorda molto Lukaku al Chelsea in questo, deciso a lasciare Stamford Bridge per conquistare un trofeo che sentisse suo.
Vi state ancora chiedendo perchè lo amavano?
Non che a lui sia mai importato tanto dell’amore e della riconoscenza. Ne sa qualcosa l’Inter, punito da un suo gol nella Champions League 2010/11 o lo stesso Werder, definito come “discarica” prima di prendere il volo per Stoke On-Trent.
Ne saprebbe qualcosa pure Mourinho, a cui ha segnato uno dei gol che hanno contribuito al suo esonero nella passata stagione. Come se non sapesse che in serbo Arnaut significa assassino, quando si dice il destino nel nome.
Like a boss, pardon, like Zlatan.
Restiamoci un attimo su quel gol, un meraviglioso gesto acrobatico, quasi impensabile per un ragazzone di 1 metro e 92. Quella rete poteste pensare, anzi, sicuramente pensereste che l’avesse messa a segno un altro figlio della terra jugoslava, che con Arnautovic ha in comune, oltre al codino(fino a poco tempo fa) e alla fine del cognome, anche la turbolenta infanzia lontana dalla terra dei padri.
Ovviamente stiamo parlando di Zlatan Ibrahimovic, calciatore(parola estremamente riduttiva per descriverlo) a cui Arnautovic è stato costantemente accostato nei primi anni di carriera.
Un paragone che ha sempre pesato sull’austriaco, come da lui spesso ripetuto più volte e dal quale si è liberato solo negli ultimi anni, quando hanno smesso di affibbiargli l’etichetta di “quello che poteva essere il nuovo Ibra”.
Anche perché ormai si parla solo del suo rendimento sul campo, delle sue prodezze e dei suoi gol. Quello spirito tendente alla “criminalità”, anche grazie alla paternità, ha lasciato spazio ad un uomo maturo; la ribellione, la follia, l’anarchia le ha trasportate tutte in campo, al di fuori non è rimasto niente tranne quel suo look da eternamente dannato.
È bello pensare che un ribelle tale abbia trovato la retta via nella non certo meravigliosa Stoke, con un clima a dir poco rigido tra vento(tanto) e pioggia(altrettanta).
Qualche tempo fa ha addirittura ammesso candidamente il motivo del suo flop meneghino, dicendo che, tra belle donne e serate, non faceva proprio la vita del calciatore modello e guadagnarsi spazio tra Milito, Eto’o, Pandev, Sneijder e Balotelli diventava un’impresa in quelle condizioni.
Magari un giorno gli si presenterà un’altra occasione con una grande squadra e, chissà, magari potrà vincere un trofeo importante, sentendolo finalmente suo, chiudendo idealmente quel cerchio iniziato da 20enne impertinente.
Per ora resta solo quel ragazzo rinnegato da tutte le sue ex squadre e tremendamente sicuro di se e, almeno in questo, ad Ibra ci assomiglia proprio.