“Troviamo sollievo nello sport proprio perché non ha senso: perché il suo dramma è espresso in numeri, e i numeri non contengono alcun peso morale.”
Martin Langford
Funziona in questo modo: più vittorie si fanno, meglio ci si piazza nella classifica per i Playoffs; meno partite vinte ci sono in tabelloni, meno possibilità ci sono di partecipare alle eliminazione dirette primaverili. Molti già lo sanno, tanto che il primo pensiero potrebbe andare a districarsi tra i mille motivi che hanno portato varie squadre a effettuare turnover o a cambiare quintetti iniziali, ma sicuramente se qualcosa del genere è stato fatto, significa che il coach in questione ha programmato il tutto.
Tutto nel basket è diventato una questione di numeri, un insieme di fattori decisamente fondamentali quando si parla di rimbalzi, assist, tiri da tre, da due, dal lato debole, dalla lunetta. Insomma, statistiche e percentuali stanno diventando una costante decisiva nel mondo sportivo in generale, nel basket più in particolare, follemente imprenscindibile nell’NBA. Si guarda a tutto e al contrario di tutto: a come si tira, come si difende, come si salta a rimbalzo; con quanta precisione, cura, determinazione si fanno le cose, come si eseguono gli schemi. Ormai è tutto strumentalizzato da quei computer che sono diventate macchine compagne del team di allenatori in ogni roster.
Ma squadre del calibro di Cleveland ha davvero bisogno di tutto ciò? Di contare il numero di cose fatte da ogni singolo giocatore, per poter decidere se mandarlo in campo o meno? Sicuramente in una squadra che l’anno passato ha vinto l’anello, non bisognerebbe mai togliere, per nessun motivo, talento e l’inventiva di LeBron e Irving, necessariamente simbiotici in un team che ha disperatamente bisogno di loro e di Love per macinare punti e, soprattutto, quelle famose vittorie di cui si parlava prima, ma da lì a cercare di trovare il perfetto sesto uomo o il cambio ideale in base a ciò che dice un pc, potrebbe diventare follia. In ogni caso una vittoria è arrivata nella notte, la 20esima, dopo aver battuto 113-102 i Milwaukee Bucks dell’ex Dellavedova, insignito dell’anello vinto la scorsa stagione. Per quanto Antetokounmpo abbia fatto il fenomeno e Parker abbia provato a stargli dietro, i Cavs hanno dimostrato di essere non per caso i campioni, rimanendo in totale controllo nell’arco di tutto il match.
Così come hanno fatto i Rockets di Harden, un altro che ultimamente, con D’Antoni in panchina, ha cambiato modo di giocare e maniera di pensare: semplicità di gioco e lavoro di squadra, questo il nuovo mantra di ‘the beard‘, che nuovamente mette a segno una doppia doppia, con quella tripla che quando manca sembra quasi eresia per quanto ha abituato bene i propri tifosi. Ma che i texani giocano di squadra si vede soprattutto dal fatto che tutti vanno a punti, in doppia cifra, con percentuali (bisogna parlarne, sennò ci si sente male) che mancavano l’anno passato in maniera disarmante, che stanno rimpolpandosi pian piano con il lavoro dell’ex coach di New York e Phoenix. E proprio i Suns sono stati gli sconfitti, con un 125-111 dove il solo Booker ha risposto presente alla chiamata della mandria di Houston, troppo forte e compatta per poter essere domata. Bledsoe, Chandler e Knight hanno provato e riprendere la scia, ma quando chi sta davanti va troppo veloce, raggiungerlo è difficile.
E intanto Chicago continua a rimanere un punto di domanda bello grande, con 14-13 di record, con l’ultima vittoria contro Detroit che sembrava aver ridato fiducia dopo tre sconfitte di fila, che in realtà non ha riacceso niente nei cuori dei ragazzi della città del vento. I Wizs di un super John Wall e di un altrettanto splendido scudiero di Washington Bradley Beal, hanno guidato alla dodicesima vittoria i propri compagni, anche loro decisamente sfiduciati da una stagione che non sta andando proprio come si sperava, ma che ultimamente stanno risalendo la china con una striscia di sette vittorie su dieci partite. Non saranno sicuramente i maghi di Gilbert Arenas, ma il roster che possiede il talento del #2 e del #3 non può non ingranare prima o poi. Peccato per Chicago, che con Wade sembrava poter fare quel salto di qualità che non era riuscita a fare con Rose, ancora di più con un Butler che sembra ormai convinto fino in fondo delle proprie qualità tecniche e fisiche, ma che alla fine dei conti non riescono del tutto a dare lo strappo quando serve. Per carità, sempre una vittoria in più rispetto al numero di sconfitte, ma i campanelli d’allarma sono tanti e continui: la squadra appare stanca, sempre troppo provata, non in grado di reggere il ritmo NBA. Solo colpa dei giocatori o anche Hoiberg c’entra qualcosa?
Di sicuro, a Oklahoma City un giocatore è l’artefice di tutto il bene che sta portando alla propria città, con la sedicesima vittoria contro i Pelicans che arriva, ancora una volta, per mano di Russell Westbrook, il numero 0 che può averlo stampato solo sulla maglia. 42 punti e 10 rimbalzi, ennesima doppia doppia, ennesima sgranarsi di occhi sugli spalti, ennesima magia di un ragazzo che sta trascinando praticamente da solo i Thunder verso i Playoffs. La vera domanda è capire se resisterà a lungo, dato che le 82 partite dovrà giocarle tutte, senza considerare le serie di Finals alle quali sono destinati ad arrivare. Kanter e Adams sono due ottimi compagni, ma finché si gioca contro New Orleans riescono a fare la differenza, magari anche a trovare 14 rimbalzi (Kanter); ma quando le partite diventano più tirate e gli avversari più forti? Saranno in grado di mantenere qualità e testa nel match? Sicuramente i Pelicans non saranno mai in grado di farlo, dato anche il solo Davis sempre più perso nei meandri del suo talento, unico rifugio e alleato in una NBA che lo erge a talento, che lo sta vedendo marcire lentamente. I 34 punti e 15 rimbalzi lasciano intendere che il 23 di NO potrebbe stare tranquillamente alla pari con gli altri giovani promettenti, anche se così giovane poi lui non lo è più. Il problema più grande è che fino al 2020 ha un contratto da 145 milioni (tanto per rimanere in tema di numeri), oramai molto più importanti, per la generazione del consumo, di un trofeo.
Continuare a disprezzare il fatto che questo sport venga giocato non più per passione e voglia, ma solamente perché gli stipendi sono sempre più alti, lascia intendere che non esisteranno più le ‘bandiere‘ o i simboli, come sono stati Tim Duncan o Kobe Bryant, Michael Jordan o Larry Bird; non che venissero pagati poco, sia chiaro, ma quando andavano in campo volevano vincere davvero, e se ciò non accadeva non si lasciavano andare a risatine menefreghiste da ‘tanto mi pagano lo stesso‘. No. Si rimboccavano le maniche, continuavano a lottare, perché sapevano che solo con il sudore si poteva raggiungere il risultato e, alla fine dei conti, quello che per loro più contava era vincere. Quindi la domanda è: cos’è più importante e soddisfacente, vincere o andarci vicino? La risposta potrebbe essere che non importa, che ‘tanto mi pagano lo stesso‘, che alla fine è soltanto una questione di numeri e che l’anima non viene intaccata, perché i numeri non hanno peso morale.
Altri risultati:
MIN-ATL 92-84; MEM-DET 98-86; SAC-UTA 94-93; DAL-POR 96-95