Il Barcellona supera di misura l’Atletico Madrid con un gol su punizione di Messi. Per Simeone è giunto il momento di mettere in discussione le proprie metafisiche, ancor prima delle reali gerarchie del calcio spagnolo.
La coscienza del Cholo, pt.1
Davanti ai microfoni, le parole di Simeone crescono e ascendono di valutazione in valutazione, variano nevroticamente, tentano di restare contenute lì, dove nulla può far male: la conferenza dell’allenatore argentino è una seduta psichiatrica. Esordisce con una dura rassegnazione basata su dati impropriamente oggettivi: «E’ molto difficile, per non dire impossibile, vincere la Liga anche perché negli ultimi anni hanno vinto sempre Real Madrid e Barcellona». Impropriamente, in quanto soltanto quattro anni fa erano proprio i Colchoneros a laurearsi campioni di Spagna. E nel 2014, anzi, l’Atletico di Simeone era sì una sorpresa, pur piacevole, introdottasi nel sempiterno binomio antitetico Real Madrid-Barcellona. Quattro anni dopo, la squadra del Cholo è riuscita a consacrare il proprio valore anche all’interno delle gerarchie europee.

Dalla vittimistica modestia della prima affermazione, le parole di Simeone lasciano intravedere una prima base di verità: «Andiamo a giocare contro una rivale che ha numeri che parlano da soli. Una squadra che sta facendo una stagione fantastica e la partita sarà decisa dai dettagli». Ecco, l’ultima affermazione è una rivendicazione del rimosso. Il subconscio del mister argentino riaffiora attraverso la considerazione standardizzata di una gara decisa, appunto, “dai dettagli”. In sostanza: “il Barcellona è imbattibile, ma io posso far sì che siano i dettagli a deciderla”, gli stessi che hanno reso l’Atletico Madrid di Simeone un’icona di cinismo ed efficienza da 100 su 100, in quanto la lode è sfumata per ben due volte, prima a Lisbona e due anni dopo a Milano.
Terza fase: encomio a Valverde. «Ha risolto con successo il problema legato alla partenza di Neymar, cambiato un sistema che aveva funzionato con successo per molti anni, facendo vedere a tutti che il Barça può giocare anche col 4-4-2». Anche in tal caso, Simeone non ha voluto ammettere l’oggettività dei fatti. Il Barcellona ha pareggiato quattro volte nelle ultime sette partite, riducendo in campionato un gap che sembrava incolmabile fino a gennaio. E figuriamoci, quindi, se Simeone non abbia già trascorso ore e ore davanti alle ultime gare dei blaugrana per individuare quelle difficoltà che, in un modo o nell’altro, hanno permesso di riaprire i giochi della Liga, senza tralasciare l’insipida prestazione di Stamford Bridge contro il Chelsea. Certo, resta interessante notare come il Cholo abbia sottolineato che la capacità di Valverde sia stata anche quella di aver permesso al Barcellona di virare al 4-4-2, modulo prediletto dell’Atletico e simbolo del decantato cholismo.
L’obiettivo è arrivare alle ultime cinque giornate con delle possibilità. In quel caso avremo delle chance. Mancano 12 partite e tutti siamo in corsa per qualcosa. Andremo a giocare al Camp Nou come andassimo sul campo del Villarreal, del Siviglia, del Leganés o di qualsiasi altra squadra.
Convergere al futuro per non gravare di pressioni il presente: caro Simeone, non ti crediamo. In Spagna in molti sono estremamente consapevoli che la gara in casa del Barça possa rappresentare un punto di svolta fondamentale per l’esito di una nuova Liga e per la formale dichiarazione di guerra al titolo da parte dei Colchoneros. Simeone e i suoi uomini, come l’esercito di Annibale giunto in Italia dalle Alpi, potrebbero mettere sotto scacco Roma assediandola, o recarsi più prudentemente a Capua.
Costa – Suarez: ribelli al servizio
Sono violenti, fastidiosi, caotici e straordinariamente efficaci. La presenza di due punte come Diego Costa e Luìs Suarez nei rispettivi attacchi non è fondamentale solamente per la fase di realizzazione, ma anche per l’impostazione della manovra, per il recupero del pallone sulla trequarti e per garantire un maggiore raggio d’azione a Griezmann, da una parte, e a Messi, dall’altra. È la testarda e costante occupazione degli spazi che permette infatti ai due rispettivi compagni di reparto di poter controllare brillantemente la concretizzazione della fase offensiva. L’argentino blaugrana ha pressoché ormai preso possesso dell’intera trequarti campo: è l’inevitabile regista, playmaker e terminale del Barcellona di Valverde, al momento capocannoniere della Liga. Ridurre a un ruolo marginale o di sponda l’operato dell’uruguayano sarebbe però oltraggioso: è Suarez a garantire i tagli in attacco da parte degli esterni e del centrocampo blaugrana, è il numero 9 a portare avanti la squadra, a mantenere alto il baricentro anche nei momenti più critici in cui il Barcellona tende a livellarsi su Messi, costringendo l’argentino a rinunciare a metri di centrocampo per stazionare più avanti.
Nell’altra sponda, l’Atletico si serve di un obelisco come Diego Costa, attaccante pesante, “rumoroso”, talvolta insostenibile per le difese avversarie. Costa ha concesso all’Atletico quella dose di frenetico agonismo che in attacco evidentemente mancava e che aveva causato non poche difficoltà sotto porta durante la prima parte di stagione. Da gennaio, però, con l’ispano-brasiliano i Colchoneros hanno potuto vantare finalmente di una punta adatta al calcio di Simeone, congeniale già quattro anni fa, in grado di coprire l’atipico ruolo di “primo difensore”: in pochi, infatti, e di certo lui rientra fra i primi al mondo, riescono così egregiamente a sostenere fisicamente l’intero peso di una difesa avversaria, pressandola già durante la prima fase d’impostazione. Diego Costa tende ad annientare la difesa avversaria sotto ogni punto di vista, finché il malcapitato marcatore non risenta del rozzo, caotico ma imprescindibile supporto nei confronti dei suoi compagni d’attacco.
Nella gara del Camp Nou inscenata ieri pomeriggio, il duello a distanza fra i due attaccanti ha premiato inesorabilmente il numero 9 del Barcellona. Il primo tempo di Suarez rientra pienamente nei piani previsti da Valverde: i ritmi estremamente intensi, sanciti anche dall’elevato tasso tecnico della compagine blaugrana, garantiscono la costante mobilità del 9 in area di rigore,che tenta anche di imbucare fra i difensori avversari sulle verticalizzazioni di Iniesta e di Coutinho. È però nel secondo tempo che prevale con superbia la tenace figura dell’uruguayano. Il Barça degli ultimi venti minuti appare stremato fisicamente al punto da riporre le ultime forze sul suo attaccante di ruolo, eroicamente volto al totale sacrificio e dunque in grado di mantenere da solo, o con il rapido ausilio di Coutinho e di Messi, il controllo a zona della difesa colchonera; riesce così ad allungare la squadra almeno fino alla metà campo, elemento fondamentale in un momento della gara in cui il centrocampo dell’Atletico aveva rinunciato a ogni pretesa contenutistica, fino ad addossarsi da solo, il peso di Godin e i contrasti di un ottimo Gimenez, per continuare a correre ancora a testa alta in avanti, rivisitazione moderna di un Forrest Gump inserito nella cornice del Camp Nou.
Intensità blaugrana
Il Barcellona domina i primi 45 minuti. Messi è eterno, imprendibile, imprescindibile: onnipresente sul campo e sul tabellino. Ennesimo gol su punzione: che meraviglia! Valverde decide di impadronirsi da subito della la partita per spostarla sul proprio scacchiere. Realizza la sua strategia appropriandosi di una caratteristica tipica dei suoi avversari: l’intensità e l’aggressività a centrocampo. L’Atletico tenta di colpire i blaugrana con i tagli in verticale sulle trequarti, vista la posizione alta della difesa avversaria, ma l’obiettivo si mostra estremamente arduo di fronte ad un Barcellona così “mobile”, capace di dimostrare quell’intensità dispersa qua e là, in parte a Londra, in parte presso le Isole Canarie. Il 4-4-2 di Valverde è totale.
Il Barça pone in rilievo la propria struttura autoreggente di fronte ad una squadra certamente più fisica e capace di cogliere il momento giunto per ripartire in contropiede. Non la gioca in centrocampo, ma staziona superbamente presso l’area avversaria, permettendo così il pieno coinvolgimento delle ali e delle mezz’ali di centrocampo. L’Atletico viene annullato da un pressing alto tipicamente blaugrana, ma che non mostrava da tempo. La squadra del Cholo è chiusa in sé stessa di fronte alle qualità dei padroni di casa; infastidisce, e non poco, lo stesso Coutinho, tassello aggiunto per duttilità tattica, che contro l’Atletico soprende soprattutto nell’inedita mansione di copertura e di interdizione. Il numero 14 diventa così un elegante incontrista nel momento del bisogno: chi l’avrebbe detto che proprio al Barcellona avrebbe mostrato tali capacità, per la prima volta?
L’espressione più significativa della sofferenza da parte dell’Atletico risiede nell’operato di Griezmann rivolto verso per lo più verso la propria area di rigore, costretto costantemente a ripiegare sugli esterni per far avanzare di qualche metro il baricentro della propria squadra, o tentando forzatamente la via del cross o del rapido contropiede. Il secondo tempo, comunque, mostra una diversa veste dell’Atletico. Probabilmente il Cholo ha compreso in ritardo che non sarebbe bastato attendere, ma che bisognava attaccare fin da subito Roma, prima che questa riprendesse le piene forze. I Colchoneros vedono dunque, per la prima volta, il volto di Ter Stegen.
La coscienza del Cholo, pt.2
Riprende con il secondo tempo un nuovo affresco psicologico di Simeone. Il Cholo vive in corso d’opera un vero e proprio romanzo di formazione basato sull’accettazione del rimosso. Nel primo tempo prevale l’Io, timido, prevalentemente incontrista, succube dei propri timori, vittima dei propri sentimenti irrefrenabili si infrange immediatamente in una teatrale smorfia di commozione durante il minuto di silenzio rivolto alla memoria di Enrique Castro ‘Quini’, blaugrana dei primi anni ’80 scomparso il 27 febbraio e, purtroppo, a quella di Davide Astori, capitano del club in cui milita il figlio Giovanni, che aveva avuto modo di conoscere durante la sua esperienza d’allenatore in Serie A e, più recentemente, in occasione delle visite per il figlio a Firenze.
Nel secondo, invece, l’allenatore argentino appaga il proprio Es e lancia l’Atletico all’attacco con un simil 4-2-4: Simeone si rende così conto della reale valenza della partita in corso, dell’occasione irripetibile di potere infrangere le gerarchie che ancora lo costringono a sottolineare come il campionato sia un’eterna corsa a due fra Real e Barcellona. Così, per tentare di sovvertire i sistemi vericistici presenti e futuri, Simeone rinnega la prima grande metafisica del suo universo calcistico, abbattendo il cholismo.
In realtà, l’Atletico, pur propositivo rispetto alla prima frazione di gioco, non è mai riuscito a ottenere un reale controllo della partita. Spazzata via ogni inibizione, Simeone ha dunque riposto la fiducia nei suoi uomini migliori, adesso supportati dagli ingressi di Gameiro e di Correa; sotto porta, però, gli attaccanti restano in penombra, specialmente Griezmann, incapace di entrare nel vivo del match, di reagire ai costanti coast to coast di Jordi Alba, frenato di fronte all’attenzione dei due centrali del Barcellona e nella ricerca di un’alternativa efficace al blocco effettuato su Diego Costa. Ci si aspettava di più, insomma, anche per via del momento di forma con cui si era presentato. Inutile non ammetterlo. I Colchoneros ci provano comunque fino al 90’, ma non basta.
Il ritorno di Simeone a Madrid è una doccia fredda, tradito dall’insicurezza di chi vorrebbe essere il primo della classe, ma che si arrende perché il compagno più bravo resterà in ogni caso migliore di lui. L’argentino, d’altronde, di fronte ai microfoni del post-partita reagisce con orgoglio, incanalando la delusione per la disfatta nel genio di Messi («Lionel è un giocatore unico. Se gli avessimo messo la nostra maglia avremmo vinto noi», Simeo dixit).
Resta però più o meno obiettivo che il 4-4-2 di Simeone al Camp Nou abbia fallito, in quanto stavolta ha mantenuto come unico iniziale obiettivo uno sterile contenimento delle forze avversarie, che sì, è pur vero che se non fosse stato per la solita prodezza di Messi, magari adesso si starebbe parlando di un’altra partita, ma che risulta altrettanto chiaro come l’Atletico del primo tempo non sia per nulla sembrata una squadra consapevole di dover soffrire in quella maniera.
La ripresa lo ha denudato dei suoi aspetti più fragili, mostrando inoltre la debolezza di una squadra ancora claudicante di fronte ai top club europei, come se, anche dopo una vittoria contro di queste, com’è accaduto negli ultimi anni in Europa, si tratterebbe pur sempre di un’impresa: dell’impresa del cholismo. La reazione del secondo tempo, però, tanto caotica quando carica di agonico orgoglio, ha mostrato che, in realtà, l’Atletico di Simeone sperava in un’altra eroica prestazione e che credeva davvero, benché inconsciamente, di poter provare a ripetere la meravigliosa annata del 2014. Una viva e naturale paura ha rimosso gli inerziali timori dalle storiche insicurezze: il Camp Nou è stato lo studio ideale per una simil seduta psicanalitica e i Colchoneros faranno sicuramente tesoro di questa psicodrammatica esperienza.