Piccola premessa: analizzare lucidamente quel che è successo ieri sera è difficile, difficilissimo. Difficile non spaventarsi e soprattutto non provare un forte senso di empatia girovagando dentro la testa degli argentini, nela loro anima particolarmente ferita. Sappiamo bene quanto la delusione sportiva – non riapriamo la pagina svedese – possa trafiggerti nel petto, e sappiamo quanto sia stata negativa questa sconfitta per l’Argentina di Sampaoli. Forse non lo sapremo mai, per davvero, se non entriamo in contatto con chi, quei 90 minuti, li ha vissuti nella propria pelle: o quantomeno, proviamo a dialogarci.
Forse, servono tecniche di psicoanalisi per approfondire le dinamiche di Argentina – Croazia.
Ma, diciamocelo, non siamo psicologi. Siamo amanti di sport, narrato nella sua molteplice essenza, amanti del puro estetismo che ci ha fatto brillare come una stella al gol di Modric o metterci le mani nei capelli che Caballero non ha al suo incredibile errore. Calcutta gli consiglierebbe un po’ di Paracetamolo per un portiere Evergreen, ma non troppo.
Quindi? Oggi mi sento uno pseudo-giornalista con l’altruismo nelle vene pronto a ricostruire lo psicodramma che ha tamponato e poi investito l’Argentina. Ne parlerò proprio con lei. Anche se mi dà le spalle, per il momento, come Messi.
Bloccata
Bloccata, la conversazione. Bloccata, l’Argentina.
Cerco di tranquilizzarla, ma è nervosa. Non sembra in grado di gestire la pressione, nemmeno in un colloquio intimo, c’è qualcosa che turba la sua psiche. Emana sudore, soprattutto in volto, lo stesso di Lionel Messi al momento degli inni: aprirsi al mio cospetto forse è un compito al di sopra delle proprie possibilità. Come per Leo trascinare quest’Argentina alla vittoria finale.
Eppure, qualcosa riesce ad esprimere. In maniera non proprio eccezionale, elegante, raffinata, ma comunque comprensibile: il bisogno di aiuto è alquanto evidente, tangibile, e vedendo la disorganizzata organizzazione corale della Seleccion, la cosa non ci stupisce.
Lo ammette anche lei: troppa confusione, così catechizza questo sentimento. Ma la Croazia non colpisce subito, anzi, assume un atteggiamento attendista, quasi strategico, conscia di poter accettare il rischio di arretrare il baricentro. Ottima l’uscita con il pallone da parte della retroguardia di Dalic, per propiziare l’azione offensiva e lasciare ai centrocampisti il compito di premiare le sovrapposizioni degli esterni; Rebic e Perisic su tutti hanno messo a nudo l’impreparazione tecnico-tattica dei sudamericani, un modulo provato pochissime volte in una partita dove le certezze potevano premiare.

La negligenza tattica dell’Argentina traspare sin dalle prime battute, ma soprattutto dalle prime volte in cui la Croazia l’ha messa alla prova: regna il caos più totale, e l’Argentina inizia a confessare. Inizia a parlarmi di difficoltà non tanto tecniche quanto atletiche. La preparazione, infatti, risulta tutt’altro che ottimale e in una competizione mondiale rischia di essere un’aggravante sin troppo determinante: già, si vede, è stanca. Cerco di farla rilassare mostrandole i velenosissimi cross di Candreva, come tentativo di far raffiorare un po’ di tono e magari freschezza. Niente.
Ed è proprio il niente, il nulla, a contraddistinguere le avanzate principali dell’Argentina. La totale assenza di schemi impone una grande riflessione sul destino di questa sciagurata Nazionale: qui, l’imputato principale non ha i capelli.
Sogno o Sampaoli

Consiglio: se provi a parlare ad un argentino, ora, di Sampaoli, portati un qualcosa che possa difenderti. Potresti incombere in spiacevoli e poco melliflue sorprese.
Sampaoli è il Principe del caos. Un personaggio tipicamente provinciale atterrato da una fiaba che ha inevitabilmente inciso nel capovolgimento della situazone: tutta l’Argentina è responsabile, lei lo sa, si sente particolarmente atterrita per questo. Ma Sampaoli non ha di certo aiutato.
Sono tante le scelte nella vita che si rivelano sbagliate, ma uno non lo sa prima, perché l’unico modo per sapere che sono sbagliate è farle, guardarsi indietro e dire: ‘Sì, è stato uno sbaglio!’ Quindi, in realtà, lo sbaglio più grande sarebbe quello di non commetterlo, perché vivrei per il resto della mia vita senza sapere se era sbagliato oppure no.
Le pronuncio queste parole, e sembra essere d’accordo. Non vuole affibiargli tutta la colpa, anzi, vuole assumersi la piena e totale responsabilità: Sampaoli è il personaggio sbagliato. È la rappresentazione popolare e cicirettiana – più per i tatuaggi – della follia, dell’amore sbagliato che precede la donna con cui ti accaserai definitivamente. A quest’Argentina serviva, forse, un equilibratore, un moderatore che non fomentasse false promesse, in grado di frenare bollori e non delegare ogni responsabilità ad un uomo che, per quanto marziano, ha pure lui cellule umane.
Alla fine, le responsabilità, se le assume il tecnico a fine gara, condottiero naufragato in un mare d’incertezze, abbandonato dalla truppa e da un Kun Aguero non proprio smielato nei suoi riguardi: non solo lui, ma tutta la squadra rema verso l’esonero.
Eppure, l’idea di Sampaoli non era malvagia.
Abolire le cosiddette prime donne, quello era il primo passo verso l’instaurazione di una vera e propria squadra, di un organico che finora non si è mai visto. Un’idea comunque apprezzabile, ma in relazione al caso in questione suscita qualche dubbio: già, ma il problema è talmente ampio che fare una disamina sta diventando difficile.
La mancanza, poi, di un centrocampo in grado di reggere e soprattutto bilanciare la squadra pone seri dubbi sull’avvenire dell’Argentina: Biglia è un equiibratore ma non aggiusta tutto, al Milan è riuscito ad esprimersi nel momento in cui la squadra si muoveva con i tempi giusti, armoniosi e sopratutto risultava corta. Non avrebbe fatto comunque la differenza.
Al di là del centrocampo, tutta la squadra va risistemata. Il 3-4-3 di Sampaoli schierato contro la Croazia mostra lacune tecnico-posizionali indubbie, a partire dall’improvvisata difesa a 3, fino ala disposizione di Salvio nel centrocampo a 4; nessuno si trova al suo posto. Messi è costretto più volte – praticamente sempre – ad abbassarsi vertiginosamente per infondere speranze ed innescare sterili movimenti senza palla; dulcis in fundo, Caballero la combina davvero grossa.

L’unica certezza rimane questo frame, iconico, sintomatico di un castello di carte che non ha bisogno nemmeno di una folata di vento, di un soffio, per cadere. Non sta in piedi, e quei piedi, di Caballero, regalano il pass per sbloccare una Croazia fin qui timida e attendista.
Non è la notte dei pelati. Non è la notte dell’Argentina. E, no, non è neanche il Mondiale di Messi.
Messi alle strette
Siamo ad un bivio, devo metterla alle strette: Messi è un fallimento quando sta insieme a te?
Mi sembra stizzita, con ragione. Domanda provocatoria, per surriscaldare la conversazione, in risposta a chi sta catalogando Messi come “incapace di gestire la pressione”. Vero, c’è una componente di pressione in questo insuccesso, ma un campione della sua caratura sa maneggiarla. Quel che traspare, è che l’ambiente sia davvero ostile, il primo nemico per la fame di ambizione e successi che ha sempre contraddistinto Leo.
Annuisce. Non mi conferma né stravolge ciò che ho detto. Ci sono cose che non sapremo mai.
Non capteremo mai le sensazioni, gli stati d’animo di Messi due secondi dopo aver sbagliato il rigore, contro l’Islanda: emozioni legate da un patto indissolubile tra la Pulce e il suo ego. Noi non possiamo far altro che assistere al suo probabile ultimo mondiale, nella maniera peggiore possibile.
Record negativi fioccano e deturpano l’animo suo e della Seleccion, che non vince una gara ufficiale nei 90 minuti dal 5 luglio 2014, quando Higuain stese il Belgio avanzando così alle semifinali: Higuain, entrato nella mischia, al posto di un Aguero assolutamente incolore – 7 palloni toccati in 45 minuti. Questo è il problema, troppe comparse incolore, bianco e nero, non danno la forza necessaria a Messi per accendere la luce.
Ma non è ancora finita. Mancano 90 minuti, e Messi non mollerà.

Come nel 2002?
Siamo quasi alla fine. Respira un attimo, l’Argentina, profondamente: le chiedo se ci crede ancora, dopo questa debacle. E le chiedo, ancora: “Ma se finisse come nel 2002?” Poverina, la sto rovinando.
La rassegna coreana della Seleccion fu anch’essa devastante. Un fulmine a ciel sereno, così viene spesso definita, che piombò dopo aver inanellato una convincente serie di vittorie: l’Argentina tornò sulla terra. Erano i tempi della Grande Depressione, propiziata nel 1998, stava per giungere al termine: il calciò non aiutò. Quella Nazionale delle Stelle fu annuvolata da Inghilterra e Svezia: con i vichinghi finì 1-1, sarà un caso? E sarà un caso che su quella panchina sedeva il re dei matti, il Loco Bielsa?

Annuisce.
Guardare al passato non serve. Serve recuperare le poche energie rimaste, più nervose che fisiche, serve un miracolo: nella vita, mai dare per spacciata l’Argentina. Ha raschiato più volte il fondo del barile, ma ha saputo anche risollevarsi: dal gol di Palermo al Perù che fece impazzire Maradona alla tripletta salvifica di Messi all’Ecuador, e tanto altro ancora. Adesso mi sta guardando con occhi minacciosi, di sfida, come se tutto quel che ho raccolto e scritto adesso potrebbe essere prontamente smentito con una vittoria e conseguente qualificazione.
Ma, Argentina, vale la pena prolungare questa sofferenza? Non sei all’altezza.
Sorride, apertamente, come non aveva mai fatto finora. Tira fuori il telefono, Youtube, Italia-Argentina: si, mi ha fatto vedere la papera di Zenga. Dopodiché mi ringrazia, mi dice che la mia domanda è un’uscita a vuoto come quella del buon Walter e si congeda, così.
L’Argentina ha sempre avuto mille risorse. Ma forse, non basta più.