Dopo l’inaspettato passo falso di Udine la Juventus di Maurizio Sarri non ha sprecato il secondo match point consecutivo e, battendo un’ottima Sampdoria, si è laureata campione d’Italia.
In tempi normali sarebbe l’ora dei bilanci. Ma è davvero difficile parlare di tattiche e di numeri in una stagione spaccata a metà da uno stop senza precedenti nella storia (trisecolare) del calcio moderno. Il campionato, competizione omogenea dove alla lunga le anomalie vengono riassorbite, si è scisso in due tornei così diversi tra loro da sembrare addirittura antinomici. Una condizione eccezionale che ha avuto conseguenze altrettanto eccezionali. Basti pensare che da quando il calcio è ripartito non solo si segna molto di più (la media reti è superiore a 3 per 90′), ma il tour de force di luglio ha sballato valori che sembravano oramai acquisiti e scontati. La Lazio, per esempio, ha compromesso un’intera stagione nell’ultimo mese; il Milan ha raggiunto l’alta classifica con una cavalcata francamente inimmaginabile; l’Atalanta è addirittura l’unica squadra in Europa a non aver mai perso (e per inciso è ad un passo dal segnare 100 gol in campionato).
In ogni caso, tra inevitabili alti e bassi la Juventus si è riconfermata. Una sentenza non sindacabile, perché la squadra di Sarri è riuscita a minimizzare l’impatto delle variabili randomiche di questo bizzarro calcio d’estate, assicurandosi, con relativa tranquillità, uno scudetto che non è mai sembrato davvero alla portata delle rivali.
Le premesse
L’annuncio di Sarri alla Juventus ha provocato, lo ricorderete, sensazioni contrastanti. I tifosi non dimenticavano certe esternazioni di un tecnico che per tre anni ha rappresentato la nemesi juventina per antonomasia, portando il Napoli di De Laurentiis al record di punti in campionato e ad un passo da uno storico scudetto (unica volta in cui una squadra con più di 90 punti non ha vinto la Serie A). Gli addetti ai lavori, invece, si domandavano come interpretare una scelta così radicale da parte della dirigenza, passata, nell’arco di un’estate, da un estremo tattico all’altro.
Il resultadismo sfrontato di Allegri, molto discusso anche a livello mediatico (ricordiamo la diatriba con Lele Adani, raccontata qui), aveva portato i bianconeri ad un passo da quella vittoria europea che è allo stesso tempo mantra e ossessione della presidenza Agnelli. L’arrivo di Sarri (che aveva appena stravinto l’Europa League con il Chelsea) andava dunque interpretato come un tentativo di rinnovamento tattico in grado di andare oltre i limiti dell’Allegri europeo, incanalando lo straripante talento dei singoli dentro gli argini di uno stile di gioco coeso ed efficace.
Il mercato
Al fine di implementare una nuova Juventus, più “corale” e meno “solista”, la dirigenza ha assicurato a Sarri una campagna acquisti che, almeno sulla carta, si annunciava di primissimo piano. Ramsey e Rabiot, arrivati a parametro zero, testimoniano come la Juventus sia ormai un club appetibile anche per chi gioca in campionati di primissimo piano (la Premier) o in squadre economicamente inarrivabili (il PSG). Inoltre, non dimentichiamo che Paratici ha assicurato alla Juve il colpo più prestigioso del mercato estivo 2019, quel Matthijs De Ligt che, da capitano teenager dell’Ajax, aveva fatto innamorare mezza Europa, e che la Juve ha strappato alla concorrenza dopo una estenuante bagarre contrattuale.
Il miglioramento qualitativo di una rosa già ultra-competitiva ha permesso ai bianconeri di posizionarsi di nuovo in pole position nella griglia di partenza della serie A 2019/20.
Il Sarriball a Torino
La Juventus ha aggredito il campionato con la necessità e il desiderio di rivoluzionare la propria identità di gioco. Dopo un avvio difficile (le squadre di Sarri faticano sempre nelle prime giornate), i bianconeri si sono avvicinati alla vetta e di fatto, da dicembre, non l’hanno più abbandonata. Eppure mai come quest’anno una squadra così forte e attrezzata ha dato l’impressione di essere battibile, addirittura fragile, alimentando di continuo le speranze delle rivali (prima l’Inter, poi la Lazio).
Partiamo dall’aspetto tattico. Non è un mistero che il Sarriball abbia faticato a imporsi a Torino. La scommessa della dirigenza è sembrata a volte una vera e propria fatica di Sisifo; in alcune occasioni Sarri è apparso impotente nel gestire una squadra tutto sommato appagata, consapevole della propria forza, e dunque poco incline a stravolgere un’identità di gioco basilare ma vincente.
La Juve nella gara decisiva per lo scudetto. Dybala e Danilo usciranno nel primo tempo, per infortunio.
Atto primo, atto secondo
Nella prima parte del campionato la Juventus si è dimenata come una creatura ibrida alla ricerca della sua nuova natura. Ogni tanto le catene di gioco funzionavano a meraviglia, ricordando il sistema pitagorico del miglior Napoli di Sarri; molto spesso, però, le partite venivano decise dalle giocate del singolo. Lo stop forzato a causa del Covid-19 ha bloccato del tutto lo stadio (non sappiamo quanto avanzato) di implementazione del Sarriball: alla ripresa estiva, la Juve ha fatto quadrato puntellando i propri punti di forza ed è apparsa molto più cinica e orientata al risultato, senza perdersi in fronzoli pericolosi.
Insomma, una Juve molto più simile a quella di Allegri che non alle idee di gioco tradizionalmente associate a Sarri.
Il Sarriball si è visto, dunque. Ma solo a tratti e con risultati non sufficienti. I motivi di questa mancata polimerizzazione sono davvero tanti e solo in minima parte sono legati all’allenatore. Prima ci si è messa di mezzo la sfortuna, quando il grave infortunio di Chiellini a inizio campionato ha costretto De Ligt a una maratona di adattamento a un campionato molto meno spensierato di quello olandese. Poi la condizione non ottimale dei nuovi innesti (Rabiot, Ramsey), che unita alla precaria forma fisica di alcuni senatori (Khedira, Pjanic) ha inevitabilmente inclinato (in senso negativo) il percorso stagionale.
Un ibrido imprevedibile
Ma scendiamo nel dettaglio. Sebbene i tifosi temessero che le personalità dilaganti dello spogliatoio (leggasi: CR7) potessero opporsi ai rigorismi tattici di Sarri, la squadra si è mostrata sin da subito volenterosa e disponibile. La Juventus è ripartita dal 4-3-3 dell’ultimo Allegri, ponendosi come obiettivo di lunga durata la coabitazione di due fenomeni assoluti come Cristiano Ronaldo e Dybala. Non a caso, per tutto il girone d’andata Sarri ha martellato i giocatori (e i giornalisti) con il mantra dell’equilibrio, cercando, domenica dopo domenica, la formula perfetta per il suo starting XI. Sappiamo benissimo, infatti, che due attaccanti inutilizzati in fase difensiva sono un lusso che pochi, in Europa, possono concedersi.
I limiti della metamorfosi sarriana si sono visti molto bene in queste ultime settimane, quando pregi e difetti di tutte le squadre sono finiti sotto la lente d’ingrandimento della stanchezza infrasettimanale. Il centrocampo è sembrato spesso incapace di oliare il possesso palla con serenità, mentre la fase difensiva ha generato non pochi guai, rivelando una Juve incapace di uccidere le partite (come avveniva regolarmente nelle edizioni precedenti del campionato). Sebbene mantenga una pericolosità offensiva a dir poco vertiginosa, la squadra dà l’impressione di essere meno padrona del campo e di consolarsi per larghi tratti della partita con la consapevolezza della propria superiorità tecnica.
La Juventus è riuscita a sopperire a tutti questi piccoli difetti grazie al talento incredibile dei singoli e alla mentalità vincente dei suoi leader. La voce degli scontri diretti parla chiaro: anche la Juve più insicura degli ultimi cinque/sei anni è riuscita a dominare tutte le pretendenti allo scudetto, tanto all’andata quanto al ritorno.
Pro domo Sarri
Difficile, dunque, giudicare un progetto sportivo avviato in una stagione assurda come questa. Tuttavia, non dev’essere difficile riconoscere alla gestione Sarri dei meriti oggettivi.
Sin dalla seconda stagione a Empoli (2014/2015) Sarri è stato un maestro nel migliorare qualitativamente i giocatori dal potenziale inespresso. Se prendiamo l’undici titolare dei toscani alla prima stagione in serie A (risultato finale: 14° posto, 42 punti) troviamo nomi di una certa rilevanza come Sepe, Rugani, Hysaj, Mario Rui, Vecino, Zielinski e Verdi. Giocatori che prima della cura Sarri avevano ancora tutto da dimostrare. Durante il triennio napoletano (2015-18) l’allenatore è riuscito a organizzare un 4-3-3 spumeggiante che persino Guardiola e Klopp ammiravano con entusiasmo. Inoltre sulla panchina partenopea Sarri ha dimostrato di saperci fare anche coi giocatori già affermati: l’intuizione di spostare una seconda punta come Dries Mertens nella posizione di falso nueve gli ha garantito una seconda carriera, trasformandolo nel miglior marcatore della storia del Napoli.
E non dimentichiamo che proprio grazie a Sarri l’Italia ha ritrovato un degno erede di Pirlo (Jorginho), mentre un giocatore muscolare come Kanté è diventato un centrocampista affidabile in fase d’impostazione.
Quell’Empoli esprimeva un calcio coraggioso e ragionato. De Laurentiis lo capì e portò a Napoli l’architetto Sarri e il geometra Valdifiori.
Pro domo Sarri: tre esempi
Anche alla Juve abbiamo assistito al miglioramento qualitativo di alcuni giocatori potenzialmente devastanti. Il primo è Rodrigo Bentancur. Allegri omaggiava di continuo le abilità del’ex Boca Juniors ma gli schemi della sua Juve non ne mettevano in risalto le caratteristiche, confinandolo anzi al ruolo di vice-Pjanic. Quest’anno, invece, l’uruguaiano sembra definitivamente esploso: alla classica foga del mediano rioplatense unisce un’ottima frequenza di passo e una tecnica più che raffinata. Molto probabilmente la Juventus si è convinta a lasciar partire Pjanic anche grazie alle garanzie fornite proprio da Bentancur.
Vogliamo parlare, poi, di Dybala? Le sue qualità non sono mai state in discussione; eppure durante la gestione Allegri l’argentino sembrava destinato a una carriera brillante ma poco risolutiva. Spesso subentrante, talvolta evanescente, raramente protagonista nelle partite fondamentali della stagione. Quest’anno, invece, il numero 10 si è preso letteralmente la Juventus sulle spalle affiancandosi a Ronaldo da sparring partner praticamente alla pari (cosa più unica che rara: chiedere informazioni a Benzema, o in generale all’intera nazionale del Portogallo).
Altro ottimo lavoro (soprattutto sul piano dell’approccio tattico) è stato fatto infine con De Ligt, che nelle ultime settimane è diventato il punto fermo di una difesa orfana del suo vero leader e troppo spesso traballante. L’olandese ha portato da Amsterdam tutte le specialità della casa degustate ai tempi dell’Ajax durante la Champions League del 2018/2019 (anticipo, forza fisica, capacità d’impostazione, colpo di testa, ottimo recupero sul lungo), ed è riuscito ad adattarle allo standard altissimo richiesto ai difensori di una grande squadra come la Juve, obbligati molto spesso a giocare in delicatissime situazioni di uno contro uno.
Il paradosso Juve
Nonostante le tempeste mediatiche, nonostante certe insicurezze tattiche, la Juventus ha vinto il campionato, è comunque arrivata in finale nella più strana edizione di Coppa Italia che la storia ricordi, e potrà giocarsi tutte le sue carte in Champions League. Un anno vincente, come tanti altri nell’ultimo decennio. Eppure mai come quest’anno il predominio assoluto dei bianconeri è sembrato sotto scacco. Prima del Covid.19 c’è stata la Lazio di Simone Inzaghi, macchina mirabile che ha esaltato Ciro Immobile e i tre moschettieri alle sue spalle (Sergej Milinkovic-Savic, Luis Alberto, Joaquin Correa). Macchina spezzata, com’era prevedibile, dai turni infrasettimanali e da una rosa non adeguata ai continui impegni del calcio d’estate. Dopo il Covid-19, le incertezze della Juve hanno alimentato persino le flebili, quasi solo suggestive, speranze dell’Inter, società in dirompente crescita e che nonostante gli incidenti di percorso punta, senza mistero, allo scudetto del 2020/21.
Le statistiche certificano le precarietà intuibili dall’osservazione delle partite. Pur con tutte le eccezionalità del caso, la Juventus ha subito in media più di un gol a partita (38 reti su 35 partite) e si è appiattita addosso alla capacità realizzativa dei suoi due centravanti (Ronaldo 31, Dybala 11) capaci di segnare oltre la metà delle reti della squadra (42 su 74). Il possesso palla si è attestato in media sul 56% e la capacità di ammazzare le partite, marchio di fabbrica della Juventus di Allegri, è andata progressivamente scemando. Sebbene l’alchimia voluta da Sarri non si sia ancora vista a sufficienza, le straripanti individualità della rosa bianconera hanno sopperito ai vuoti pneumatici di una struttura in corso di rinnovamento. La squadra riesce a effettuare una media di 16,8 tiri in porta a partita (di cui 6 da parte di Ronaldo, 3 di Dybala) e crea superiorità numerica grazie alle abilità dei suoi attaccanti (12,8 dribbling riusciti per 90′); in fase difensiva, il tempismo di due pensatori come Bonucci e De Ligt riesce spesso e volentieri ad arginare un numero notevole di potenziali palle gol in campo aperto, che sono comunque molte di più rispetto alle medie degli anni passati.
Sarri anche il prossimo anno?
Nonostante la pandemia abbia fatto saltare in aria la progettazione di tutte le squadre europee, la riconferma di Sarri appare auspicabile, ma tutt’altro che scontata. Certo, tenendo presente la mentalità aziendalista della presidenza Agnelli un allenatore come Sarri, di alto profilo ma senza richieste eccessive sul mercato, rimane un partner ideale di primissima scelta. Resta da capire se la dirigenza si riterrà soddisfatta del percorso intrapreso: e tutto dipenderà, com’è ovvio, dai risultati conseguiti in Champions League.
La riconferma di Sarri avrebbe senso non solo a livello manageriale-finanziario, ma anche sul piano della coerenza sportiva. La Juventus ha avviato un delicato processo di rinnovamento anagrafico (età media 29,8 anni) che minaccia in ogni momento di trasformarsi in un incubo. Basti pensare allo United, che deve ancora riprendersi dalla fine della class of ’92, o al Barcellona, che fatica a trovare giocatori adeguati a mantenere gli alti livelli di rendimento che, negli ultimi anni, solo Messi sembra rispettare con puntualità. Avere un allenatore con le idee chiare mentre tutto attorno cambia potrebbe risultare davvero provvidenziale.
Un modello filosofico per la rifondazione
Gli acquisti della sessione estiva sembrano confermare gli obiettivi di una dirigenza mai paga. Lo scambio Pjanic (30 anni) – Arthur (24 anni) va a corroborare la teoria del rinverdimento del centrocampo già esplicitata con l’acquisto di Kulusevski dall’Atalanta; senza dubbio dovremmo aspettarci mosse analoghe per il reparto difensivo (Chiellini ha 36 anni, Bonucci 33) e per il parco attaccanti (Higuaìn pare destinato alla partenza).
Paradossalmente, la Juventus ha il vantaggio di navigare in acque sicure. Tutto porta a credere che il modello di riferimento della dirigenza bianconera sia il Bayern Monaco, che da due anni a questa parte sta rinnovando completamente la rosa senza mollare la presa sulla Bundesliga. Le due società hanno un passato recente molto simile e sembrano intenzionate a prolungare il loro dominio nazionale anche nel decennio calcistico che si aprirà con la prossima stagione.
Per quanto riguarda la nostra serie A, staremo a vedere. Le rivali della Juventus riusciranno davvero a tenere il passo? Al momento, solo l’Inter pare in possesso di una struttura societaria capace di competere, almeno in potenza, con i futuri campioni d’Italia.
Non potevamo non lasciarci senza il più zarro dei link: e dunque Welcome to Juve, Dejan.