L’Italia termina le ultime due giornate di qualificazione ai mondiali raccogliendo quattro punti. In questo mini-tour dei Balcani, Macedonia e Albania si sono trasformate in spauracchi improvvisi, che hanno fatto crollare un bel po’ di certezze azzurre. La nazionale è nel mezzo di una tempesta mediatica e il rapporto coi tifosi si è incrinato notevolmente. In attesa dello spareggio decisivo di novembre, cerchiamo di capire che cosa non va negli azzurri di Giampiero Ventura.
Remare contro
Partiamo con un assioma. Il rapporto tra la gente e la Nazionale è sempre stato complesso. Nella storia calcistica del nostro Paese – che non è poi tanto più lunga di quella politica – è raro vedere i tifosi entusiasti della Nazionale. Poche volte, alla vigilia di un torneo importante, l’Italia viene data per favorita dagli italiani. Non lo si pensava nel 1982, quando Bearzot vinse un mondiale dopo aver pareggiato le prime tre partite; e di certo non lo si pensava nel 2012, quando Prandelli guidò la Nazionale alla finale europea.
Con un rapido volo d’uccello, ci rendiamo conto che, forse, solo due formazioni hanno sempre avuto il favore della critica: quella di Antonio Conte, allenatore carismatico (ma con con mezzi modesti) nell’ultimo europeo, e quella del regime, negli anni Trenta. Quando la dissidenza – persino in campo calcistico – non era ammessa.
Remare contro è una nostra tradizione; molto spesso giustificata, talvolta scaramantica. Ma si ha l’impressione che questa nazionale, l’ultima versione presentata da Ventura, abbia creato una spaccatura con la gente che difficilmente si risanerà in tempo per il mondiale.
Ventura, l’uomo solitario
Minuto 73. Antonio Candreva, dopo una prestazione non certo brillante, si ritrova il pallone tra i piedi a due passi dalla porta di Berisha, e appoggia la palla in rete. Mentre tutta la Nazionale accorre a esultare, un uomo solitario rimane indietro, pensoso. Passeggia, guarda per terra, sembra dire: fosse tutto così semplice. Parliamo di Giampiero Ventura, l’uomo che più di tutti sta ricevendo anatemi dalla nazione intera.
Diciamoci la verità: Ventura non ha mai convinto, suo malgrado. Per sentore comune non lo si reputava un allenatore da nazionale. Per mille motivi diversi. Punto primo: Ventura non ha mai vinto un campionato di calcio, e i trofei contano. Punto secondo: arriva per rimpiazzare un allenatore carismatico come Conte, che dopo l’Europeo è andato a vincere in Premier League da rookie. Punto terzo: non ha fatto nulla per avere il sostegno della gente. E queste cose, in nazionale, fanno la differenza. Punto quarto: si mostra inflessibile alle esigenze della nazionale. Purtroppo, come diceva Sacchi, allenare la Nazionale richiede pazienza e inventiva. Significa essere CT di una squadra virtuale, che è disponibile solamente per una quarantina di giorni l’anno. E forse Ventura, con i suoi rigorismi tattici, non l’ha capito.
Salvare il salvabile
Dall’Argentina alla Croazia, va di moda un atteggiamento millenaristico: intere nazioni stanno vivendo l’incubo dell’esclusione dal mondiale con lo stesso pathos di una guerra persa. L’Italia si è complicata la vita dopo la sconfitta al Bernabeu, e ha sfiorato la Caporetto negli ultimi due incontri. Eppure, nel buio di Torino e di Scutari, dobbiamo essere obiettivi e aggrapparci a ciò che si è visto di buono.
In primis, Insigne. L’esterno napoletano ripulisce una quantità impressionante di palloni sporchi, sbrogliando parecchie difficoltà nel possesso palla. Molte volte, la faticosa costruzione dal basso della nostra nazionale lo raggiunge in modo imperfetto; ma lui, con l’estro dell’artista, sistema il pasticcio con una pennellata decisa. Ventura gli ha dato licenza di muoversi verso il centro del campo, favorendo la sovrapposizione del terzino e i movimenti delle punte; Insigne, non a caso, è sempre stato uno dei migliori in campo.
Infine, Gagliardini. In mezzo a una nazionale che girava scialba, il centrocampista dell’Inter ha fornito una prestazione piuttosto convincente. Ha vinto tutti i contrasti ed è arrivato sempre per primo sui palloni sporchi. Nella visione calcistica di Ventura, in mezzo al campo si dovrebbe giocare solo così. Lo testimonia il fatto che Gagliardini e Parolo non si sono quasi mai scambiati il pallone, preferendo la verticalizzazione (in avanti o indietro) al passaggio laterale.
I piedi d’argilla
Ma torniamo al momentaccio della nostra nazionale. Dal punto di vista psicologico, un paragone sottile, che però fa impressione, riguarda l’inno di Mameli. Un anno fa, con Conte in panchina, i nostri undici cantavano con un tale trasporto da lasciare sorpresi persino i commentatori stranieri. L’inno, da semplice cerimonia garbata, diventava l’urlo di battaglia che spingeva verso i tre punti.
Ieri, invece, undici giocatori dimessi, quasi indifferenti, hanno cantato senza grande emotività. Tralasciando Buffon e Bonucci, gli altri sembravano tesi e un po’ spaesati. Un’involuzione che sicuramente fa riflettere sull’autostima con cui la Nazionale si prepara ad affrontare lo spareggio mondiale, che di per sé è una finale. Un anno fa, l’Italia metteva sotto la Germania. Oggi, prende paura di fronte a formazioni organizzate ma modeste come la Macedonia e l’Albania. Molti interpreti sono gli stessi: è cambiata la sicurezza nei propri mezzi. Sicurezza che, evidentemente, Ventura non riesce a trasmettere.
Cantare un inno in maniera dimessa significa giocare in maniera dimessa, senza mai aggredire la partita. Nella roccaforte di Scutari, l’Albania ha dominato interi tratti di gara. Noi, invece, siamo stati sciuponi e troppo precipitosi. Atteggiamenti che non si addicono a una nazionale quattro volte campione del mondo, tra le più vincenti della storia.
La luce in fondo al tunnel
Il tempo stringe. Tra poco più di un mese ci aspetta la prima finale: uno spareggio in cui dovremo affrontare non solo i nostri avversari, ma anche i nostri fantasmi. Perché l’Italia è un gigante coi piedi d’argilla, che fa grandi cose solo se non si guarda le caviglie. Ventura avrà un bel pensare, in queste settimane; e sotto l’uragano delle critiche non sarà affatto facile.
Quale potrebbe essere, allora, la soluzione? Se il 4-2-4 non riesce a ingranare e i calciatori perdono la fiducia nell’azzurro, dove possiamo guardare per andare a prenderci il mondiale?
Nel momento del bisogno, ci sovviene la penna di uno dei più fini intenditori del calcio italiano, Gianni Brera. L’anno è il 1982, e l’Italia è appena salita sul tetto del mondo.
La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana. Eri partita misera outsider, tra lo scetticismo di tutti coloro che prendevano alla lettera i principi enunciati dal tuo bravissimo e un po’ fissato CT.
Quello che Brera vuole dirci è che, in un momento così complicato, bisogna pensare semplice. L’Italia si è sempre trovata storicamente in difficoltà nel fare la partita; in un momento di carestia del talento, Ventura dovrebbe andare a riguardarsi gli schemi di Lippi nel 2006 e di Bearzot nel 1982. Due allenatori d’élite, che, nonostante i vari Altobelli e Del Piero, scelsero di non prendere gol prima di preoccuparsi di segnare.
Una nazionale all’italiana
Paradossalmente, il nostro più grande problema potrebbe tramutarsi in una soluzione. Ventura potrebbe rinunciare alla sua ortodossia tattica abbracciando il contropiede. Abbiamo a disposizione una retroguardia esperta e di talento, all’ultima grande apparizione internazionale; sarebbe un delitto non approfittarne. Sigillare la difesa, rimpolpare il centrocampo; abbiamo sempre fatto così. Forse, è anche per questo che Ventura non è amato: perché cerca di dare all’Italia un’anima che non le appartiene. In nazionale, non siamo abituati a vedere il 4-2-4. Come malati di agorafobia, soffriamo gli spazi aperti. Ci dànno forti momenti di panico. Lippi vinse lasciando Toni in solitaria missione, e Bearzot incollò Gentile a Zico. Con due miseri uomini in mezzo al campo ci sentiamo insicuri, scoperti.
Il paese degli estremi
Come sempre, la nazionale si è rivelata lo specchio meglio compiuto degli umori del Paese. L’Italia non è capace di stare nel mezzo: si oscilla dall’euforia alla depressione come metronomi impazziti. Ora, abbiamo toccato il fondo calcistico. Tocca risalire. Il mondiale comincia a novembre, per noi: un dentro-o-fuori che non lascia alternative. Sperando di non giocarsela ai rigori.
A Ventura spetta un compito ingrato. Come ci hanno dimostrato le telecamere, il CT è solo al comando; nei prossimi mesi, sarà ancora più isolato. Avrà tutti contro, e forse qualcuno, nello spogliatoio azzurro, alzerà delle critiche. Non abbiamo alternative: il cinico Ventura dovrà prendere di petto la nostra emotiva nazionale, e darle quella scintilla che potrà fare la differenza. Le ultime prestazioni non sono state convincenti, è vero; ma il percorso non è da buttare. Nel Paese degli estremi, Ventura porta avanti la sua visione calcistica anche quando la critica lo subissa. Come contro la Spagna, quando non rinunciò al 4-2-4 contro i palleggiatori del Bernabeu. Dopo il 3-0, disse ai microfoni che si doveva fare così, che la sconfitta era propedeutica. Giusto o sbagliato che sia, si è dimostrato coerente. Ma il mondiale è diverso, ha la consistenza di un campionato e non si può essere rigidi nella gestione della squadra. La flessibilità: cosa che all’ortodosso Ventura continua a mancare.
Sorte
Se non altro, consoliamoci con la scaramanzia. Vige la legge del 12: ogni tre mondiali, l’Italia raggiunge la finale con esiti alterni. Dirlo dopo due partite così deludenti, sa di pazzia; immaginarsi la nostra nazionale che disputa una finale con il 4-2-4 rasenta l’utopia. Neppure il più ottimista dei commentatori scommetterebbe una lira; proprio come accadde alla nazionale del 1982, e a quella del 2006. Dipenderà tutto da Ventura, dallo spareggio di novembre, che per noi sarà un turning point tattico e (soprattutto) emotivo.