La capacità sta nel saper scegliere: il giusto movimento, la perfetta dose di potenza, se giocare sul ferro o sul tabellone. La palla farà il resto; deciderà se entrare, se uscire, se far tremare di paura tutto un palazzetto roteando amabilmente sul quel rosso fuoco che disegna l’uscio del paradiso o spalanca all’inferno; sta tutto lì. E nei playoff NBA, è tutto ancor più accentuato.
E poi si decide con un semplice colpo, con uno schioccare leggero a filo di parquet, con quella sfera che lentamente si cerca di far carambolare in fondo alla rete. Non è un caso. È frutto di una maturata e ponderata presa di coscienza, di una continua sequenza di decisioni prese nel giro di istanti.
Elegantemente.
Prepotentemente.
Intelligentemente.
Dalla Regular Season ai Playoff
Non a tutti piace sedersi intorno a un tavolo discutendo di che scarpe utilizzare, di che formazione mettere, di quale quintetto schierare. Fatto sta che a chiunque fa letteralmente impazzire vedere uno scontro tra giganti terminare con un canestro o con un fallo; per 82 partite e una serie intera, questa scena è andata in onda, mettendo ora un punto definitivo sulle quattro più forti dell’Est e dell’Ovest.
Sulla sponda pacifica, i Campioni uscenti di Golden State, l’ormai certezza Houston, le pepite di Denver e i la sorpresa Portland stanno dando spettacolo.
Sul lato opposto del paese, sulle rive dell’Oceano Atlantico, i Celtics stanno provando a tornare ai fasti di un tempo, insieme a una Philadelphia che manca gli appuntamenti importanti dai tempi di Iverson; mentre Milwaukee e il suo Dio greco provano a mantenere intatta quel muro difensivo della Regular Season, così come quei Raptors Capitanati da un Kawhi tornato ai livelli di San Antonio.
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Arrivati a questo punto della stagione, molto si basa sulla tattica, su scelte da effettuare con la logica di uno scacchista su un campo ben più grande di una scacchiera. Una guerra di posizione tra allenatori e il tempo che scorre sul cronometro, tra la palla e il canestro, tra un giocatore e la sua voglia di indossare un anello.
Una questione di scelte.
E allora non ci si affida alla fortuna, al caso, al pensiero che qualcosa possa girare nel verso giusto; ma si va a insistere sui punti forti, battendo gli avversari sui lori deboli. Semmai ne abbiano.
La prima serie
La pallacanestro non è decisamente uno sport individuale come ipotizza Allegri, dove si gioca contro sé stessi; è la sublimazione di una categoria particolari di fisici, materializzati dentro un campo dove il cervello deve funzionare con la stessa velocità e facilità di esecuzione di un computer. Cinque contro cinque. Ma se cinque di questi sono dei veri e propri computer di nuova generazione, come fossero delle intelligenze artificiali, allora ecco che diventa complicato anche per il migliore hacker.
Ancora una volta il programmatore Kerr ha dato vita a una sequenza di schermi e giocate che lasciano spazio alla genialità e alla capacità realizzativa di quei mostri da parquet. The importance to being Kevin è stata messa in evidenza contro i Clippers, mentre la barba di Harden e l’intelligenza cestistica di Paul hanno mostrato tutte le crepe difensive di Utah.
Del resto, anche dall’altra parte Toronto ha spazzato via in maniera netta Orlando, Magicamente entrata a far parte delle 8 dei Playoff, Milwaukee, da buon numero uno del tabellone, ha detronizzato i Pistons di Griffin e Drummond; e ancora il 4-0 di Boston ha confermato il lavoro meraviglioso che negli ultimi anni coach Stevens sta portando avanti, con un Irving in più che quando è ispirato, non esiste difensore che possa tenere quel ball handing.

Il caso non esiste
Ma bisogna alzarsi in piedi e battere le mani, per tre squadre in particolare, che stanno dando continuo a una stagione spettacolare: Denver, Philadelphia e Portland.
Partendo da quest’ultima, la vittoria della serie contro OKC è stata il risultato di vari fattori, che hanno portato Lillard, in gara 5, a chiudere con il buzzer beater finora più importante della stagione. Coach Scotts ha imbrigliato tra le mani dell’ex Kanter e dello scudiero McCollum, una perfetta dose di sincronia in fase difensiva, a volte leggermente smemorata, ma mai vittima di lapsus freudiani come quella di Oklahoma. Lillard ha avuto gioco facile in questo frangente, che in queste situazioni si esalta, mettendo in evidenza quel talento cristallino che non si sa se rimarrà al servizio dei Blazers.
Per ora, ha già fatto gridare al miracolo così.
La solidità di Philadelphia e di Embiid sono state sicuramente avvantaggiate dall’aver incontrato una squadra non di prima fascia come Brooklyn, ma anche dal fatto che il solo D’Angelo Russell non poteva fungere da tassello determinante per portare avanti i Nets. Già la presenza tra le 8 di Playoff NBA aveva dato soddisfazione alla squadra della grande mela e, complice l’essere appagati, sommati al talento strabordante di Simmons, JJ Redick e Butler, hanno contribuito a non riuscire ad andare oltre.
Finalmente i Sixers sembrano essere tornati ai bei tempi di Iverson, quei primi anni duemila dove erano una delle squadre più temute grazie al loro numero 3. Ora stanno tornando lentamente, o forse più velocemente del normale, con un quintetto che fa invidia a molti della lega, con cinque giocatori che, se mescolati con alchemica precisione, potrebbero far togliere ben più di qualche soddisfazione ai propri tifosi.
Finalmente Denver
Quando si aspetta per lungo tempo qualcosa, si finisce per convincersi che non arriverà più. Ci si mette lì, sull’uscio di casa, a scrutare un orizzonte ormai avaro di sorprese, pronto a deluderti un’altra volta. Ed è in quel momento, quando stai smettendo di crederci, che devi invece farlo doppiamente; perché la miniera di Denver ha finalmente trovato una pepita che ha trascinato i Nuggets fuori da quella miniera esaurita dove scavavano da tempo.
E questo piccone, questo martellatole indefesso, ha un nome e un cognome dell’Est Europa: Nikola Jokic. Un fisico che sembra davvero più utile per fare il minatore che non il giocatore di basket, eppure lui è la dimostrazione che l’apparenza inganna. Eccome se inganna. Il serbo è l’esaltazione di un gioco che fa dell’esperimento sul momento il suo punto di forza: non vede il passaggio, lo crea. Lo plasma in un frangente in cui non può esistere, gli dà forma in una maniera che per chiunque è impossibile anche solo immaginarlo.
Popovich e i suoi Spurs stavano per riuscire a rompere questi schermi di passaggio, questa frastagliata linea retta che si è trovata tra i Nuggets. Ha caricato alla perfezione DeRozan e Aldridge, ha messo mano a una panchina dalla quale Mills e Belinelli hanno risposto presente troppe poche volte rispetto al necessario. E così alla fine il coach di San Antonio è dovuto tornare a navigare in quelle acque dalle quali non riesce a riemergere da svariati anni, rimanendo a galla in un oceano di occasioni perse e promesse mancate.
E in questa valle di pensieri, quello di Jokic è pronto a disegnare, creare, dare forma a nuovi schemi impossibili e passaggi improbabili, per far si che si arrivi a delineare un sogno.
Una risorsa preziosa per i Playoff NBA.
E adesso?
Golden State è ancora dentro senza troppa fatica, con quella formazione lì che quando decide di giocare, è infermatile. Curry, Durant, Thompson, Green, Iguodala, Livingston. Una maglia perfettamente forgiata, difficile da scalfire. Ci proverà Houston con Harden e Paul, forse pronti stavolta a reggere l’urto di un robot perfettamente maneggiato da Kerr. Chissà che Mike D’Antoni quest’anno non riesca davvero a fare il colpaccio ai danni della banda dell’oro, nei playoff NBA.
Denver non deve far altro che continuare a lasciare carta bianca a Jokic che, dal canto suo, non deve far altro che continuare a lasciarsi andare. La miglior strategia in casa Nuggets, per i playoff NBA, è la sorpresa e la qualità straordinaria del serbo correlata a Millsap e Harris. Basteranno però per buttare via i Blazers di Lillard? Il number 0 si è ormai stancato di fare la parte dell’eterna promessa, e sicuramente vorrà provare a dimostrare all’intera lega di essere in grado di veleggiare fino in fondo con la nave dalla quale non si è ancora mai voluto separare.
Milwaukee continua a cavalcare l’onda grazie al suo punto di forza (e, sbilanciandosi, probabile MVP) Antetokounmpo, aiutato dall’estrema preparazione tattica che Budenholzer ha dato ai suoi ragazzi. Lopez ha trovato il suo mondo e il suo ruolo, ha iniziato a fare per davvero il Centro come gli si chiedeva da tempo. Bledsoe e Brown sono le due perfetti ali piccole di sostegno a Giannis, che si è preso il palcoscenico e ora non vuole mollarlo più. Ma contro Boston che naviga in risalita con il suo Kyrie, con la sfrontatezza di Tatum, con l’eleganza di Brown (Jaylen) e con l’esperienza di Horford, ormai i Celtics sono una vera e propria realtà che a Est non deve più fare i conti con i Cavs e potrebbe tranquillamente andarsi a prendere quell’eredità.
Toronto e Kawhi permettendo ovviamente; l’ex San Antonio ha ricominciato a ingranare dopo varie critiche che gli erano state mosse durante la Regular Season, dimostrando che non per caso era stato scelto da uno stratega come Popovich, che in lui vedeva ben più di un semplice giocatore di pallacanestro. Ci proverà, nei playoff NBA, Philadelphia e il suo quintetto di dimenticati a disegnare un programma ben diverso da quello messo in piano dai Raptors. E magari Embiid ne twitterà i punti focali.
Hanno cominciato a prendere forma le nuove strategie, per sorprendere chi ha studiato fino in fondo gli schemi dell’altro e ribaltarli completamente.
Per far sì che la vittoria non sia frutto del caso.
Nulla, è lasciato al caso nei playoff NBA.