Ci sono persone e persone, su questa terra.
Ci sono persone che vivono in piedi, saldi sulle proprie gambe, testa dritta e sguardo perforante. Sono i cosiddetti hombre vertical, alla Héctor Cúper o Jorge Valdano, che vedono la realtà per come è e dovrebbe essere, senza sbavature o pittate impressionistiche sulla tela della vita. I loro obiettivi sono chiari fin da subito; per raggiungerli si cerca di percorrere la via più corta e facile, la via che porta al successo.
Ci sono persone, invece, che vivono a testa in giù, che guardano ciò che li circonda in modo diverso, opposto. Per loro l’improvvisazione porta all’estasi, l’extra-ordinario vince sul consueto e anche il più piccolo gesto è esaltazione. Tale modo di essere rende questi individui indecisi, preposti al cambiamento, instabili; spesso, di conseguenza, anche molto lontani dal raggiungere ciò che si erano prefissati.
Questo estetismo, elevato all’ennesima potenza, prende il nome di Pablo Daniel Osvaldo.
Osvaldo inizia a bucare le prime reti in Argentina, terra natia, con la casacca dell’Huracán. Pur essendo in seconda divisione Osvaldo si trova bene in una squadra chiamata “uragano”, che un po’ lo rispecchia: di questa forza della natura decide di impossessarsi l’Atalanta, che con lui – non per merito suo – vincerà il campionato di Serie B.
Osvaldo sa che ancora deve maturare, prima di fare il salto, e perciò l’anno successivo vola a Lecce, sempre in serie cadetta: nella prima parte di stagione viene allenato da Zdeněk Zeman, che ne esalta le capacità realizzative. Osvaldo segnerà 8 gol, quanti bastano per farsi notare dalla Fiorentina che nell’estate del 2007 lo acquista per 4,5mln di euro.
Con i viola Daniel segna poco, solo 6 reti, ma sono praticamente tutte fondamentali, indimenticabili. Due le realizza all’esordio assoluto in A, contro il Livorno; una, di testa, sigilla il 2-3 in casa della Juventus, all’Olimpico di Torino, indimenticabile come Papa Waigo; sempre nello stesso stadio, stavolta contro i granata, Osvaldo disegna la prima delle tante rovesciate della sua carriera.
La Fiorentina doveva assolutamente vincere per approdare in Champions a discapito del Milan: in quella pazza ultima giornata, quella dello scudetto Inter a Parma, piena di sorpassi e contro-sorpassi, capovolgimenti repentini, ci voleva una pazzia per chiudere i conti. E chi, meglio di Osvaldo, poteva rovesciare quel campionato?

Osvaldo, ormai sulla bocca di tutti dopo quel gol, se ne va da Firenze da eroe.
Decide di provare la Spagna e accetta l’offerta dell’Espanyol: con i catalani l’attaccante passa due ottime stagioni, con 22 reti, ma si accorge del suo grande potenziale in un ambiente non perfettamente consono a lui. Osvaldo si guarda attorno e realizza di poter fare molto di più e, quando arriva la Roma, non ci pensa mezzo secondo: zaino -pardon, chitarra – in spalla e via verso la capitale.
A Roma Daniel lascia il segno per tre motivi: due sono i suoi gol più belli di sempre, quello al Catania in rovesciata (diventata ormai il suo marchio di fabbrica) e il pallonetto a San Siro contro l’Inter, manifesto di esaltante semplicità come il capolavoro in Nazionale contro la Danimarca. Il terzo è invece ciò che allontana Osvaldo dalla Roma: la lite con Andreazzoli, sfociata su Twitter e prodromo di un divorzio scontato, mette i titoli di coda alla sua storia in giallorosso.
Osvaldo si sta appassionando alla musica mentre inizia a non sopportare più la professionalità che richiede l’essere calciatore. L’addio alla Roma è la rovesciata che capovolge la sua carriera.
Osvaldo inizia a perdere di credibilità, fallendo ogni altra occasione.
La prima di queste è al Southampton che, comprandolo, completa l’acquisto più caro della storia del club: Osvaldo inizia bene, segna anche un gol da capogiro contro il City, ma alle rovesciate sembra aver sostituito i colpi di testa, tanto che viene sospeso per aver ammaccato un incolpevole José Fonte.
L’italo-argentino passa dunque alla Juventus, squadra con cui conquisterà il suo primo personale scudetto senza però incidere mai, se non con quel gol al 94′ contro la sua Roma. Si, esultò anche, che dubbi vi ponete?.
Nel 2014, dopo essere stato scaricato dai bianconeri, si gioca la sua ultima carta italiana all’Inter.
Osvaldo si presenta in aeroporto in versione modello, occhiali da sole e chitarra, come stesse per andare in vacanza, certificando l’avvenuta involuzione a livello di serietà. Coi nerazzurri però Osvaldo sembra rinato, tanto da inventarsi quella che sarà la sua ultima rovesciata vera della carriera, contro l’Atalanta.
Osvaldo getta al vento anche questa occasione diventando un caso irrecuperabile: prima lo screzio con Icardi che non gli passa il pallone, poi le troppe sigarette che lo allontanano dall’Inter e, successivamente, da Porto e Boca Juniors.
La vita calcistica di Osvaldo è stata ricca di rovesciate, vere e metaforiche. In sostanza l’italo-argentino ha vissuto tanti cambiamenti, tanti “colpi di testa” che lo hanno portato, a 30 anni, a dire addio al pallone. Dopo 10 anni di professionismo l’attaccante ha letteralmente appeso le scarpette al chiodo, lì accanto a quella mensola così grande da contenere la sua più grande passione: la chitarra. Osvaldo l’ha presa, l’ha osservata e ne ha spolverato la cassa. Dopo l’ha imbracciata, capelli raccolti e occhiale alla Johnny Depp, ha attaccato il cavo jack ed ha iniziato a suonare. Ne è uscita una melodia rock, colonna sonora della sua carriera.
Quella da musicista è appena iniziata.
Quella da calciatore è stata, è e sarà sempre una rovesciata bella ma incompleta, stupenda ma annullata per fuorigioco.