Esiste ancora oggi nel mondo del calcio un problema omofobia?
Lo stigma sociale legato all’omosessualità è ormai venuto meno in buona parte dell’odierna società. A livello ufficiale, l’OMS l’ha cancellata dall’elenco delle malattie mentali il 17 maggio 1990, definendola per la prima volta “una variante naturale del comportamento umano“.
Il primo coming out di un calciatore non tardò ad arrivare: Justin Fashanu dichiarò apertamente – dopo anni di conferme, più che di sospetti – il proprio orientamento sessuale già nel 1990 quando indossava la maglia del West Ham. La dichiarazione pose sostanzialmente fine alla sua carriera da professionista, osteggiato da tifosi ed avversari. Il tragico epilogo avvenne nel 1998, quando Justin decise di suicidarsi a seguito di un’accusa di stupro rivelatasi poi falsa. La sua storia è stata ricostruita nel dettaglio qui.
Quello di Fashanu è un caso isolato, uno dei pochissimi ad averlo fatto durante la sua carriera, soprattutto a livello europeo. Nel calcio, più che negli altri sport, resiste ancora quest’impostazione maschilista e, in una certa misura, omofoba: soprattutto in Italia.
“So’ froci, so’ problemi loro. Mi auguro che non ci siano veramente in nazionale”
Antonio Cassano
Parole e musica di Antonio Cassano, giugno 2012. Questa fu la nota risposta del talento barese alla domanda posta da un giornalista che, ricordando una recente – all’epoca – intervista di Alessandro Cecchi Paone, sosteneva la presenza di giocatori omosessuali all’interno del ritiro della Nazionale. Sul “problemi loro” si può anche soprassedere, pensando magari che il buon Antonio si riferisse al fatto che il nascondere la propria identità sessuale in un mondo così ostentatamente maschilista potesse essere un problema a livello interiore, in termini psicologici una sorta di “doppia personalità“. Mentre a pensar male si potrebbe pensare che l’essere “froci” sia per lui in realtà il problema vero.
Ma sulla seconda frase, in quell’augurio, si nasconde la visione di molti sull’argomento. Come se un ipotetico giocatore omosessuale rendesse e “valesse” meno della sua controparte etero. Come se la sua omosessualità non fosse un dettaglio, una postilla, ma qualcosa di invalidante sulle sue prestazioni in campo.
Una vecchia parodia sulle dichiarazioni di Cassano
Ma Cassano non è notoriamente un fine pensatore e quindi il tutto passò in sordina al capitolo “Calciatori ignoranti parte 1“, quasi a conferma dello stereotipo. Si confuse quindi il “come” con il concetto espresso, chiaramente sintomo di omofobia. Cosa è cambiato da quell’intervista alla vigilia degli Europei del 2012? Poco o niente, anche a livello europeo. L’omosessualità continua ad essere un tabù nel mondo del calcio maschile, a differenza della controparte femminile.
‘Quattro lesbiche’ ai Mondiali
Il titolo del paragrafo è ovviamente ironico e si riferisce alle tristemente note parole dell’allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti Felice Belloli: “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a quelle quattro lesbiche…“.
Frase che, com’è logico che sia, sollevò un polverone mediatico di grandi proporzioni e portò alle dimissioni volontarie dello stesso Belloli: inutile la sua linea di difesa basata sull’arcinota frase “Ho anche amici gay“. Le sue parole furono riprese con ancor più forza dal senatore Roberto Salerno nel novembre del 2015, il quale sosteneva l’esistenza, all’interno dell’universo del calcio femminile, di una lobby gay “onnipresente, prepotente, arrogante e condizionante“, evidenziando dunque l’esistenza di una discriminazione inversa. Idea condivisa, seppur ad altre latitudini e senza arrivare ad immaginare una cospirazione del mondo omosessuale, anche da una giocatrice della WNBA. Candice Wiggins ha infatti raccontato di essere stata bullizzata perché etero in un ambiente al 98% omosessuale.
Senza lasciarsi fuorviare dalle esperienze personali che possono distorcere la percezione di un intero ambiente, a livello femminile esistono sicuramente meno ostacoli al coming out, così come dichiarato sempre nel 2015 da Martina Rosucci in un’intervista al Corriere della Sera.
Ci sono calciatrici omosessuali… Ma è vero com’è vero che il calcio maschile è pieno di gay. Solo che gli uomini sono più protetti e meno disposti ad ammetterlo. Non riusciremo mai ad uscire da questo moralismo bigotto. Rispetto all’Europa, siamo una società molto indietro. Le calciatrici straniere si sentono libere di twittare foto con la fidanzata, baci lesbici… Sai che casino scoppierebbe da noi?»
La situazione europea e mondiale è infatti diversa anche in ambito femminile, con diverse giocatrici libere di esternare la propria omosessualità durante la propria carriera. Abby Wambach, calciatrice USA, festeggiò la vittoria del Mondiale in Canada nel 2015 con un bacio con la sua compagna in tribuna, un’immagine iconica del movimento LGBT.
Inutile sottolineare, una volta di più, come sia la Nazionale di calcio femminile italiana, in questo momento, a portare il tricolore in una manifestazione mondiale grazie alla qualificazione ottenuta per Francia 2019.
Tra goliardia e delegittimazione
L’ultimo episodio di omofobia tra i confini nostrani, in ordine di tempo e fama, è rappresentato dal celebre scambio di battute tra Mancini e Sarri nel gennaio del 2016 al termine di un Napoli-Inter di Coppa Italia.
Mancini denunciò gli insulti del collega Sarri, colpevole di averlo chiamato “frocio, finocchio” al termine della partita vinta dai nerazzurri. La denuncia del tecnico sembrò inaccettabile. “Quello che succede in campo deve rimanere in campo” come la Las Vegas descritta nei film oltreoceano. L’omertà – perchè di questo si sta parlando – venne ribadita anche a mente fredda sia dal diretto interessato che da illustri colleghi. Ulivieri, presidente dell’Assoallenatori, addirittura suggerì altre soluzioni per “vincere” la lite, sostenendo come Sarri non sia razzista. Ma, a quanto pare, gridare “frocio” in evidente accezione negativa non basta: la squalifica fu di due giornate da scontare in Coppa Italia, coronata da un’ammenda. Niente razzismo, solo “epiteti pesantemente insultanti“. Come se quel termine non fosse utilizzato per screditare il collega. Per metterne in dubbio il valore di allenatore.
Come sottolineato da Giovanni Fontana in questo articolo de Il Post – che paragona la vicenda a quanto successo negli anni ’90 a Graeme Le Saux – le dichiarazioni dell’allora tecnico del Napoli sono soltanto il sintomo di una malattia: Sarri pronunciò quelle frasi proprio perchè nell’ambiente calcio – e non solo – ciò non solo è sdoganato ma addirittura naturale per svilire le qualità di un altro soggetto. Nella de-responsabilizzazione del comportamento dell’allenatore toscano – che pure aveva innegabilmente le sue colpe – doveva esserci un processo inverso di coinvolgimento e di analisi dell’intero mondo calcistico, con politiche atte a favorire la libertà e l’uguaglianza di genere e di orientamento sessuale: un momento di auto riflessione certamente propedeutico al superamento di un problema esistente. Al contrario, come spesso accade, l’equazione “tutti colpevoli = tutti innocenti” prese il sopravvento, permettendo ancora una volta di non affrontare la questione e rimettere tutti insieme la testa sotto la sabbia.
Omofobia: tutto il mondo è paese
Attenzione però a credere che l’omofobia sia una questione soltanto italiana. Senza tirare in ballo il già citato Graeme Le Saux, due esempi estremamente recenti dimostrano come le iniziative atte a contrastare il problema siano spesso rigettate da parte di tifosi e calciatori stessi, a dimostrazione di come non sia possibile imporre dall’alto un cambiamento culturale.
Il primo caso riguarda Josip Brekalo, calciatore croato del Wolfsburg. Per aderire alla lotta contro l’omofobia, il club tedesco ha infatti deciso che tutti i capitani delle varie squadre – dalle giovanili fino alla prima squadra – dovranno indossare una fascia color arcobaleno. Un gesto simbolico, lodato anche dal capitano Josuha Guilavogui. Sotto il post in cui viene annunciato il pieno supporto all’iniziativa, iniziano ad apparire i primi commenti di natura omofoba a parte dei supporters del Wolfsburg: nulla di strano, considerando la quantità di insulti che giornalmente si leggono sui social network. Il 20enne croato dimostra però di supportare i suddetti commenti ed inizialmente nega di aver messo ‘like‘ adducendo come scusante il comportamento anomalo del proprio smartphone. A precisa domanda però Brekalo dissipa ogni dubbio sulla propria posizione:
“Non posso condividere a pieno l’iniziativa del club perché va contro le mie convinzioni di cristiano. Da piccolo sono stato educato nel rispetto di certi valori. Se qualcuno vuole vivere in maniera diversa a me va bene perché sono fatti suoi e io non sono nessuno per giudicare, ma non mi va di indossare un simbolo che difenda l’impostazione di vita di altre persone. Non penso di dover indossare la fascia.”
Josip Brekalos statement translated: pic.twitter.com/gOg5SWvpzS
— Jasmina Schweimler (@JasSchweimler) August 25, 2018
Il secondo episodio riguarda sempre un’iniziativa di un club. In questo caso parliamo del Manchester City e della decisione di supportare il Manchester Pride, manifestazione chiaramente a favore della lotta all’omofobia, modificando la foto sulla pagina ufficiale Facebook aggiungendo l’arcobaleno come sfondo allo stemma della squadra. I commenti, in questo caso, sono equamente divisi tra reali prese di posizione contro l’iniziativa e battute di pessimo gusto. Senza contare il numero di followers persi nelle prime ore dopo la pubblicazione della foto.

Il processo per accettare la diversità all’interno del mondo del calcio è ancora lungo. Al momento uno dei pochi calciatori in attività ad aver dichiarato la propria omosessualità senza particolari conseguenze è Robbie Roger, calciatore del LA Galaxy. Diverse iniziative lasciano qualche speranza per un futuro diverso, in linea con quanto avviene in altri sport professionistici.
Altri Mondi
Allargando lo sguardo si può infatti notare come diversi atleti abbiano scelto la via del coming out. Importante l’abbattimento del tabù omosessualità da parte del pugile Orlando Cruz, il primo a dichiararsi nel 2012. Un muro che sembrava insormontabile, tornando con la mente alla vicenda che coinvolse Emile Griffith negli anni ’60.
Da segnalare la storia di Jason Collins, primo atleta dichiaratamente omosessuale nelle leghe professionistiche statunitensi.
“I’m a 34 year old NBA center. I’m black. And I’m gay”
Jason Collins
Queste furono le parole pronunciate da Jason Collins il 6 maggio del 2013 sulle pagine di Sports Illustrated. Il primo cestista professionista a dichiararsi omosessuale durante la sua carriera: in precedenza John Amaechi, giocatore britannico, aveva esternato le proprie preferenze sessuali soltanto dopo il ritiro. Diventato free agent, il 23 febbraio 2014 Collins indossò per la prima volta dopo il suo coming out una casacca NBA. La numero 46, indossata al suo debutto, divenne una maglia di culto, insieme a quello che sarà poi il suo numero ufficiale, il 98, in memoria di uno dei più famosi crimini di omofobia, l’omicidio di Matthew Shepard nel 1998. Collins diventa così un’icona, non solo per la comunità gay. Numerosi i messaggi di supporto ricevuti dal giocatore: il più importante fu sicuramente quello del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. La rivista Time lo incluse tra le 100 persone più influenti del pianeta: Jason diventa così un’icona della lotta all’omofobia, di libertà. Libertà di essere sè stessi, di poter esprimere la propria personalità senza dimenticare però il proprio ruolo. 735 partite giocate, 10 stagioni ai play off: prima di essere gay, Collins è stato soprattutto un giocatore. Non è un caso che, nella frase riportata, “NBA Center” venga prima di “Gay“: quello è un dettaglio, una postilla, ma il suo posto nel mondo è sul parquet. Nessuno si è permesso pubblicamente di definirlo un “Faggot“.
Fanno da contraltare alla storia di Collins le dichiarazioni di un altro suo collega, Amar’e Stoudemire:
“Se sapessi che un mio compagno di squadra è gay, mi farei la doccia dall’altra parte della strada e mi assicurerei che i miei vestiti fossero dietro l’angolo E prenderei anche una diversa strada per arrivare in palestra”.
La situazione italiana per quanto riguarda l’omofobia sembra, al momento, drammaticamente vicina a queste dichiarazioni.