7.
Ci sono lati oscuri della psiche umana, di cui nessuno parla. Scheletri destinati a soggiornare nell’armadio per sempre, nell’attesa che svanisca la paura di affrontarli; paura, sembra questa la sensazione principale che attraversa la mia pelle e arriva dritta dritta all’ipotalamo. Paura di non farcela, di non sapere come affrontare the dark side of the moon, il lato più oscuro e subdolo di un numero che ci ha stregati, che mi ha stregato. E, ammettetelo: almeno una volta, siete rimasti stregati da quel folle di Jeremy Menez. Non fatevi assalire dalla vergogna, qui potete parlarne, esprimere liberamente i vostri pensieri, estrapolare anarchicamente la vostra creatività, i pensieri che la società etichetterebbe in maniera non adeguata. E spesso, il talento francese si è sentito così, non adeguato per i grandi palcoscenici, per una grande carriera a cui forse poteva auspicare.
Un appuntamento inusuale, per il nostro Numero Sette del mese.
4.
Ho sempre provato un fascino ipnotico per i talenti che avrebbero potuto raccogliere molto più di quel che hanno seminato. Sono un perfetto spaccato sociale, una rappresentazione calcistica di una condizione che può avvilire l’animo umano, quella continuità che ricerchiamo pure nel quotidiano, nel nostro ufficio, alle partite di calcetto, in generale nei tessuti sociali più importanti per caratterizzare la nostra personalità e mantenerci vitali. Quando vedo giocare Menez, tutto questo si assenta; i paradigmi sociali si ribaltano, il suo essere calcisticamente bello e dannato mi proietta in una dimensione anarchica, una dimensione in cui tutto è lecito e nulla è definito. Non sai mai cosa potrebbe inventarsi.
Quando ti punta, ti lascia lì. L’effetto di Menez sui difensori avversari, è devastante; il problema è la continuità con cui si presenta. Già, perché in quella dolceamara annata della Roma di Ranieri spuntava ogni tanto il francese, usciva dal letargo e forniva tre assist in un 4-2 contro l’Udinese, una delle sue migliori apparizioni in maglia giallorossa. Ma continuo a non capire, mentre digito freneticamente i tasti del mio computer il corpo è pervaso da una sensazione di totale incomprensione di un personaggio troppe volte definito come “bravo ma non si applica”. Ho la sensazione che si nasconda ben altro, nell’abisso della psiche di Menez.
E l’abisso che si crea fra una partita e l’altra, è impressionante; della serie, qual è il vero Jeremy Menez? Quello a Roma cresce ma non abbastanza, dipinge schizzi di talento ma non finisce l’opera, come se il dipinto in sé venisse messo in secondo piano da un’irrefrenabile desiderio di giocare secondo le sue regole; dalle sue partite, traspare questo.
C’è solo un giocatore che, più di tutti, estremizza e divinizza questo concetto. Divinizza, appunto.
3.
Zlatan Ibrahimovic. Non potevamo che trovare lui in questa dimensione, il Simba di questo regno, reincarnazione del numero perfetto che come pochi altri sa concentrare le attenzioni su di sé; ha sempre fortemente Jeremy Menez, e non sto scherzando. Ne intuì subito le qualità, potenzialmente letali, per creare una parternship offensiva di tutto rispetto, in un campionato che il PSG avrebbe vinto nel 2012/13; l’anno precedente, il Montpellier di Giroud ebbe incredibilmente la meglio. Ibra non si risparmia mai, non parla a vanvera né proclama banalità, per lui Menez è il miglior giocatore francese in attività.
Ricordate, siamo in un pezzo anarchico, in un luogo dove la normalità è stata messo in castigo e chissà quando tornerà in vigore; possiamo permetterci licenze poetiche, nel mero rispetto della fluidità narrativa. Menez e Ibra, insieme, si capivano, si completavano, anche se qualcuno sostenne che potessero calpestarsi i piedi; in ogni caso, quel che ti lascia l’intesa sportiva, sul campo, raggiunge picchi inesplorati di ineffabilità. Zlatan ha lasciato un segno nella carriera di Menez, forse uno dei più importanti; lo svedese si sa, è un personaggio che più gli si avvicina come giocatore ideale, sicuro di sé, impeccabile, che ha sconfitto un passato ostico quanto il catenaccio made in Italy. Un modello da seguire, scrutare, e soprattutto rubare con gli occhi, il più possibile; già, perché presto o tardi Menez avrebbe effettuato un upgrade tattico che gli diede una svolta consolatoria e decisamente illusoria. Ma comunque, una svolta.
1.
Vi aspettate una svolta in questo pezzo? Beh, non assicuro niente. Mi sento imprevedibile, irriverente, a tratti orribile, proprio come la stratosferica annata di Menez al Milan; 16 gol, 14 assist, una leadership tutt’altro che lapalissiana in un contesto che ostentava una mediocrità disarmante. Lui non si scompone, anzi, si sente ancor più importante e nel vivo di un progetto stazionario, ancora agli antipodi di una totale ricostruzione; va a strappi, non gli piace andare come gli altri, agli stessi tempi degli altri. Prova un’attrazione fisica per la progressione in velocità, a campo aperto, vuole vedere gli avversari rincorrerlo, affannati, mentre s’invola verso una gloria dal sapore resurrezionale e liberatorio, contro tutte le critiche più costanti del suo rendimento.
É stufo lui, lo siamo anche noi. Stufo di catalizzare critiche nella vita quotidiana, quasi come se l’essere umano debba ossigenarsi attraverso l’emanazione di critiche a profusione, gratuite; Menez ne ha ricevute tante, troppe, sempre le solite. Le sto elecando, ma nel frattempo tento di guardarlo secondo un punto di vista più distorto, differente, che forse neanche lui ha mai pensato di avere. Probabilmente fallirò nell’intento, non lo conosco di persona; conoscevo il Menez calciatore, che mi fece vincere il fantacalcio con una stagione roboante. Raptus di onnipotenza calcistica che sembravano averlo posseduto.
D’altronde, cosa puoi dire dinnanzi alla facilità con cui liquida il malcapitato Koulibaly? Nulla, puoi solo ammirare. Puoi cercare di carpire il perché queste giocate non siano rifiorite e rappresentate a grappoli, ma finirei con il sciupare la bellezza di quell’attimo, la pura e incontaminata essenza della giocata; troppe volte ci focalizziamo su quello che ci manca, piuttosto che apprezzare ciò che abbiamo. Ci focalizziamo su un aspetto della nostra vita che si è dissolto al cospetto di quelli che abbiamo acquisito, al cospetto di una crescita che spesso sottostimiamo, mentendo a noi stessi; e chissà, se Menez avrà mentito a se stesso, avrà parlato al suo lato fanciullesco e dribblomane che spesso sgomita e prevale.

Nonostante tutto, è un frame che segna un cambiamento radicale nel modo di pensare di Menez; l’egoismo della punta vera, che vuole segnare a tutti i costi, che vede nel gol un’ossessione viscerale. Jeremy ha una visione più sadica del ruolo, nuda e cruda, merito di maestri come Inzaghi e Ibra. Nonostante ciò, non riesce a ripetersi e diventa un peso che i rossoneri non possono più sostenere.
2.
Vivere per il gol. Al Milan, adesso, c’è un polacco che incarna alla perfezione questo diktat, alimenta sogni rossoneri che a Milano non aveva mai incrociato; forse colpa della nebbia. Una nebbia d’incertezze, investimenti sbagliati dettati da una voglia di riemergere subito. Ma nel calcio è necessario un corposo lavoro di programmazione, uno sguardo attento e indiscreto al presente, al futuro; al passato, per analizzare gli errori da non commettere. Menez, di errori, ne ha commessi tanti. Ma non gli importa, non cerca l’adulazione della plebe, o così rammenta in giro; non adora i social, li reputa meccanici, freddi, lontani dalla sua concezione semplicistica della vita.
Se ho qualcosa da dire a qualcuno in particolare lo dico a lui, non ho bisogno di condividere con tutto il mondo. Al massimo, faccio un’intervista.
E sui social, mi trova concorde. Una realtà troppo distorta, disfunzionale, depauperante in rapporto alle ragnatele sociali che ci illudiamo di alimentare con l’utilizzo di queste piattaforme; ci sentiamo in dovere di farlo, di pubblicare contenuti, per ricevere feedback positivi o per bussare alla porta di una società virtuale in cui dobbiamo rimanere vigili per il timore di sentirsi isolati. Non c’è dimensione che tenga.
Menez è un numero sette che non guarda a queste sottigliezze, non lo toccano; due secondi dopo, potresti trovarlo sulla home di Twitter. È un giocatore e soprattutto un uomo semplice; negli anni si è trasformato, da esterno a centravanti moderno, con quella progressione fiammante da trequartista che aspetta solo di spezzare le serrate linee avversarie facendole diventare morbide e fragili come burro fuso. Due secondi dopo, potrebbe complicarsi la vita.
6.
Vi siete chiesti come mai il numero dei paragrafi non è in ordine? E soprattutto, che ne manca uno? Forse no, non v’interessa; magari avete poco tempo e fra un esame e l’altro, volevate sfogliare un pezzo leggero, non impegnativo. Se siete attenti, meticolosi, e non trascurate il dettaglio, avrete la mia più sincera stima; già, ho voluto conferire un tocco ribelle, a partire dalla configurazione numerica. Perché seguire dettami prestabiliti quando si possono rompere con una giocata di pura invettiva e magia?
Menez lo sa, lo ha fatto spesso. Ma ora, vive nel dimenticatoio; il calcio non guarda in faccia nessuno, e se il ginocchio scricchiola ti scarica come il latte scaduto di un fuorisede particolarmente distratto. Dopo la felice parentesi rossonera, la migliore della carriera, non trova più quella spavalda brillantezza che lo ha sempre contraddistinto; prima al Bordeaux, poi all’America, Jeremy svanisce nel nulla. Forse, è meglio così.
Non sappiamo se ritornerà, se irromperà in questo pezzo o sui campi da calcio con ferocia; quel che resta da fare, è porre fine a un giogo ribelle che mi ha scombinato un cervello già in disordine. Ma per entrare nel mood di Menez, non vi sono altre soluzioni; pensare come lui, da fantasista evolutosi in prima punta, da amante dei dribbling superflui e degli assist proficui, da partite assurde a prestazioni evanescenti. Una volta catapultati, bisognava portare quest’anarchia fino in fondo.
Senza mezze misure, come piace a Menez.
Questo, è il lato oscuro del numero sette.
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