All’interno di una squadra, è difficile che a fare la differenza siano pochi fattori come il top player, la difesa o la tattica. Spesso s’inciampa in qualche problemino di cui non si conosceva l’esistenza. Quando invece è solo l’allenatore a fare la differenza? Quando l’organizzazione di ogni zona del campo è talmente maniacale da risultare eccessiva, stucchevole e senza ragione. Questo è Marco Giampaolo, un professore di Tecnica del Dettaglio, che ha investito sulla precisione e ce l’ha fatta.
Fuga
Sembrava ormai al capolinea la carriera dell’allenatore nato in Svizzera ma cresciuto sulla sabbia di Giulianova: era il settembre 2013, Giampaolo allenava il Brescia in Serie B, e dopo un inizio soddisfacente la squadra ha iniziato – come quasi in tutta la carriera del mister – una serie di risultati negativi. I tifosi non sopportavano le sue conferenze stampa solenni, il suo gioco assolutamente bello ma poco efficace, fatto di passaggini e passaggetti e, soprattutto, non sopportavano determinate scelte tecniche. Ed ecco il momento: sconfitta con il Crotone in casa, curva bresciana che inneggia al ritorno di Alessandro Calori in panchina, fuga di Giampaolo.
Avete letto bene, fuga. Nel vero senso della parola. Marco Giampaolo era scappato, non si presentò all’allenamento del giorno dopo e non si fece vedere per tre giorni, prima di farsi vivo e rassegnare le dimissioni. Un pazzo, verrebbe da pensare. Effettivamente in questo personaggio logico e impulsivo c’è un po’ di follia: non l’avevano capito, nessuno mai l’aveva capito. E lui non si capacitava di come una tale ricerca della perfezione potesse non essere accettata da nessuna società, nessuna tifoseria, nessun presidente. Perciò fuggire dai problemi era l’unica cosa che gli era rimasta, quasi a far capire al mondo del calcio che lui era troppo al di sopra della media per essere compreso.
Gavetta
Giampaolo non esisteva più. Dopo esser stato dipinto come il futuro miglior esponente italiano in panchina, aveva fallito la sua ultima occasione. Era stato promosso con l’Ascoli, alla sua prima esperienza da allenatore, lanciando un certo Fabio Quagliarella, ed aveva convinto a Siena, tanto dall’esser stato praticamente della Juventus nel 2009, poi il nulla. Cagliari, Catania, Cesena, Brescia, una delusione dietro l’altra. Il credito era scaduto, Marco Giampaolo non era più ciò di cui tutti parlavano.
Ci voleva un ritorno alle origini, alla gavetta. A quella gavetta che aveva reso Giampaolo quel mix di idee, filosofia e meticolosità. E, inaspettatamente, più di un anno dopo, arriva la chiamata della Lega Pro. A far squillare il telefono del mister era stata la Cremonese, che da qualche stagione investiva molto ma non riusciva a raggiungere la promozione in Serie B. L’obiettivo con Mario Montorfano in panchina era ormai svanito, ma i playoff non erano così lontani.
Giampaolo sale in cattedra, ricomincia, studia e organizza: rende i grigiorossi una squadra divertente e con una linea difensiva pressoché infallibile. Riesce a raggiungere un insperato ottavo posto, che non è valso una possibilità di ambire alla promozione, ma un’eterna riconoscenza da parte dei tifosi della Cremonese e, soprattutto, un ritorno ad una credibilità persa.
Conoscenze
E così il ritorno in A: l’Empoli. A quella squadra orfana di Maurizio Sarri, altro individuo abbastanza ossessionato dalla linea difensiva (a 4, non sia mai), già abituata al possesso palla e all’elasticità delle posizioni in campo. Decimo posto, addirittura meglio dell’anno precedente con l’allenatore toscano, ma con una dignità e una consapevolezza mai visti per una squadra di livello così basso. Giampaolo era tornato alla carica, era tornato con nuove conoscenze, quelle di cui spesso parla lui in conferenza stampa, quelle da cui sembra non poter stare lontano.
I calciatori ti studiano, i calciatori ti pesano ogni giorno. Ma al centro rimane l’idea di costruire qualcosa, andando avanti per la mia strada.
E con quelle conoscenze, così agognate, ricercate e rielaborate, ha conquistato una piazza difficile e sempre insoddisfatta come quella della Sampdoria. I blucerchiati arrivavano da una stagione sconquassata: la scelta sbagliata di Walter Zenga, l’uscita dall’Europa League, l’eccessiva fiducia a Vincenzo Montella avevano reso i blucerchiati una squadra da quindicesimo posto, pur avendo un organico più che buono. L’inizio non è stato esaltante: prestazioni sempre al di sopra della media, ma pochi punti portati a casa. Giampaolo sembrava essere tornato in quello storico tunnel di insicurezze, alimentato anche dalle polemiche dei tifosi, spezzati in due metà: quelli che intravedono un piccolo bagliore di luce, che credevano impossibile una resa così bassa nonostante un gioco del genere, e quelli che ritenevano Giampaolo un incapace, solo bravo a far vedere il bello del calcio e niente più.
D’altronde il pensiero che circolava in tutta Italia e soprattutto nel capoluogo ligure, alla stessa velocità con cui Muriel calcava il manto erboso del Ferraris, screditava il lavoro di Giampaolo in Toscana: come potevano essere convinti i più dubbiosi da un tecnico che arrivò decimo “soltanto grazie al lavoro minuzioso svolto da Sarri“?
Competenza
Uno per uno, li ha smentiti tutti. Alla Sampdoria, ora, c’è una tranquillità ed una fiducia nei propri mezzi che non si avvertiva da tempo e gran parte del merito è di Marco Giampaolo. Si è inventato Milan Skriniar portavoce della difesa, insegnandogli a difendere meglio e a prender palla senza paura ogni qualvolta volesse; si è inventato Dennis Praet mezzala, annichilendo un po’ l’enorme potenziale tecnico del belga, ma creandone un motorino dai piedi dorati e dagli inserimenti preziosi; si è inventato Jacopo Sala terzino destro, uno che da giovane al Chelsea faceva il trequartista: Giampaolo sapeva che lui ha corsa e buoni cross, perché non potrebbe fare il terzino? E così via: ha reso Patrik Schick un talento di fama mondiale, pur facendolo giocare quasi sempre dalla panchina. Perché? Lo diceva, e a lui sembrava ovvio: Schick ha una rapidità d’esecuzione tale che, se fatto entrare a partita in corso, destabilizza e ti fa vincere.

Queste sono solo alcune delle invenzioni che Marco Giampaolo ha portato nel calcio moderno, un calcio fatto di studio della difesa, il punto di partenza per vincere, di analisi ossessive dell’avversario (non è raro vederlo, due o tre giorni prima della partita, fino a tarda sera chiuso nel suo ufficio a Bogliasco ad analizzare filmati sulla squadra da affrontare) e di urla.
Quelle urla con comandi semplici, forti e chiari che riecheggiano sempre, quasi a voler far intendere: ci sono anche io e, per favore, ascoltatemi e vedrete che vinceremo. Marco Giampaolo, prima orfano e poi adottato da quel concetto di calcio che lui ha tanto amato, ama ed amerà sempre.