Tu si n’anima bon che è caruta rint’a na capa stort
Azmera a O’Principe (Antonio Folletto alias Marko Livaja)
Quando mi è stato assegnato lo spinoso caso di Marko Livaja, mi è subito tornata in mente una delle citazioni più celebri di Gomorra – La serie. Visti i trascorsi dell’attaccante croato, questa assomiglia molto alla frase che ti dicono genitori, nonni e amici dopo l’ennesima bravata, del tipo “sei un bravo ragazzo, ma quando ti ci metti…”.
Poi, guardandoli meglio, si assomigliano anche nell’aspetto. Ho visto la luce.
Marko Livaja, da giovane, era il più bravo della piazza, un po’ come O’Principe che era l’unico a saperla tagliare 1 a 4. Così, ai tempi appena 17enne, l’Inter decise di metterlo sotto contratto e di farlo girare tra Svizzera ed Emilia-Romagna, sponda Cesena, prima di portarlo a casa base.
Considerato uno dei prospetti migliori in casa nerazzurra, Livaja non ha però mai dimostrato un granché, rimanendo ai margini di un Inter fallimentare: zero acuti, 4 gol in Europa League contro Rubin Kazan e Neftçi Baku, pochissimi scampoli di partita in A (108′ in 22 gare). E una rete clamorosamente divorata contro il Genoa, forse l’unico ricordo della Curva Nord.
Non che all’Atalanta abbia fatto meglio, anzi. Di solito i giovani vengono mandati in prestito per maturare a livello tecnico ma soprattutto professionistico, e in effetti Livaja non aveva iniziato male il “tirocinio” con due reti alla Roma alla terza in maglia bergamasca.
Dalla sua espressione, da come si atteggia in campo, si capisce però subito che Livaja non è un giocatore qualsiasi. Ha negli occhi lo sguardo di chi pensa a sé stesso, nelle movenze la cattiveria di chi vorrebbe spaccare il mondo; è, insomma, un giocatore che si guarda, si specchia, si compiace dei propri mezzi ma che si perde se non riesce ad esibirli. Se la descrizione vi assomiglia a quella di Balotelli, vuol dire che ho reso bene l’idea.
Chiedere a Radovanovic per conferme, visto il pugno che il croato gli ha rifilato in allenamento: il bello è che l’attuale centrocampista del Chievo gli aveva consigliato poco prima di “calmare il suo temperamento” e di “tradurre tutto questo in energia positiva”. Alla faccia.
Ma Livaja si è dimostrato impermeabile ai consigli e fin troppo permeabile alle critiche, come nell’episodio che ha segnato il suo addio all’Atalanta e la fine del prestito all’Inter. Non sopportare nemmeno i fischi dei tifosi è un limite enorme, soprattutto se ancora sei semi-sconosciuto e devi dimostrare se e quanto vali.

Gennà ij teng na bandiera sola: ne chell e’ Ciro (PRESIDENTE DELL’INTER) e ne manco a tua. A’ bandiera è a’mij.
O’Principe a Gennaro Savastano, proprietario dell’Atalanta
Livaja è sempre stato avulso dal contesto di squadra per colpa del suo carattere isterico, instabile, a tratti egoista, che per un attaccante è l’ideale solo se non sfocia in uscite di senno. L’unica bandiera per cui combatte è quella di sé stesso, tanto che il croato ha cambiato cinque squadre in 5 anni, senza incidere in nessuna di queste e senza lasciare alcun ricordo.
Prima un’infelice esperienza nella gelida russia, a Kazan, poi il ritorno in Italia all’Empoli dove si è distinto per una bella bordata sotto l’incrocio al Franchi e per un disguido (per usare un eufemismo) con l’allora tecnico dei toscani Giampaolo. Quanto è bastato, quest’estate, ad accettare la chiamata del Las Palmas, fiondatosi sulla liquidazione proposta dal Rubin.
Nella isla de Gran Canaria, lontano dal fragore dell’entroterra, Livaja ha iniziato benissimo con una doppietta all’esordio a Valencia; due reti da attaccante puro quale è – dovrebbe essere: una di testa ad anticipare il difensore, l’altra in contropiede. Denominatore comune? Mano all’orecchio sotto i tifosi dei pipistrelli, uno di quei gesti inconcepibili pure se ti chiami Icardi o che so io.
Ma cosa gli avranno mai fatto gli aficionados valenciani?
Come se non bastasse, Marko ci è ricascato di nuovo: contro l’Alaves è andato in rete, ma quando è stato richiamato in panchina non ci ha visto più ed ha calciato la prima cosa che si è trovato di fronte. Fortuna che si trattava di una borsa dei medicinali, non escludo che se Setien fosse stato sotto tiro probabilmente sarebbe stato lui il bersaglio del suo malcontento.
Un’altra follia che lo condanna ad un bivio, a soli 23 anni. Livaja dovrà decidere necessariamente da che parte stare, se da quella dei canari o ancora una volta chiuso in sé stesso; dovrà capire che nel calcio “non c’è spazio per gente come lui” (cit. Radovanovic), capace coi piedi ma meno con la testa, e che questo comportamento lo sta pian piano portando ai margini di ogni squadra che prova a valorizzarlo.
Che a stare da soli, pensando solo alla propria gloria, ci si rimette soltanto. Ce l’ha insegnato proprio lui, O’Principe, considerato immortale fino a quando qualcuno non lo riportò coi piedi per terra.
Nel vero senso della parola.