Non credo di sbagliarmi se dico che della Romania nessuno sa niente: e non lo dico perché ho poca fiducia negli italiani e nelle loro capacità cognitive-culturali degli altri popoli, ma perché a prima impressione un nostro connazionale qualsiasi non direbbe – condizionato da quella che può essere considerata come una visione distopica della realtà – “voglio andare a vivere in Romania” o “il prossimo anno andiamo tutti in vacanza a Bucarest”.
“Una volta, una persona italiana che conobbi proprio a Bucarest, mi raccontò di aver avuto delle difficoltà nel trovare un appartamento. Molti romeni non erano disposti ad affittare agli italiani, considerandoli “inaffidabili, sfruttatori e puttanieri”. Un bello specchio della nostra percezione per il popolo romeno, no?
Con tranquillità vi posso dire che le mie conoscenze sul paese erano limitate alla colonna traiana (e, di conseguenza, alla conquista della Dacia – no, non mi riferisco al noto marchio automobilistico – da parte dell’imperatore Traiano) e alla presidenza di Nicolae Ceausescu, sfociata in una dittatura di cui parleremo più avanti, che ha modificato permanentemente l’assetto della città.
Significativo e prezioso, quindi, all’interno del pezzo, risulterà il contributo di Damiano Benzoni – vd. precedente corsivo – in assoluto uno dei massimi esperti italiani di cultura romena (potete leggerne su dinamobabel – creatura sul calcio dell’Est, a sua immagine e somiglianza – o su Mondo Futbol).
Per Benzoni, a creare gran parte degli stereotipi indirizzati verso questa popolazione, sono “un mix tra la paura generata dalla scarsa conoscenza e le oggettive difficoltà di integrazione che possono avere gli individui, nonostante quello romeno sia un popolo talmente vicino a noi e ai francesi, essendo un’oasi latinofona in una regione principalmente slavofona, un popolo fiero della propria cultura, di Eminescu e dei propri poeti, dei propri compositori e dell’amore per la musica classica e l’opera.”
Tornando a noi, se queste conoscenze possono essere considerate come “il dovere”, in età adolescenziale è arrivato anche “il piacere”: ricordo che il primo calciatore romeno di cui sentii parlare fu Gheorghe Hagi. In verità, mi regalarono una raccolta di DVD dal titolo Fifa Fever che celebrava il centenario della massima organizzazione calcistica mondiale: lì, tra i migliori gol della storia, c’era proprio uno del Maradona dei Carpazi contro la Colombia. Ma era un qualcosa di passeggero, come una parola che ti entra da un orecchio e ti esce dall’altra. Poi ci furono Contra, Chivu, e Adrian Mutu.
Quello per Mutu, invece, fu un amore platonico. La sua unica stagione al Parma, in combutta con Adriano, fu roba da stropicciarsi gli occhi: so che non v’interessa, ma la sua maglietta gialloblù fu una delle mie prime, che ancora conservo – anche se, ormai, esageratamente attillata. Poi ci fu la cocaina, il tentativo di riportare in auge la carriera, la Fiorentina e l’addio al calcio giocato: ora è DS della Dinamo Bucarest.
Questo era tutto quello che sapevo della Romania.
HISTORIA
Bucarest è la città più popolosa della Romania: quasi un milione e mezzo di abitanti contro i poco più di 300.000 di Cluj, seconda città del Paese – che la maggior parte di noi conoscerà per i trascorsi in Champions League. In una storia millenaria, ciò che ha più di tutto cambiato l’assetto del paese è stata, senza ombra di dubbio, la dittatura comunista di Nicolae Ceausescu, dal 1974 al 1989. Una cosa quasi “normale”, per un paese rimasto per molti anni sotto l’influenza del comunismo sovietico: ed anche qui si è visto, e si vede tutt’oggi, il paradosso di un sistema politico che dovrebbe dare a tutti ma che tiene tutto per sé. Ciò nonostante, per Damiano, oltre quelli figli del già citato periodo comunista, gli strascichi ad oggi più visibili – non solo a Bucarest, ma nell’intero paese – sono quelli legati all’unione o mancata unione con alcune zone come la Transilvania o la Moldavia. Se c’è diffidenza nei confronti degli ungheresi – in particolare rispetto alle aspirazioni autonomiste della cosiddetta Terra dei Secleri, che in questa stagione è rappresentata in Liga I dal Sepsi di Sfântu Gheorghe/Sepsiszentgyörgy – c’è anche un irredentismo legato alla Moldavia. Un irredentismo piuttosto infantile, che si esprime attraverso le miriadi di adesivi o di graffiti “Basarabia e România” (La Bessarabia, come i romeni chiamano la regione moldava, è Romania), ma che non si traduce per esempio in una conoscenza delle vicende politiche e sociali dei vicini orientali, per quanto – almeno la frazione romenofona – prossimi culturalmente e dotati degli stessi riferimenti storici, da Eminescu a Enescu a Stefano il Grande (Ștefan cel Mare).
Riprendo il mano il discorso, citando una cosa che ho avuto poi modo di constatare personalmente, che riguarda però la fase sovversiva attraversata dalla Romania: se nelle parole dei nostri nonni ritroviamo sempre un collegamento con la guerra, il rimando della gente romena è sempre legato alla dittatura. Chiedendo in giro, ad esempio, si sentono storie di chi il giorno della rivoluzione dell’89 era in Piata Revolutiei a protestare ed è fuggito ai proiettili della Jandarmeria o della Securitate; altri parlano anche di diverse iniziative di contrabbando. Qualche prodotto europeo arrivava, ma lo shampoo, la Coca-Cola o più semplicemente le sigarette erano una ricchezza notevole per il periodo; mi ha colpito particolarmente il racconto di un signore poi emigrato in Italia, che per la prima volta ha mangiato una pizza “contrabbandata” dal sapore dezgustator – disgustoso – e che, per altri 20 anni, non ha voluto vedere niente che si avvicinasse ad essa, nemmeno in Italia. Poi, chiaramente, si è ricreduto.

Seguendo la frase “dal letame nascono i fior”, di stampo deandrèiano, Ceausescu fece costruire quello che sarebbe stato il quartier generale di tutte le istituzioni del paese: la Casa Poporului. Questa fu terminata solo in seguito alla sua caduta, e ad oggi è il Palazzo del Parlamento. Non credo di aver mai visto un qualcosa di così grande prodotto dall’uomo: da qualsiasi strada si arrivi, non c’è bisogno di sporgersi per vederla. A testimonianza delle sue dimensioni immense, il Guinness dei Primati l’ha identificato come l’edificio più pesante al mondo ed il secondo più grande per superficie, dopo il Pentagono. Ma la storia più incredibile che aleggia intorno al monumento, che mi è stata rivelata durante un tour della città in macchina, è il fatto che il sottosuolo sia 2 volte più grande della parte esposta all’atmosfera: considerate che il monumento è alto poco meno di 300 metri.
Quelli che sembrano essere rimasti diversi anni indietro sono i piccoli paesi alla periferia di Bucarest: qui il modello è quello campestre. Sembra di fare un tuffo nel passato, perché tutti vivono della propria agricoltura e allevano i propri animali: inoltre, frequentemente si vede qualche zingaro passare, per le stradine rurali, con carrozze trainate da cavalli. Certo, la tecnologia non ha tardato ad arrivare nelle case dei meno anziani, ma per chi – come noi – è abituato a vivere nel benessere – potrebbe sembrare qualcosa di inaudito. Il tempo, nelle zone di campagna, è rimasto fermo a trent’anni fa.

LA PICCOLA PARIGI
Anche il suo più agguerrito difensore, ricollegandoci a quanto detto prima, ammetterebbe che, a prima vista, Bucarest può sembrare la capitale meno attraente d’Europa. Non si sa bene da cosa derivi il nome della città: qualcuno pensa dalla parola bucurie, che tradotta sarebbe “felicità”; altri credono che derivi da Bucor, un pastore che la fondò durante la transumanza del suo gregge dai Carpazi al Mar Nero.
Se duplice è l’origine del nome, duplice è anche la faccia della città, quella che si mostra a turisti e abitanti del luogo. L’architettura della città è, infatti, da una parte pesantemente contraddistinta dalle follie di Ceausescu, che come ogni dittatore della storia mondiale non ha fatto altro che far cadere nel baratro il proprio paese, con idee scellerate e mai approvate dal popolo. A lasciare particolarmente perplessi, della dittatura, sono i palazzi di cemento eretti a volontà lungo le strade: hanno provato, i rumeni, a renderli più “guardabili” dipingendo i balconi con colori vari, ignari, però, che la sostanza non cambia.

L’apparenza inganna, poi, perché gli appartamenti spesso e volentieri sono dotati di ogni comfort possibile e immaginabile. Tra una porta e l’altra ci sono negozi, sale da gioco, venditori di shaorma (piatto turco simile al kebab) a 1 leu, che è la moneta nazionale rumena (21 centesimi di euro, al cambio attuale). Ed un sacco di macchine, parcheggiate sui marciapiedi; la multa, però, te la fanno solo se parcheggi per strada.
Ed è qui che subentra l’altra parte. Le città della Romania, e Bucarest in particolare, negli ultimi anni stanno attraversando un periodo particolarmente florido dal punto di vista economico: non l’avrei mai detto, ma soprattutto nelle zone periferiche della città si sono sviluppati quartieri con giganteschi centri commerciali, grattacieli e ristoranti pluristellati. Addirittura, da qualche tempo i più ricchi della città hanno creato dal nulla un complesso di palazzi, in linea d’aria vicino all’aeroporto, che la stampa ha da subito ridefinito Cartierul Vedetolor, “il quartiere delle star”, più disprezzatamente chiamato dai rumeni la galera dei vip.
Non è però tutto da buttare, anzi. Bucarest sa regalare anche degli scorci meravigliosi, come per esempio gli ampi parchi, estranei alla politica dittatoriale e a tutto ciò che si potrebbe legare alla cultura orientale: anche per questo viene chiamata la piccola Parigi. Il centro storico, infatti, fa parte del quartiere Lipscani, la zona più europea – il nome deriva da Lipsca, cioè Lipsia, città dalla quale arrivavano i commercianti nel medioevo. E’ proprio a Lipscani che vi è la maggior concentrazione di monumenti e di musei; è proprio qui che un turista, come me, può respirare aria “occidentale”, anche se poi le differenze tra noi e loro si possono contare sulle dita di una mano. Essendo appassionato del romanzo di Bram Stoker sul Conte Dracula, è stato incredibile vedere la statua di Vlad Tepes (da cui è tratto il mito) al di fuori della cosiddetta Curtea Veche, ma mi ha stupito anche il cosiddetto Hanul Lui Manuc, l’albergo più antico di Bucarest, dove nel 1918 venne firmata Dichiarazione di Alba Iulia, il documento che sancì la nascita dello stato della Romania.

FOTBAL
Il punto di connessione tra vecchio e nuovo è però, come sempre – anzi, come dappertutto – il calcio. Lì, se si parla di pallone, si parla di fotbal: cambia qualche lettera dai più noti fútbol e football ma alla fine della storia, come ci dice la proprietà commutativa, se cambi gli addendi il risultato non cambia.
Prima di arrivare a Bucarest ho guardato qua e là su internet che altro ci fosse in città oltre alla Steaua Bucarest (e qui, devo fare una digressione: oggi si chiama FCSB. In seguito ad una disputa tra il Ministero della Difesa, che ha contestato il marchio poiché storicamente legato all’esercito rumeno, e la società, un tribunale ha dato ragione al primo, costringendo al cambio di nome la stessa squadra.); ho scoperto – ma non ci voleva certamente Sherlock Holmes – che nella capitale ci sono altre due squadre importanti: una è la Dinamo Bucarest, e l’altra la Juventus Bucarest. Se la prima è un po’ più nota alle cronache perché ha come direttore sportivo proprio il Mutu che citavo prima, la seconda non credo sia conosciuta da nessuno, se non da chi abita nel quartiere Colentina, a nord-est di Bucarest. A dir la verità, mi sono imbattuto nello stadio quasi per sbaglio, dopo essere uscito da un parchetto caratterizzato dalla presenza di un cannone in mezzo al prato. Curioso il fatto che il campo della suddetta società è praticamente in mezzo a dei condomini, e tra tribune e spogliatoi e grande quanto una struttura che possiamo trovare da noi, in Serie D; ancora più curioso il fatto che la squadra sia un tributo alla Juventus, tanto che lo stesso simbolo richiama in pieno lo scudetto bianconero. L’anno scorso, la squadra ha vinto la Liga II (campionato cadetto) ed è salita nella massima serie.
Un calcio, comunque, neanche lontano parente di quello che toccò livelli mai raggiunti prima, sfiorando successi in realtà apparentemente non ambibili.
Bucarest – aggiunge la nostra virtuale guida – durante il comunismo ha goduto dei privilegi centralistici di cui godevano le capitali di tutti i paesi del regime comunista: essendo le sedi delle principali organizzazioni statali, ed essendo tutte le squadre espressione di tali organizzazioni, avevano gioco piuttosto facile nell’attirare i migliori talenti. In Romania la Dinamo sfruttò il proprio legame con la Securitate per spiare gli uffici degli avversari o intimidire giocatori perché si trasferissero presso di loro o giocassero male contro di loro: si narra che spesso la Securitate arrestava il padre del capitano dello Steaua Tudorel Stoica proprio nei giorni precedenti il derby.
Così Bucarest divenne il centro della Romania calcistica, che pure aveva avuto diverse realtà di provincia di altissimo livello. Con il crollo del comunismo si è poi verificato quello che si è visto in Croazia, Serbia, Bulgaria: la privatizzazione delle società, prima di proprietà pubblica, è avvenuta attraverso canali opachi e nelle mani di personaggi poco raccomandabili, che spesso hanno brigato per deviare i fondi nelle proprie tasche.
La stessa Steaua, con la squadra in mano a Gheorghe Becali (uno dei businessmen che abbiamo citato prima) si è vista costretta a cambiare nome e stemma da un tribunale e si è ritrovata con una seconda squadra rifondata dalla precedente proprietà, l’Esercito, in quarta divisione. I campionati si giocano tanto nelle aule di tribunale quanto sul campo, tant’è vero che l’ultima lotta per il titolo è finita di fronte al TAS per un ricorso dello Steaua di Becali contro all’assegnazione dello scudetto al Viitorul di Gheorghe Hagi. E tanto che c’è da fare la conta ogni estate di chi resiste e chi fallisce. Il campionato è diventato uno dei più corrotti e allo stesso tempo la mancanza di fondi e gli investimenti sempre decrescenti hanno minato la crescita di nuovi talenti. Se in altri paesi come la Serbia le grandi squadre mantengono delle scuole calcio invidiabili (si pensi al Partizan e al suo Zemunelo), in Romania c’è un sistema completamente collassato e da rifondare da zero. Ci sta provando l’attuale presidente federale Razvan Burleanu, con un ambizioso piano quinquennale 2015-2020. Resta però un’impresa titanica.
Sono stato fortunato comunque, perché nei giorni che ero lì andava di scena il cosiddetto Eternul Derby tra Steaua – continuo a chiamarla così per affezione – e Dinamo: un’ottima occasione per vedere di che pasta è fatto il calcio in Romania che – secondo il fondatore di quello che può essere considerato come uno dei massimi portali di calcio dell’est – non è in fin dei conti vissuto in maniera così lontana dall’Italia, se non per una maggiore disillusione dovuta all’effettivo decadimento del calcio nazionale, e a una componente ultras meno capillare ma, quando presente, più attiva. E una venerazione assoluta delle icone del passato – gli Hagi, i Duckadam, i Lacatu? – simboli di un mondo ormai estinto. Non scritto su uno schermo, ma sulla pelle, con gli occhi.
Come da tradizione, è stato necessario parcheggiare in una delle vie laterali allo stadio. Se non l’avessi fatto, non avrei mai potuto sentire una delle frasi che più identifica il più classico tifoso da curva in procinto di andare a sedersi: maiculita mea iti multumesc pentru bere, liberamente tradotto in “per fortuna che esiste la birra”. Malgrado questo, tutto procede al meglio: ha un che di poetico il viale illuminato che si apre sull’Arena Nationala, un vero e proprio “colosseo romano” vista la forma, rotonda, e l’architettura che lo identifica. Non mancano, come sempre, i venditori di gadget: immancabile, per i collezionisti, la sciarpa con scritto “Nascut antidinamo”, di cui potete immaginare la traduzione.


Entrati dentro, il colpo d’occhio è notevole: 27 mila spettatori attirano l’attenzione, ma per un derby un appassionato, solitamente, si aspetta di più. Devo ammettere, però, che quelli che vivono il calcio e dedicano diverse ore al proprio amore sportivo, sono bravi nel loro ruolo: i tifosi della Dinamo, che sono usciti sconfitti dalla contesa, possono solo che essere biasimati, per la coreografia iniziale e per aver sostenuto la squadra fino alla fine. Più volte hanno urlato câini! – cioè cani, soprannome della squadra – ai propri soldati, spronandoli a recuperare il gol di svantaggio segnato da Momčilović. Ad aver vinto sono stati però gli ex soldati (ricollegandoci a quanto detto prima), al termine di una gara emozionante più per l’atmosfera guerrigliera che per quanto visto in campo.
Tra un Lupte – lotta – Steaua e un altro, la partita è andata avanti senza troppi sussulti, ad eccezione di un rigore sbagliato da Budescu, che avrebbe potuto portare i padroni di casa sul doppio vantaggio: è stato bravo Penedo, in quest’occasione, a salvare e a mantenere vivi i suoi, anche se poi invano. Non un gioco spettacolare quello del campionato rumeno, ma che potrebbe essere teatro ideale per la messa in mostra di tanti talentini anche delle nostre parti: Coman e Man dei rosso-albastri sono candidati a diventare icono della nazionale galben. A deludere, secondo me e secondo i tifosi intorno a me, è stato senza ombra di dubbio Denis Alibec, vecchia – anzi, per la verità giovane – conoscenza del campionato italiano, con tanti anni di gavetta nelle giovanili dell’Inter e nel Bologna. Non parlo rumeno, ma sia per qualche somiglianza con alcuni termini italiani sia per comune derivazione latina, mi è sembrato di capire che tutti, dal giocatore si aspettano di più: da quelle parti, Alibec è diventato qualcosa di molto vicino al più classico “idolo dei bambini”. I piccoli Dracula, infatti, non facevano che gridare il suo nome.
Tutto, comunque, si è concluso nella maniera più pacifica in assoluto. La particolarità dell’Arena Nationala è quella di essere “posata di una rotonda: non ci sono barriere che dividono il settore ospiti dalle altre parti dello stadio. E, per quanto le due squadre vantino una rivalità di ormai mezzo secolo, i tifosi si sono mischiati tra di loro nell’indifferenza generale. E’ stato epico il modo in cui gli ultras di casa sono usciti dallo stadio: scendendo le scale, cantando cori, sventolando bandiere. La memoria ha scavato a fondo ed è andata a rassimilare quelle gesta con quelle dell’esercito imperiale, che tornava a Roma dopo un’importante vittoria in guerra, sfilando tra le vie della città; così hanno fatto i tifosi rumeni, festeggianti in corteo dopo una battaglia che non li ha visti sconfitti.
Anche perché, tornando alla proprietà commutativa, se da una parte metti i rumeni – o meglio, i Daci – e dall’altra i romani, puoi metterli vicini, mischiarli, confrontarli: la radice sarà sempre quella latina. E di conseguenza, il calcio sarà sempre lingua comune.

Sto per chiudere l’editor di testo, spegnere il pc, per apprestarmi a far ritorno a casa, quando – carico forse ancora dal susseguirsi veloce di emozioni intense – mi viene in mente un’ultima domanda per Damiano Benzoni.
Ma tu, a chi volesse avvicinarci al mondo decantato – spero in maniera quanto più approfondita possibile – all’interno di questo pezzo, magari toccando con mano cose, persone, storie e monumenti, cos’è che consiglieresti?
Da una parte, invito chi volesse visitare Bucarest a non fermarsi alla mera valutazione estetica. Non è una città “bella” come può essere una Budapest o una Praga, ma la sua bellezza sta nel contrasto, che ne racconta in qualche modo la storia, affiancando le chiese e i monumenti del suo periodo migliore ai palazzoni brutalisti e alla vanagloria comunista e ai moderni palazzi commerciali. Ecco, se volete capire la città di Bucarest, andate in Piața Unirii e, prima di imboccare la strada che porta verso Piața Universitații, voltatevi a destra. C’è un palazzone di una Banca Raiffeisen. Se guardate bene, nascosta al suo fianco c’è una piccola chiesa: è la chiesa di Sfântul Ioan Nou, ed è una delle tredici chiese che furono spostate su binari per evitare che gli elefantiaci progetti urbanistici di Ceausescu le distruggessero.
Questa per me è l’anima di Bucarest, la bellezza che resiste alle brutture, che si nasconde per restare viva, ma che – a chi è disposto a vederla – si mostra nel suo splendore.
Per avvicinarsi alla cultura calcistica romena, forse sarebbe il caso di partire dal basso: di “club fenice” ce ne sono parecchi in giro per il Paese; l’esempio più eclatante è quello del Petrolul Ploiești, che ha portato 14.000 tifosi al playoff per la promozione in terza divisione. Partire da qui, per capire la voglia di riscatto che permea tutto un popolo, che continua frequentemente a scendere in piazza a protestare contro la propria classe dirigente, che è stufa di emigrare all’estero e doversi scontrare con una percezione negativa del proprio paese, e che a livello calcistico è capace di mobilitarsi per ricreare club storici dove le autorità e gli investitori – mossi da obiettivi personalistici – non riescono o non vogliono riuscire.
Sento, ora, di poter terminare soddisfatto la battitura del pezzo.
L’Italia mi attende, casa mi aspetta, Bucarest, la Romania, mi rivedranno, sicuramente.
Autore: Pietro Fanti
Intervista a cura di: Daniele Gaetano Pestillo