Mappamondo: Belgrado

Acquistando un biglietto Roma – Belgrado, balza subito alla mente l’idea di un aereo pressoché semivuoto. Sarà l’eredità di un immaginario collettivo ostile alle mete balcaniche, o l’eccessiva disinformazione nostrana riguardo la Serbia. La verità è che, invece, nel periodo recente la capitale serba sta attirando sempre più italiani, e il motivo è molto semplice. Belgrado è una città speciale, indissolubilmente legata alla propria Storia, e senza alcuna intenzione di rinnegare il proprio passato. Ciò è l’ideale per viaggiatori alla ricerca della genuinità locale.

6 Stati, 5 nazioni, 4 lingue, 3 religioni, 2 alfabeti, 1 Tito. Una filastrocca, o meglio la ragione, a detta dei serbi, della dissoluzione yugoslava. E’un’osservazione proveniente dal pensiero di chi, come loro, è vissuto dal 1929 al 2003, nel centro nevralgico della Yugoslavia. Posti a metà strada fra il Patto di Varsavia e il blocco NATO, con il privilegio di poter accettare i soldi americani per non unirsi a Mosca, e viceversa regolare l’avanzata occidentale. Perchè appena atterrati a Belgrado, noterete subito un paio di tratti sconvolgenti.
Il primo, è che da queste parti, l’intriso sentimento nazionale va ben oltre il socialismo, il secondo vi consegna le uniche figure simbolo del luogo, lo scienziato Nikola Tesla, al quale è dedicato l’aeroporto, e tale Josip Broz. Il mondo l’ha imparato a conoscere col suo soprannome, affibiatogli nell’esercito in richiamo a un imperativo slavo per impartire ordine ai soldati, ti to. Il rimpianto politico dei serbi è quello di aver avuto un solo Tito, figura trascinatrice nel trasformare Belgrado in regina balcanica.

Belgrado

Il riferimento monarchico non è casuale. Già ai tempi del Regno di Yugoslavia, Belgrado lottava idealmente con Zagabria per diventare il modello del reame. Risale all’epoca il primo grande rinnovamento urbanistico cittadino, modellata dal basso verso l’alto, quasi fosse una bussola naturale. E’praticamente impossibile perdersi a Belgrado, poiché i punti di riferimento si trovano esattamente a nord e a sud della città. Volendo tracciare un percorso in discesa, punto di partenza sarebbe la Trg Republike, ossia la piazza principale.

La Trg Republike, piazza principale di Belgrado | Numerosette Magazine
La piazza è spesso sede di manifestazioni e iniziative di protesta

Elegante e sontuosa al contempo, è contornata da edifici amministrativi datati, per poi lasciare spazio a varie arterie in cui sono locati un’infinità di ristoranti, specializzati in carne, slivovica, rigido liquore alle prugne, e soprattutto un’innata passione fumatrice. I serbi adorano le sigarette, ed è normalissimo fumare al chiuso, chissà se sia un uso dettato dall’era ottomana o meno. La mano titina si vede prevalentemente nelle strade belgradesi, assolutamente distanti dal grigiore sovietico, bensì trafficate e dominate dalla linea tranviaria. L’obbligatorio passaggio dinanzi all’imponente Parlamento, porta alla vista il fiume Sava, all’estremità meridionale della Città Bianca.

E’il corso dei Balcani, attraversando tutta la Penisola, sulle cui rive oggi sorgono una serie di bar frutto della parziale modernizzazione di Belgrado, alla moda ma unicamente ferrati nel celebre drink est europeo, lo Spritz. Apprezzato ovunque, il cocktail nasce in Slovenia, ed è qui che prolifera divenendo un vero e proprio must, ormai secolare. Belgrado è fra le città più antiche del continente, il background ricco ma controverso la rende variegata. Lo struggente dissidio interiore di Belgrado è perfettamente spiegato da Gianni Galleri, nostro interlocutore e autore di Curva Est, un appassionato affresco dei Balcani calcistici.

I Balcani in generale producono più storia di quella che riescono a consumare (come pare abbia detto una volta Churchill). Quello che è certo è che Belgrado vive una doppia frustrante situazione. Da una parte è avanguardia di uno stato che non riesce a stargli dietro, che gli tarpa le ali, che gli limita lo sguardo. Dall’altro vive un isolamento europeo, dovuto alle difficoltà di movimento, alla censura e al controllo dei media. E’ normale che per rispondere a questo secondo punto guardi talvolta verso Oriente. Ma non l’Oriente in senso ampio, l’Oriente slavo che è rappresentato dalla Russia. L’europeizzazione è auspicabile in una certa misura, purché non appiattisca il grande fermento che si respira in città. Belgrado è terra di incontri, è terra di sintesi. Oriente e Occidente. Cristianesimo e Islam. Sava e Danubio. Jugoslavia e Serbia.

Cernobog

La Beogradska Trvdava è il libro mastro dei principali eventi serbi, una fortezza che ha in seguito assunto occupazioni differenti. Fu la zona strategica degli imperi romano e bizantino, successivamente di quello slavo e austro-ungarico. La testimonianza giace negli antichi cannoni e tra i passaggi segreti che la circondano; proprio uno di questi è stato adibito a museo della Guerra dei Balcani. Ecco, forse il vero momento spartiacque della regione, non a caso accaduto dopo la morte del Comandante.

Una decade efferata, durante cui gli schieramenti divisero comuni, villaggi e famiglie. Una disputa ereditaria, religiosa, socio-politica e altre interminabili motivazioni recondite. La Serbia è scesa in conflitto inutilmente, figlia dell’estremo nazionalismo del terzo protagonista di questo romanzo ambientato tra boschi rigogliosi e macchiati di sangue, costruzioni sontuose e mutilate. Zejko Raznatovic, detto Arkan, un paramilitare che con le sue Tigri si autoproclamò condottiero serbo, rispolverando l’ala nascosta dell’antropologia slava meridionale.

Come anticipato, il comunismo non ingloba il patriottismo locale, conservato nella reminescenza aristocratica del posto. I Cetnici, difensori dei regnanti, movimento riportato alla luce da Raznatovic che ha gettato nella confusione la società serba del Terzo Millennio, in cui i musulmani erano sparati e gli ortodossi avevano paura di professare il credo nei magnifici templi cupolari. La visita al sito dedicato alla Guerra dei Balcani è riservata a stomaci forti, nello sguardo dei custodi s’intravede un senso di vergogna, mentre il visitatore ispeziona armi come la zampa dell’orso, una sorta di tirapugni artigliato. Ordigni chimici e cruenti utensili bellici ti sbalzano in uno stato confusionario, inevitabile domandarsi per volontà di chi sia stata eretta l’esposizione. Il parco circostante di Kalemegdan è una boccata d’aria fresca psicologicamente fondamentale dopo le previe brutture, da lì è possibile immaginare un itinerario periferico.

Periferia affascinante

Belgrado conta 1 milione e mezzo di abitanti, ma l’uscita dal centro può avere giustificazioni quali il mausoleo di Tito. Spartano come ogni epitaffio rosso, eppure con un tocco emblematico alla considerazione dell’individuo. Una sfilza interminabile di dediche e condoglianze, da parte dei maggiori capi di stato, incluso Nixon. La spiegazione finale alla reputazione di Josip Broz Tito in patria.

La tomba di Tito nella periferia di Belgrado | Numerosette magazine
La tomba di Tito presso la Casa dei Fiori.

Allontanandomi dalla Casa dei Fiori, noto la totale desolazione limitrofa, fin quando un anziano vicino a un’altrettanto datata Volkswagen, mi invita ad acquistare, in un inglese distinto, un libro: in Serbia è una notizia. Il suo nome è scritto sulla copertina del volume, si chiama Slavko Mrkic, e ciò che vende è una raccolta dei ricordi di una vita passata al fianco di Tito. L’anziano era un tenente militare, caduto in disgrazia dopo la caduta della Yugo e il conseguente annullamento di molte pensioni veterane. L’offerta è libera, ma la curiosità e la sua proprietà di linguaggio mi spingono oltre i 3 dinari, corrispondenti a 4 euro.

Slavko a Belgrado con i suoi unici scritti su Tito | Numerosette magazine
Slavko con i suoi unici scritti.

Gli chiedo cosa possa esserci di attraente nelle immediate vicinanze, con un sorriso bonario mi indica con l’indice una fatiscente struttura, e poi un’altra simile, differenziate soltanto dalla colorazione: il Rosso e il Nero, Delije e Grobari, Stella Rossa e Partizan Belgrado. Il JNA del Partizan, mi spiegò ahimè essere inaccessibile fuori dagli eventi sportivi, l’insistenza mi consentì di comprendere il fatto.

Ultimamente, la notizia delle faide interne al Partizan si è diffusa su larga scala, ma addentrandomi nella vicenda capisco la vera natura del večiti. Soprattutto nei gruppi bianconeri, a fare da movente è il business, nello specifico il traffico di armi e stupefacenti. Ragion per cui, sono costume le ronde da parte delle due compagini principali, i Grobari e gli Alcatraz, relegate a settori opposti anche durante le partite poichè inclini a corrisposte aggressioni. I regolamenti dei conti, mi spiegano, avvengono spesso proprio quando l’aria pare tranquilla, dunque cercare l’ingresso sarebbe stato un azzardo, data pure la situazione difficile del club, ormai da tempo alle spalle dei rivali e soltanto presenza sporadica nelle competizioni europee.

Mentre avrei potuto tentare al Rajko Mitić. La distanza tra gli impianti è di neanche un chilometro, quella dei club è enorme. La falange militarizzata contrapposta all’enclave popolare cittadina, entrambe accomunate dall’odio reciproco. Il Marakana mi si palesa corroso dal tempo e dalle scorribande, quest’ultime espresse attraverso graffiti non troppo pacifisti. Circondato perimetralmente da celerini simili a wrestlers, malgrado l’assenza di gare, è proprio grazie a loro che riesco nell’intento. Mi è consentita la sosta presso la tribuna, anticipata da un’apprezzabile esposizione di trofei e icone, su tutti Savićević e Mihaljović. Osservando attentamente, la lista di fenomeni passati per la Crvena Zvezda è infinita: Vidić, Stanković, Prosinecki e soprattutto il più amato, Dragan “Pixie” Stojković. Il calciatore che incarnava l’amore slavo per il bel gioco, unica spiegazione plausibile alla mancata conquista di trofei da parte della selezione yugoslava. Giocoliere esponente del detto serbo: “Morire nella bellezza”, ossia preferire la vena artistica al freddo risultato. E’ curioso riflettere sulle potenzialità sprecate della Stella Rossa, la cui sola Champions League datata 1991 è davvero riduttiva, in virtù inoltre delle conseguenze di quel trionfo, ossia l’assoluta debacle. Nascondere il fascino è autolesionismo, e immaginare le magie dei fantasisti slavi è seducente, farlo ipotizzando la curva in fiamma rende il tutto epico. Il settore degli ultras stellati ha voce propria e racconta di rivalità infuocate, tramite i sediolini in sostanza dimezzati.

La curva della Stella Rossa | Numerosette magazine
La scritta “Delije”, sopravvissuta alle intemperie calcistiche.

La razzia dello spalto è oramai sistematica, eppure anni addietro vi era un altro rude duello. Era la contesa della Yugoslavia, Stella Rossa-Dinamo Zagabria, Serbia contro Croazia, cioè uno scontro fra prime donne. Gli almanacchi faticano a ricordare di una partita terminata regolarmente, considerati poi gli aggiunti dissidi in periodo bellico, la collisione è inevitabile. Parecchi decretano proprio a uno Stella-Dinamo il preludio della guerra d’indipendenza croata e alla caduta yugoslava. Il 13 maggio del ’90 le due squadre eranno appaiate ai vertici del campionato, quando le elezioni in Croazia videro la vittoria di Franjo Tuđman e dell’HDZ, sfida apertamente lanciata a Milosević per chi dovesse guidare la nuova Federazione. La cornice dello stadio Maksimir di Zagabria si trasformò nell’inferno sulla terra, i 3500 Delije presenti avviarono una guerriglia calcistica con sfondo politico, appogiati dalla polizia di origine serba.

Questi caricarono i Blue Boys croati, causando l’invasione di campo famosa per il colpo di Zvonimir Boban a un agente. A mente fredda, e col passare del tempo, ambo i popoli hanno ricordato di quel giorno in cui una stessa gara venne sospesa, ma per volontà reciproca; nel momento della scomparsa di Tito.

i calciatori di Stella Rossa e Dinamo Zagabria ricevono la notizia della morte di Tito | Numerosette magazine
Sempre nel libro di Slavko Mrkic, ho pescato una foto del 1980, nell’istante in cui i calciatori di Stella Rossa e Dinamo Zagabria ricevono la notizia.

Quest’anno, la Stella Rossa ha riabbracciato la Coppa dei Campioni, dopo aver conquistato la scorsa Prva Liga e aver superato il Partizan nel conteggio dei titoli nazionali, 28 a 27. Di recente, sul web si sono diffuse ingenti quantità di notizie e filmati riguardanti il Derby Eterno.

Mosso dal dubbio, chiedo a Gianni Galleri se sia per colpa di un violento innalzamento tra ultras o meno.

Secondo me non c’è stato nessun incremento della violenza. C’è stata solo una maggiore copertura mediatica di questi avvenimenti. Diciamo che adesso vanno un po’ di moda i “derby infuocati”, ma credo che le tensioni ci siano sempre state e continueranno ad esserci. Fra l’altro non credo che lo stato abbia intenzione di limitare queste manifestazioni, anche perché sa benissimo che sono un’ottima valvola di sfogo per tensioni che probabilmente si ritroverebbe poi a fronteggiare per la strada. L’unico modo per anestetizzare il calcio è borghesizzarlo, non reprimerlo quando è popolare.

Avverto la completezza di aver visitato un tempio, e decido che il Marakana diverrà il giusto finale per un viaggio nella controversa realtà serba, in cui i giovani vanno a teatro e riempiono le centinaia di librerie, con l’ultimo quesito di comprendere il canale turistico su cui viaggia la città.

Perché il turismo diventi di massa c’è bisogno innanzitutto di una compagnia lowcost che atterri in città. Tuttavia, Bucarest ha resistito, Sofia ha resistito. Non credo che Belgrado faccia eccezione. In più la città serba è una vera e propria capitale nel senso ampio del termine. E’ una città che va al di là dello stato, come Londra, come Parigi, Madrid e in parte anche Roma (o forse Milano), quindi credo che abbia gli anticorpi per difendersi dal turismo di massa. Anche se qualcosa andrà inevitabilmente perso.

A mio avviso comunque, Belgrado, definita la “Città Bianca”, sarà sempre contesa dai colori delle proprie fazioni.

 

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