Mappamondo: Astana

Settembre 2018. Ho mal di testa, ho viaggiato per tutta la notte senza chiudere occhio. Lo scossone dell’atterraggio è violento come un colpo di fulmine diretto al cervello. Siamo arrivati all’aeroporto Nursultan Nazarbayev di Astana, Kazakistan. 

L’oblò mi offre la scheggia di un mondo surreale: oltre l’ala bianca dell’aereo, ci sono chilometri e chilometri di steppa. Una distesa infinita. L’aeroporto ci affoga dentro, sembra una stazione spaziale in un pianeta ostile. Strizzo gli occhi cercando qualche altra presenza umana, ma pare che da qui sino al polo Nord non ci sia anima viva.  

Un viaggio inusuale

Viaggiamo su un Aeroflot, con motori russi, scritte russe, personale russo. Non si prendono neppure la briga di tradurre in inglese la solita liturgia del volo, perché tanto, da Mosca ad Astana, è praticamente un viaggio interno, nel vecchio universo dell’Unione Sovietica. 

Sul mio volo c’è gente di tutti i tipi. Russi alti e bianchi, con gli occhi arrossati dalla fatica del viaggio; asiatici con la pelle bruna, piccoli e schivi; turchi dell’Asia Centrale che parlano almeno cinque lingue. Forse sono l’unico occidentale a bordo. 

Mi stropiccio gli occhi. Mi sento uno straccio, sette ore e mezza di volo sono una mazzata atroce, soprattutto di notte. Penso istintivamente al Porto, formazione lusitana che dovrà sorbirsi una vera e propria odissea per venire a giocare quaggiù una partita di Europa League. 

La partita comincia molto prima dei novanta minuti. 

Ed è proprio così. Se i lusitani non sapranno gestire gli scali e il jet lag, sembreranno una squadra di fantasmi. 

Aeroporto internazionale di Astana | Numerosette Magazine
Questo è il primo sguardo che la città offre ai suoi visitatori. Un aeroporto dal sapore avveniristico immerso in una distesa verde senza tempo. Se si viaggia di giorno, ci si può rendere conto di cosa significhi vivere in mezzo al nulla.

Prime impressioni

Pochi, in Italia, conoscono il Kazakistan. Sappiamo che Borat (il personaggio migliore di Sasha Baron Cohen) viene da lì, e sappiamo anche che il paese si colloca da qualche parte nell’Asia, vicino alla Russia, perché fino al 1991 fu una delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. 

Quello che nessuno sa è che il Kazakistan non era mai stato nazione prima di entrare nell’orbita sovietica, e nel 1991, quando i kazaki si ritrovarono l’indipendenza tra le mani, furono costretti a trasformarsi in uno stato partendo letteralmente da zero.

L’aeroporto di Astana è nuovo, incredibilmente moderno. Non ci sono scritte in inglese, e io, da buon occidentale, mi sento a disagio. Qui la lingua internazionale è il russo, i caratteri in cirillico mi volano attorno stampati su pubblicità quasi minacciose. Mi sento sopraffatto da quell’alterità, sembra davvero di essere in un altro pianeta. Poi, all’improvviso, la buona sorte mi viene incontro. 

Il complesso architettonico dedicato ad Astana Expo 2017 | Numerosette Magazine
Lungo la strada che porta alla città, ci si imbatte in una costruzione faraonica e scintillante. E’ il complesso di Astana 2017, il gigantesco Expo voluto dal governo kazako per celebrare davanti al mondo la nuova modernità del Paese. E, se da noi i padiglioni di Milano sono divenuti l’ennesima opera inutile, qui si son dati da fare; il vecchio Expo è diventato un centro di ricerca universitario all’avanguardia.

Il Professore

Sul mio volo c’era un altro italiano. Il Professore è un ometto sui settanta, molto gentile e abituato a viaggiare. Si avvicina piano, quasi avesse paura di spaventarmi. Si vede lontano un miglio che appartiene ai tempi andati, a quella borghesia europea abituata a viaggiare e a sentirsi ovunque a casa propria.

In un primo momento parliamo in inglese; poi il Professore si lascia scappare un Va bene che rivela il suo vero idioma. Siamo italiani! Scoppiamo a ridere. Lui è di Milano, io di Venezia. Anche a seimila chilometri da casa si trova qualcuno che ci fa sentire meno soli.

Il Professore si offre di accompagnarmi in città. Da quelle parti i controlli sono molto rigidi ed è sempre meglio avere qualcuno che conosca il russo al proprio fianco. Una volta fuori, ci imbattiamo in un clima freddo, che sa di montagna. In Italia è ancora estate, ci sono 27 gradi. Qui tira un vento che ti prende a schiaffi, e di gradi ce ne sono 2.

Il Professore chiama un taxi, e mentre aspettiamo un passaggio per Astana mi rivela che bazzica in Kazakistan da diciotto anni. Parola dopo parola, il professore, con i suoi modi di fare così démodé, mi svela un mondo inimmaginabile, fatto di steppe e sogni impossibili. 

Mi racconta che fa il prete, che ha conosciuto tre papi e che per molto tempo è stato l’unico cattolico in mezzo alla steppa del Kazakistan. Conosce sei lingue, tra cui ovviamente quella locale, e per qualche motivo è una specie di autorità, ad Astana. Alla fine, come capita spesso con gli sconosciuti, gli argomenti si esauriscono. Ecco allora che decido di sfoderare l’unico argomento capace di ravvivare il nostro fuoco. 

La lingua di tutti

Mi sento un po’ in imbarazzo a chiedere a un prete di settant’anni quale squadra tifi. Non voglio che mi consideri il solito italiano che ha solo il calcio per la testa.

Lui, invece, si illumina: mi racconta che suo padre ha giocato nell’Inter di Helenio Herrera, e che lui andava a vedere tutte le partite a San Siro. Io allora esulto, perché pure io sono interista e probabilmente siamo gli unici due nerazzurri nel raggio di dodici milioni di chilometri quadrati. Improvvisamente il tempo scivola via: parliamo di Spalletti, della nuova Inter in Champions League, della nazionale, e di molto altro ancora.

Quella fu la prima cosa che imparai nel soggiorno ad Astana. Il calcio è davvero una lingua universale, capace di andare oltre qualsiasi barriera. E di barriere, in Kazakistan, ne avrei trovate diverse. Soprattutto linguistiche, perché da quelle parti, se non conosci il russo o la lingua locale, fanno fatica ad accettarti. Poi, per fortuna, basta buttare un pallone in mezzo alla strada e si va tutti d’accordo.

La Millennium Line di Astana | Numerosette Magazine
La straordinaria vista sulla Millennium Line, un viale di tre chilometri che collega i sette principali monumenti della città. Qui si vede molto bene l’impianto mentale della città, costruita a tavolino secondo precisi schemi.

Una città dal nulla

Astana significa letteralmente Capitale, mi dice il Professore. Ha studiato filologia slava, mi racconta tante di quelle curiosità che ci si potrebbe riempire un libro. “Soltanto un’altra città nel mondo ha questo stesso nome: Seul, che in coreano vuol dire, appunto, Capitale

Astana è una città sotto vuoto, un’isola grigia in mezzo al mare verde della steppa. Si respira un’aria di montagna. Ci siamo noi due, perfetti sconosciuti, a divorare la strada; il cielo terso, gli steli d’erba che resistono ai terribili venti siberiani. Il Professore ha cominciato a raccontarmi la storia della città, e io pendo dalle sue labbra. 

Qui, nel 1998, non c’era nulla. Letteralmente. Questa città è nuova di zecca, mi dice.

Io non so se credergli o meno, perché il Professore ha sempre un amabile sorriso in volto e non capisci quando è serio e quando scherza. Veniamo investiti dalle strade a sei corsie, dal traffico metropolitano, dai grattacieli e dai monumenti. No, non è possibile. Non gli credo. Eppure lui insiste; evidentemente, è abituato a combattere lo scetticismo di chi vede Astana per la prima volta.

Si dice che il Presidente del Kazakistan abbia avuto una visione, e abbia ricevuto in dono il luogo esatto dove collocare la capitale del nuovo stato. Così nel 1998 hanno edificato il monumento nazionale; poi, la città è cresciuta tutta intorno.

Astana è una città molto lineare, si vede che è stata progettata a tavolino. Ma c’è qualcosa di inafferrabile, in quei luoghi, che mi impedisce di orientarmi. Ho la sensazione di non essere in una vera città. Sarà che i palazzi sono tutti nuovi, e sembrano usciti dalla fabbrica dei Lego; sarà che qui, dopo l’Expo del 2017, hanno tirato a lucido ogni angolo della capitale. Questa città è diversa da tutte le altre che ho visitato nella mia vita. Ma ancora non so spiegarmi il perché.

La casa del presidente ad Astana | Numerosette Magazine
La casa del presidente del Kazakistan è letteralmente una casa bianca in salsa orientaleggiante. E’ stata incastrata in mezzo a due torri d’oro che conferiscono ancora più potere all’autorità emanata dall’architettura.

Il calcio della steppa

Ascoltare il Professore è come leggere un fantastico libro sulla storia di quelle terre. Mi dice che Astana l’ha vista crescere. 

Prima della capitale, qui c’era un piccolo insediamento sovietico, che si chiamava Celinograd. In russo, era un nome ben augurante, che doveva portare fortuna ai nuovi coltivatori della Repubblica.

In effetti, secondo la Fao il Kazakistan potrebbe sfamare un miliardo di persone, qualora venisse sfruttato a dovere nell’industria agroalimentare.

I russi hanno provato più volte a trasformare queste terre nel loro granaio, ma non avevano gli strumenti per combattere il clima della steppa. Per rendere vivibile la sola area di Astana, i kazaki hanno piantato 250mila alberi e scavato quattro laghi: così hanno mitigato la temperatura e limitato la forza del vento.

Quindi, questa Astana è vivibile, mi dice il Professore. Ma gli inverni arrivano a -45° C e il periodo caldo dura sì e no due mesi. Siamo partiti dall’Italia che c’era una gradevole temperatura autunnale, e qui si tocca già lo zero e di notte si scende pure oltre quella soglia. Non voglio immaginarmi Astana prima delle piante. Non voglio immaginarmi cosa significhi giocare a calcio nella steppa.

Astana Arena, in Kazakistan | Numerosette Magazine
La Astana Arena è un avveniristico impianto da 30mila posti finanziato interamente dalle compagnie statali. Ha il terreno riscaldato e il tetto dotato di copertura semovibile, che ne mantengono la temperatura al di sopra dei -10 gradi.

Quella notte ad Astana

Io e il Professore andiamo a vedere l’Astana Arena, vera e propria cattedrale del calcio in mezzo alla steppa dell’Asia Centrale. L’impianto è nuovissimo e ci sono dentro le migliori tecnologie europee; il tetto si può coprire completamente e il terreno è riscaldato con un complicato sistema ad energia solare. Sembra di stare in un campo di Championship inglese, perché qui si sono portati persino i giardinieri britannici, per curare il manto erboso.

Il professore mi dice che i kazaki giocano il campionato d’estate, e che sono obbligati a giocare in inverno solo le partite europee. A quel punto, mi chiede se conosco la squadra locale.

Altroché, se la conosco. L’Astana Football Club è una simpatica comparsa di Champions ed Europa League, e di recente ci siamo abituati alle sue maglie gialle e azzurre, che richiamano molto quelle della famosissima squadra di ciclismo con cui hanno corso anche campioni nostrani, in primis Vincenzo Nibali.

Tifosi dell'Astana F.C. | Numerosette Magazine
Se non fosse per il pallone al centro dello stemma, si potrebbe confondere questi supporters con i tifosi ai bordi delle strade durante il Giro d’Italia.

Ma tu lo sai cosa han combinato qui, l’anno scorso?

La domanda del Professore, ovviamente, mi spiazza. Il suo accento da colto milanese è così esotico, nel cuore freddo dell’Asia. Io cerco tra i ricordi ma, ovviamente, ho poco da condividere. Penso a un vago spareggio vinto col Celtic per 4-3, per esempio. Il Professore mi rinfresca la memoria. 

L’anno scorso l’Astana arrivò alla penultima giornata con la possibilità di centrare una qualificazione storica. Si giocò a metà novembre, ad Astana c’erano -28 gradi, e la temperatura artificiale dentro lo stadio era di -5. Il primo tempo finì 1-0 per l’Apoel, poi la copertura dello stadio si ritirò per guasto tecnico e il gelo siberiano calò sul terreno di gioco. A quel punto i kazaki rimontarono, superando la difesa avversaria letteralmente paralizzata.

Me li posso immaginare, i poveri calciatori ciprioti, sconvolti dal freddo della Siberia. Quando il professore mi racconta questa storia, ad Astana ci sono -6 gradi e un vento che ti brucia la faccia. E’ un miracolo che abbiano preso soltanto due gol, penso.

Sete di identità

Io e il Professore continuiamo il nostro giro ad Astana, e per me è come sfogliare un manuale. Mi parla di come, nel 1998, la capitale fosse un gigantesco cantiere dall’aria irrespirabile, dove la polvere degli edifici in costruzione stazionava per giorni in mezzo alla steppa; e poi mi spiega come i kazaki abbiano saputo costruire un’identità nazionale partendo letteralmente da zero.

Il Kazakistan è un paese molto frammentato. I kazaki hanno mille etnie diverse e sono un popolo storicamente nomade; furono i russi dello zar a trasformarli in un popolo sedentario. Poi i sovietici li colonizzarono, importando qui grandi quantità di famiglie russofone. Per questo il russo è ancora la lingua veicolare più utilizzata.

Il Kazakistan è un territorio immenso, è il nono stato più esteso al mondo e rischia di strapparsi in ogni momento. Ci sono tensioni particolaristiche evidenti, è come mettere a sedere attorno allo stesso tavolo una dozzina di tribù in lotta tra di loro. Per questo i kazaki hanno dovuto inventarsi dei simboli nazionali attorno ai quali stringersi e diventare un popolo coeso. E, ovviamente, lo sport ha fatto la sua parte.

Ho avuto il piacere di chiacchierare con Damiano Benzoni, esperto di calcio e cultura dell’est Europa, penna del magazine East Journal fra gli altri, ed autore di un documentario sul Petrolul, dal titolo Petrolul No Moare. Una squadra rumena di grande tradizione nel passato, rinata dal fango dei debiti grazie alla passione dei suoi tifosi che ne sono diventati soci. Del Kazakistan Damiano mi racconta di come il nazionalismo post disgregamento sovietico sia stato in parte attenuato dallo sport:

Il nazionalismo è stato interpretato in una sorta di maniera inclusiva, per non alienare le componenti interne, ma allo stesso tempo con una rigidità verso correnti, come l’Islam più purista e radicale, che sono state considerate aliene. In questo lo sport è forse stato storicamente un veicolo per mettere in mostra anche le individualità minoritarie, come i koryo-saram (i coreani immigrati tra il XIX e il XX secolo in diverse aree dell’URSS), già ai tempi sovietici: un esempio è la coppia formata da Andrey Chen Ir-Son e Vladimir Kim, in forza al Kayrat Alma-Ata negli anni ’50. Di Chen Ir-Son, che poi allenò in Kazakistan negli anni ’60, si dice fosse rispettato da Leonid Brezhnev in persona quando il futuro GenSek era tra i dirigenti politici della SSR kazaka. Negli anni ’80 un altro koryo-saram di grande successo fu il centravanti Eduard Son.

Arco di trionfo di Astana | Numerosette Magazine
I Kazaki hanno persino il loro arco di trionfo, dedicato ai caduti della seconda guerra mondiale, che in tutto il territorio ex sovietico si chiama ufficialmente “grande guerra di liberazione patriottica”. Di recente, però, attorno a questo monumento sono sorte molte polemiche. Secondo la cronaca revisionista, la seconda Guerra Mondiale mostrò la crudeltà dei russi, che mandarono a morire sul fronte milioni di soldati di varie minoranze (tra cui, ovviamente, i kazaki) per rallentare in qualsiasi modo l’avanzata tedesca. Da queste parti dicono che il kazako andava a combattere senza armi, e poi arrivava il russo col fucile.

Il senso dello sport

In Kazakistan, il governo ha capito subito una cosa fondamentale: lo sport serve per creare coesione nazionale, per dare al popolo una narrazione collettiva che appiani le divergenze e metta in risalto i migliori caratteri di una civiltà appena nata.

Da quelle parti, lo sport principale non è (ancora) il calcio. I kazaki sono famosi in tutto il mondo per il combattimento, sia come disciplina olimpica che come arte marziale tout court. E lì non scherzano neppure con l’hockey, importato ai tempi dell’Unione Sovietica.

Come sempre, lo sport non è semplice agonismo; c’è qualcosa di grosso, sotto. L’ho chiesto a diversi abitanti di Astana, e mi hanno risposto tutti la stessa cosa: gli sport con contatto fisico violento sono i preferiti perché, durante il match, si può picchiare i russi senza finire fucilati. E me lo dicono senza ridere, lasciandomi capire che non si tratta di una battuta.

Il Kazakistan, soprattutto attraverso le discipline sportive, sta tentando di occidentalizzarsi il più possibile per essere considerato a tutti gli effetti una Nazione europea. Damiano mi racconta di un dettaglio fondamentale in questa trasformazione:

Il passaggio dalla confederazione asiatica a quella europea è ormai datata e non è sovrapponibile, se non per il risultato, all’introduzione dell’alfabeto latino. Il voto che ha sancito l’ingresso del Kazakistan nella UEFA è infatti del 2002 e già in precedenza, in occasione del crollo dell’URSS, era stata presa in considerazione anche l’affiliazione alla confederazione europea invece che all’AFC. A tal proposito c’è un episodio particolare legato alla coppa domestica del 1996, quando entrambe le finaliste (Elimay Semipalatinsk e il Munaishy Aktau di Kurban Berdyev) dichiararono che nessuna delle due avrebbe accettato il trofeo se non si fosse prima dimesso il presidente della federcalcio, accusato di aver sabotato le possibilità di affiliazione all’UEFA e deviato il Kazakistan verso l’AFC). La federazione in tutta risposta fece disputare un’altra finale alle semifinaliste perdenti e sciolse il Munaisy. L’architetto del passaggio alla UEFA sarebbe stato il suo successore, Rakhat Aliev, politigo e cognato del presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbaev. Aliev poi sarebbe caduto in disgrazia, coinvolto in diversi scandali e costretto a fuggire e chiedere asilo politico in Austria. Quindi diciamo che il trasferimento difficilmente si può considerare una parte di una politica cosciente, e più come una scelta fatta dal dirigente di turno in funzione di interessi personali. Poi, sicuramente l’esposizione alle competizioni europee può avere un impatto culturale in qualche modo. Per il momento, però, non si va oltre allo scandalo sollevato in sede UEFA dal rituale di sgozzare una capra per ottenere i favori del fato, come avvenne prima di una gara dello Shakhter Karagandy contro il Celtic.

La scuola di pugilato di Astana trionfa costantemente nelle competizioni internazionali. | Numerosette Magazine
Nella categoria “Welter”, ad esempio, i kazaki vincono ininterrottamente la medaglia d’oro da Atene 2004. A Rio, Danjiar Eleusinov è salito sul gradino più alto del podio.

Calcio acerbo

La sera ci sorprende quasi all’improvviso, e il Professore sceglie di congedarsi. Io ritorno amaramente alla mia solitudine e mi fiondo in un bar del centro, dove un occidentale qualunque, con dieci euro in tasca, può mangiare come un nobile ai tempi di Nicola II. Ironia della sorte: sul maxischermo davanti a me stanno trasmettendo la Nations League.

Il Kazakistan è nella fascia D, la più debole, e affronta Andorra, una delle poche nazioni che non ha mai vinto una gara internazionale nella sua storia. Il pub è affollatissimo, e mentre il cameriere mi consiglia la squisita carne di cavallo kazaka il pubblico si infiamma. Anche se non capisco il kazako e nemmeno il russo, posso intuire che i discorsi da bar sono sempre gli stessi a qualsiasi latitudine.

Mentre l’Italia perdeva con il Portogallo, la selezione kazaka faceva pure di peggio: un terrificante 1-1 con la federazione più piccola d’Europa, che giustamente festeggia il pareggio come fosse la vittoria di un mondiale. I kazaki dentro al pub se la prendono male, vorrebbero insorgere contro i giocatori. Io li guardo un po’ divertito e un po’ costernato. Proprio in quel momento, uno di loro mi si avvicina.

La nazionale kazaka di calcio, di scena ad Astana | Numerosette Magazine
Basta prendere una foto qualsiasi della nazionale kazaka di calcio per capire come questo paese sia formato da mille etnie. Alla maggioranza della popolazione, di ceppo mongolide, si sono aggiunte una cospicua minoranza russa e tutto un insieme di popoli eterogenei, deportati dall’Urss o arrivati dopo la guerra. Si tratta di tedeschi del Volga, ucraini, caucasici, mediorientali e coreani. Un vero melting pot.

Cosa vuol dire essere kazaki

Il ragazzo è giovanissimo. Si chiama Almas, ha 14 anni, un lieve accenno di baffi e un inglese dignitoso. Studia lingue europee alle superiori ed è elettrizzato dalla mia presenza; da quelle parti non passano molti occidentali, e figurarsi a trovarne uno nel bar sotto casa: per lui è un’occasione irripetibile. Cominciamo a parlare di calcio, e ovviamente gli chiedo per che squadra tifi.

Comprendo a fatica il suo inglese russificato. Almas mi dice che non tifa Astana F.C., ma la vera squadra del Kazakistan: Il Kairat Almaty, il club della vecchia capitale. Almas mi spiega che il Kairat è un club molto antico: venne fondato dai sovietici nel 1954, e allora si chiama, ovviamente, Lokomotiv.

Andrej Arshavin con la maglia dei rivali di Astana, il Kairat Almaty | Numerosette Magazine
No, non avete le traveggole. Quello lì è proprio Andrej Arshavin, ex talento dell’Arsenal mai esploso davvero in Premier League, ma senza dubbio uno dei calciatori più talentuosi del mondo russo.

Gli chiedo di raccontarmi un po’ di storia del calcio kazako. Traduco a braccio.

Qui il Kairat ha vinto moltissimo, e quando c’era l’URSS ha giocato anche un paio di stagioni nella Top Division, il massimo campionato sovietico. Negli ultimi anni ci sono stati degli scandali di corruzione e la squadra è stata retrocessa in serie B, ma ora è tornata e molto presto vincerà di nuovo.

A quel punto, gli chiedo cosa pensi dell’Astana F.C.

L’Astana è una squadra pompata coi soldi, dice senza pensarci un secondo. Proprio come il City e il PSG. Il Ministro dello Sport e della Cultura gli ha costruito uno stadio nuovo di zecca e ha portato i giocatori stranieri. E vincono perché il Kairat è stato retrocesso, ricordiamolo.

Secondo Damiano, ci sono anche motivi politici dietro ai successi recenti del club, dettati da alcune decisioni prese nel passato che hanno spostato i capitali nel calcio da una città all’altra.

Il trasferimento della capitale da Almaty ad Astana ha avuto ragioni pratiche, ma anche in qualche modo ideologiche: da una parte Almaty era nel sud del paese e in una zona fortemente sismica, dall’altra il presidente Nursultan Nazarbaev ricalcava dichiaratamente le orme del trasferimento della capitale turca ad Ankara da parte di Atatürk. Calcisticamente Almaty ha pagato la fine dell’URSS, facendo molta fatica a trionfare dopo il trasferimento: un solo titolo nazionale nel 2004 e ora una serie di secondi posti alle spalle dell’Astana. La nuova capitale ha iniziato a vincere nel 2000 con l’Astana-1964, ora scomparso dai riflettori, e ha dovuto cercare diverse identità prima di stabilire il proprio predominio. L’attuale club ha solo 11 anni di storia ed è stato curiosamente formato come Lokomotiv Astana dalla fusione di due club di… Almaty. Dal 2014 l’Astana (la denominazione Lokomotiv è nel frattempo caduta) sta dominando il campionato, avendo vinto cinque scudetti consecutivi.

Il calcio diventa pretesto per parlare di qualsiasi cosa. Lui mi chiede dell’Inter, mi domanda per quale motivo le due squadre di Milano abbiano lo stesso stadio (questa cosa, tipicamente italiana, all’estero non riescono proprio a comprenderla) e io lo sommergo di domande sul suo mondo.

Il Kazakistan mi affascina sempre di più: una steppa immensa, che va dalla Cina ai territori turcofoni, dal Mar Caspio alla Siberia, dalle zone russificate ai vecchi centri dei tedeschi deportati dal Volga, e via discorrendo. Lui, povero, fatica a tenermi testa col suo inglese, eppure mi dice alcune cose incredibili: che ad Almaty, l’altra grande città del Kazakistan, è stata inventata la coltivazione della mela, e che una volta è rimasto chiuso a scuola perché la temperatura scese sotto i cinquanta gradi e si rischiava l’ipotermia a mettere il naso in strada. Gli dico che il -6 di quella sera, in molte parti d’Italia, è l’inverno più nero. Si mette a ridere.

Un paese a metà

Per due giorni ho il privilegio di girare la città con un locale. Almas infatti non mi molla, e anzi continua a scattarsi selfie in mia compagnia per passarli agli amici di scuola. Per queste persone, un europeo che gira nei quartieri ricchi deve essere sicuramente una persona importante; quindi, una foto non fa mai male.

Almas rappresenta il futuro del Kazakistan. E’ nato nel 2004, praticamente assieme alla sua città, Astana. Ha internet, usa i social, parla l’inglese e sta ripudiando il russo: per questo ha spesso dei litigi in famiglia, dove la lingua di Tolstoj è la lingua di tutti, anche più del kazako. 

Il kazako moderno non era una lingua scritta mi dice in qualche modo. Quindi l’hanno dovuta inventare coi libri. Per gli anziani è difficile impararlo, e per questo preferiscono il russo. Poi l’inglese gli è del tutto incomprensibile.

Astana nuova e Astana vecchia | Numerosette Magazine
La vecchia Celinograd è molto diversa dalla modernissima Astana. Separate da un fiume artificiale, queste due sponde della stessa città sono l’emblema di una società costretta a fare sempre i conti col passato. Dai grattacieli del centro si possono vedere solo due cose: la steppa infinita e le case costruite durante il tempo degli zar e quello dei comunisti.

Alla fine non resisto alla tentazione, e compro una maglia ufficiale dell’Astana. Costa 7000 tenge, più o meno 14 euro. La loro valuta ha subito il calo di prezzo del petrolio, e noi che abbiamo una moneta forte ringraziamo. La città continua a sorprendermi, e mi dà l’impressione di essere un gigantesco set cinematografico.

Nell’ordine, i miei occhi vedono: una Casa Bianca, una piramide, l’Opera House di Mosca in scala 3:1, un tempio a forma di tendone da circo, un palazzo a forma di nido di rondine, un fiume artificiale, una replica del monumento ai Beatles di Liverpool (sic!), statue di condottieri perduti nella steppa, e molto altro ancora. Astana dà l’impressione di avere un grande desiderio di crescere, di diventare una metropoli moderna, e si mangia il futuro a suon di denaro e investimenti.

Tempus fugit

Almas mi fa vedere di tutto, è giovane ed è molto orgoglioso di ciò che ha fatto il suo paese. Mi racconta che suo nonno viveva nella steppa, dentro alla jurta, il loro capanno tradizionale fatto di pelle di montone. In meno di sessant’anni gli è piombata addosso la modernità.

Penso che, alla fine, la metafora migliore per spiegare il dirompente ingresso nella modernità di un paese come il Kazakistan possa arrivare, ancora una volta, dal calcio.

L’Astana F.C. è una squadra fondata nel 2009 che grazie a cospicui investimenti ha centrato la prima qualificazione ai gironi di Champions nel 2015 e i sedicesimi di Europa League nel 2017. Questa squadra di Stato – è sponsorizzata da un fondo di investimenti nazionali, ha i colori sociali della bandiera del Kazakistan e ha come simbolo il Semruk, l’uccello mitologico della nazione – testimonia quanta fame di modernità abbiano.

Il fatto stesso che la federazione abbia scelto di iscriversi alla UEFA – e non al parigrado dell’Asia, dove i kazaki sarebbero sempre teste di serie – dimostra che Astana non ha paura del confronto con gli europei, ma anzi lo invoca per mettersi alla prova.

Almas mi saluta alla fine del secondo giorno. E’ stato fin troppo gentile, forse ha bigiato la scuola per stare con me. Ci scambiamo i numeri di telefono, con la tipica gentilezza degli sconosciuti che hanno curato assieme la loro malinconia. Ero partito con troppi dubbi, e i kazaki li hanno sciolti tutti. Questo popolo così inafferrabile, dalle fattezze somatiche cinesi, dalla lingua turca e con una cultura russa, è un crocevia impressionante.

Metto la maglietta dell’Astana in valigia. La piego delicatamente, e spero che i kazaki possano incontrare un’italiana lungo la loro strada in Europa League. Sarebbe bello vederli qui da noi. 

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