C’è vita oltre All I want for Christmas is you? È possibile non sentire dieci volte al giorno la voce di Michael Bublé? Queste e altre domande sono dietro alla necessità di stilare una lista con i sette dischi dell’anno. Non è una classifica né un insieme di precetti; sono solo sette dischi usciti negli ultimi dodici mesi che per un motivo o per un altro si sono fatti notare di più. A ogni album, per non farci mancare nulla – e perché, se con le orecchie ascoltiamo la musica, gli occhi rimangono incollati sulle partite – abbiamo abbinato un personaggio del mondo dello sport che abbia qualche legame con il disco o con l’artista. Siccome veniamo dall’anno più disastroso della storia della nostra nazionale di calcio, per tirarci patriotticamente su il morale e ricordarci che anche da noi si fanno cose buone, abbiamo selezionato anche i due dischi dell’anno usciti in Italia.
Perciò, forchetta con il cotechino ben saldo in una mano, bicchiere di spumante nell’altra e cuffie per vedere – pardon, sentire – i dischi dell’anno di questo 2018.
No, dai, con le cuffie a tavola non si sta.
Pusha T: Daytona – CR7
Corrado Tesauro
Ha una stima di sé difficilmente gestibile? Può darsi. Non si risparmia uscite poco carine nei confronti dei colleghi? Direi che è innegabile. È, però, il più forte di tutti o giù di lì? Senz’ombra di dubbio. Il rapper della Virginia torna a tre anni dall’ultimo lavoro e cinque anni dopo My Name Is My Name, la consacrazione da solista. Lo fa – tanto per non far mancare l’appeal mediatico – con un disco prodotto interamente da Kanye West che, quando non è impegnato a fare e ritrattare endorsement per Donald Trump, resta uno dei producers più influenti e visionari dell’ultima decade.
King Push fa una cosa molto semplice, ma che allo stesso tempo viene bene a pochi: del gran rap. Non ci sono ritornelli catchy – a cantare c’è solo la lanciatissima 070 Shake in Santeria – né ammiccamenti alle ultime tendenze o testi particolarmente profondi: è solo rap fatto nella migliore maniera possibile. E, nonostante la foto sulla sua pagina di Wikipedia lo ritragga con la maglia del Milan, Pusha non può non ricordare il Portoghese della Juve per lo status che ha creato intorno a sé. Ad ogni sua nuova uscita, ad ogni nuovo pezzo, ma anche solo ad ogni nuova barra, tutti si fermano attenti perché sanno che qualcosa sta per succedere, come quando la palla arriva a Ronaldo.
Tra i dischi dell’anno, se parliamo di rap, in cima a tutto c’è senza dubbio Daytona. If you know you know.
Blood Orange: Negro Swan – David Silva
Reinventarsi completamente e far ripartire la propria carriera. Questo è quello che ha fatto Dev Hines quando ha lanciato il progetto Blood Orange e questo è quello che ha fatto David Silva finito tra le mani di Guardiola: ruolo cambiato, spostato più dietro e più al centro, e carriera portata ancora più in alto. Ad accomunarli, poi, una classe infinita.
Il nativo di Houston cresciuto in Inghilterra da genitori africani – non ci facciamo mancare niente – ha fatto girare parecchie teste reinventandosi dopo i progetti precedenti, da solista e non. Già con Freetown Sound si era fatto notare nell’ambiente R’n’B con una musica complessa e una scrittura profonda, ma che risultavano comunque immediate. Quello, però, era l’anno di Frank Ocean e inevitabilmente finì in secondo piano. Con Negro Swan si spinge ancora più in là e sposta l’asticella più in alto. I tappeti musicali attingono a piene mani da qualsiasi tipo di influenza: c’è l’elettronica, c’è il gospel, ci sono influenze della dancehall e chi più ne ha più ne metta. Il tutto è filtrato dalla voce di Blood Orange e dalla sua classe spiazzante. Ne viene fuori un manifesto di come può suonare e di cosa può parlare questo genere nel 2018.
L’R’n’B è al punto di massima espansione e maggior differenziazione da anni. Blood Orange con Negro Swan – a pieno titolo tra i dischi dell’anno – fa come David Silva: resta invisibile, magari i difensori si concentrano su altri, sugli attaccanti, ma lui arriva dalle retrovie e con la sua classe decide le partite.
Joji: BALLADS 1 – Takashi Inui
Chi l’avrebbe mai detto che avremmo messo il disco di uno youtuber tra i dischi dell’anno? Sì, perché se il nome Joji al momento non vi dice niente, può darsi che conosciate, almeno per sentito dire, quello di Filthy Frank, lo youtuber da 6 milioni di iscritti che inventò l’Harlem Shake. Dio lo perdoni per questo.
Nel frattempo George Miller, questo il vero nome del Giapponese naturalizzato Australiano, si è imposto nell’R’n’B – quello più elettronico e distante da Blood Orange, per capirci – con l’88rising, l’etichetta americana che raccoglie altri artisti dall’estremo oriente. Addirittura, con il suo disco, Joji è stato il primo asiatico di sempre a raggiungere lo spot numero uno della classifica di Billboard. Ciò che ha colpito è un album sporco, con la voce costantemente filtrata, distante e distorta; sintetizzatori acidi e 808 la fanno da padrona con un lavoro che è difficile anche collocare tra i generi. Semplicemente ci stupisce e ci diverte, proprio come ha fatto un altro Giapponese ai Mondiali e durante tutta la stagione: Takashi Inui, ora al Betis.

Il disco sembra pensato per quest’epoca rumorosa e veloce, da ascoltare nella metropolitana di megalopoli sparse per il mondo, che siano New York, Tokyo o Sidney. Una patina di energia nasconde una malinconia sempre presente. In fondo, siamo noi così. Giusto?
Mecna: Blue Karaoke – Danilo Gallinari
Non mettete il mio album nelle classifiche di quest’anno.
— Mecna (@mecna) November 30, 2018
E invece…
Uno di Foggia, l’altro di Sant’Angelo Lodigiano; uno segna 19 punti a partita in NBA, l’altro a basket ci giocava solo da ragazzino spinto dall’altezza. Ma cos’hanno in comune? Entrambi, nei rispettivi campi, sono gli italiani più “internazionali”. Gallinari è il giocatore italiano di basket con maggior talento e che, in questo momento, sta rendendo di più in NBA. Mecna, invece, rappresenta un unicum nel panorama nostrano, essendo stato il primo in Italia a riprodurre certe sonorità già affermate negli USA e perciò il più internazionale. Solo con lui la scena musicale dello stivale ha visto qualcuno con un approccio, sia musicale che di argomenti, à la Drake di Take Care, per rendere l’idea. La sua evoluzione è stata in qualche modo ostacolata dalla ritrosia italiana, e soprattutto dell’ambiente del rap, ad accogliere certe novità. Ma ora la sua dimensione artistica è matura e ben definita: adesso fa quello che gli piace e basta. Ha in parte accantonato il rap, che comunque rimane – Ottobre Rosso è il pezzo più hip hop della sua carriera – e ha esaltato una sua vena più pop, più accessibile, ma mai banale.
In quello che è tra i dischi dell’anno usciti in Italia, c’è tanta malinconia, ma la si canta come in un karaoke per esorcizzarla.
The Decemberists: I’ll be your girl – Beppe Marotta
Daniele Pestillo
La prima premessa mi porta a scrivere che nulla, o quasi, ha saputo concretamente colpirmi – non sono, per definizione di amici o parenti, assolutamente un insensibile, che non vi giunga immagine cattiva di me, ci tengo – in questo 2018 di note blu – passatemi la licenza musicopoetica. La seconda che, rispetto al collega autore dei precedenti paragrafi, e con cui ho avuto o sto avendo modo, onere e onore di collaborare, sono tremendamente vecchio, anziano, antico o fuori moda (mi fermo qua, anche perché altrimenti verrebbe meno l’intenzione di non far passare immagine negativa di un me, a quel punto anche incoerente).
Finiti i preliminari, si passa ai fatti (sperando di durare): il primo dei tre album che a mio modo meritano di stare in una personale top chart, prende la palla al balzo dal mese in corso, anglofona base linguistica del nome della band The Decemberists. I’ll be your girl, è forse tra gli album internazionali che più ha saputo prendermi a primo impatto. Diretto, immediato, innovativo ma anche conservativo, con le sonorità rock folk/indie classiche e vicine alla band di Portland che intrecciano la sperimentazione dei synth – quasi, per quel poco, in stile Depeche Mode (non siate puntigliosi, ho scritto quasi) – che saranno la loro “girl”, come Beppe Marotta, proprio in questo freddo mese di dicembre e dopo una promessa irreversibile, ha preso l’Inter come sua nuova signora, dicendole sì. Mi auguro solo che il duo appena citato abbia le idee più chiare rispetto alla band statunitense dell’Oregon, forse, nella positività dell’introduzione di nuove sonorità fuori dalla loro comfort zone, giusto un pizzico disunita.
L’album in questione, rimane, per me, uno dei dischi dell’anno del 2018 e, seppur non vicinissimo allo stile folk/prog/indie rock del gruppo di Colin Meloy, decisamente all’altezza dei loro precedenti lavori.
Arctic Monkeys: Tranquillity Base Hotel & Casino – Maurizio Sarri
Arctic Monkeys, o non Arctic Monkeys? Non è questo il problema. Un album fott***mente geniale. Decisamente il tentativo di sperimentazione meglio riuscito, a tal punto da indurre l’ascoltatore a pensare che “no, dai, non sono loro, qualche simpaticone deve essersi divertito a fare l’upload di altro, sotto il loro nome, su youtube”. E invece, sono proprio loro. Inconfondibile, appunto, rimane il timbro vocale di un Alex Turner quanto più “inspired” che mai, marchio di fabbrica e unico e marcante filo conduttore da “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, ad oggi. Qui si, non ho bisogno di licenza poetica per definire blue le note che riecheggiano dall’altoparlante dopo aver pigiato play. Un’atmosfera stranamente cupa ma rilassante. Un lounge, non lounge, con sprazzi musicalmente adatti a tutto e niente. For out of five, la traccia più lunga e quindi forse più sperimentale dell’album, sembra a tratti riemergere da una vecchia e impolverata pellicola di Kubrick, o comunque da un film simil genre degli anni ’70.
Altre tracce, invece, lasciano trasparire un lounge malinconico, di quelli che pare risuonare, stanco e distorto – pure lui – dopo l’ennesimo drink mandato a giù per inerzia e cattiva solitudine.
Tra i dischi dell’anno c’è quest’album che a tratti, per me, richiama per consonanza o affinità sonore un periodo che forse così ho sempre immaginato, quello della Beat Generation.
“Volevo solo essere uno degli Strokes, e adesso guarda che casino che mi hai fatto combinare / Faccio l’autostop con la valigia in mano, a miglia di distanza da qualunque autostrada immaginaria”.
Sono le parole che Turner pronuncia all’inizio del disco, che forse tanto non paiono distaccarsi dalla visione “on the road” che per me ne deriva.
Un album che accosto, per innovazione, cardine dell’intera produzione, a Maurizio Sarri, uomo seminuovo, portatore di un diverso in un sistema ottusamente chiuso, come quello calcistico italiano. L’auspicio è che, a differenza dell’allenatore toscano, i Monkeys possano portare i successi che, almeno sul campo, paiono meritare.

Calcutta: Evergreen – Stefano Sorrentino
Oggi è un grande giorno, si va online.
Quest’ultima parte – per chi preme fredde lettere di plastica vuota – è senza alcun dubbio, nel bene o nel male, la più significativa, in musica, del 2018.
Ciò nonostante, viene messa nero su bianco appena poche ore prima dell’uscita del pezzo. Stranezze di un mondo troppo veloce.
Calcutta da Latina, da Vincenzo D’Amico, Tiziano Ferro o Elena Santarelli.
Calcutta da Latina, da Torre Pontina, Via dei Pub o Latina Fiori.
Calcutta da Kiwi.
Calcutta da Latina.
Calcutta.
Latina non mi è lontana, al contrario, prossima. Un “posto” vicino, un’amicizia importante, poi scesa, comunque rimasta forte. Edificante.
Evergreen, mai titolo fu più azzeccato. Un album che suona nuovo, vecchio, poi nuovo, di nuovo vecchio e ancora una volta nuovo.
Un album cui alcune melodie avrebbero potuto veder luce, con grande stupore, in un’ Italia che fu.
Un album fuori tempo, appunto, ma anche tremendamente moderno, a me vicino come quel “posto”, quell’amicizia.
Un album che non verrà dimenticato, Evergreen. Quasi un diario, quasi introspettivo, quasi se i suoi sogni, problemi, pensieri, fossero i nostri.
Parole, musica, le une non potrebbero fare a meno dell’altra.
Evergreen come Stefano Sorrentino, indie come le sue parate, i suoi colpi di reni, come il colore brizzolato ma acceso dei suoi capelli, della sua barba, indie come i suoi valori oggi a molti sconosciuti.
Evergreen come Stefano Sorrentino, perchè Venezia è bella ma non è il suo mare.
Potrei parlarvi, come da regola, delle tracce di questo che in Italia è stato tra i dischi dell’anno più attesi. Ma penso che ormai, a questo punto, sarebbe superfluo.
Calcutta da Latina, come Hübner da Trieste.
Esco, o non esco?
Vado, a presto.