Grande fisicità, moto perpetuo, tanto lavoro per la squadra, capacità di finalizzare. Lukaku è il prototipo di attaccante dei nostri tempi.
Relativizzare però la sua legacy al contesto sportivo sarebbe quantomeno riduttivo. Il belga è, ad esempio, un modello di modernità anche da un punto di vista di marketing. E’ stato infatti uno dei primi calciatori a siglare un contratto con la Roc Nation, l’agenzia fondata da Jay-Z, artista anch’egli iconico e generazionale.
Ma aldilà dell’aspetto tecnico e materiale c’è molto di più. È il personaggio Romelu Lukaku nel suo complesso che può essere elevato al rango di icona generazionale.
Nel suo modo di comunicare, nel suo muoversi in controtendenza rispetto a certe storture del mondo di oggi, Lukaku si potrebbe configurare come simbolo positivo di e per una certa parte delle nuove generazioni. E, in qualità di figura positiva, Romelu dovrebbe essere un punto di riferimento per chi, affacciandosi al mondo del calcio, si affaccia al mondo nella sua interezza.
Lotta al pregiudizio
E’ innanzitutto l’ambito del pregiudizio ad accomunare Lukaku e le nuove generazioni. Il belga è arrivato in Italia circondato da un alone di pregiudizio che anche i giovani conoscono molto bene: il pregiudizio sulle capacità. Quello che, usando il lessico calcistico, possiamo riassumere nelle frasi “sei scarso” e “sei più scarso di chi c’era prima“. Un giudizio affrettato, di cui si confessa colpevole anche chi scrive.
Ma è tutta la storia di Lukaku ad essere legata a doppio filo alla lotta ai preconcetti. Romelu incarna infatti tutti i più grandi pregiudizi di cui si può essere vittime, purtroppo anche nel 2019. Oltre a quello sulle capacità, nella sua storia troviamo infatti il pregiudizio razziale e quello derivante dal provenire da una famiglia poverissima.
E se in Italia sta cancellando le rimostranze calcistiche nei suoi confronti a suon di gol (ben 11 nelle sue prime 19 presenze con la maglia dell’Inter), il resto lo ha affrontato esattamente allo stesso modo: spazzandolo via con la sua ossimorica figura di gentile forza della natura.
Perché Romelu è un simbolo per chi con i pregiudizi non vuole avere nulla a che fare, un modello per una generazione cresciuta all’ombra di giudizi insensati e aggressivi.
Big Rom è una figura di unione nella sua capacità di trascinare sulle sue possenti spalle tutte le cattiverie che i Millennials si trovano a subire. Ed è un esempio nel suo scrollarsele di dosso, proprio come fa con i difensori avversari.
Il sorriso di Lukaku
Eppure dovrebbe essere facile innamorarsi a pelle di questo gigante buono, come è stato definito dal suo allenatore. Questo ragazzone dai modi gentili e dalla bonarietà contagiosa ispira un’immediata simpatia. E c’è un motivo se il sorriso di Lukaku è così contagioso: contiene la consapevolezza di chi viene da lontano e, soprattutto, dalle difficoltà.
Di storie di riscatto, si sa, il calcio è pieno, e qualcuna ve l’abbiamo raccontata. Quella di Lukaku è particolarmente bella perché è la storia di una promessa.
Mamma, tutto questo cambierà. Giocherò a calcio con l’Anderlecht e accadrà presto. Staremo bene e non dovrai più preoccuparti.
Quando Lukaku ha pronunciato queste parole, come lui stesso ha raccontato, aveva 6 anni. La sua famiglia versava in gravi ristrettezze economiche, che la madre nascondeva dietro un sorriso tranquillizzante per i bambini. Una notte però, Romelu la vide piangere mentre allungava il latte con l’acqua.
Da quel momento in poi, il senso del dovere di rendere quella madre felice ha cambiato la vita di Lukaku. Le promise che sarebbe diventato un calciatore professionista dell’Anderlecht, cosa che avrebbe potuto fare a 16 anni. Manco a dirlo, il giorno del suo sedicesimo compleanno Lukaku firma il suo primo contratto da professionista con l’Anderlecht.
Il sorriso di Lukaku è quello di chi è riuscito a mantenere una promessa fatta a sua madre.
Volevo essere il miglior calciatore della storia del Belgio. Non bravo, nemmeno bravissimo. Il migliore. Giocavo arrabbiato a causa di tante cose. Per i topi nel nostro appartamento, perché non potevo guardare la Champions League, per il modo in cui i genitori degli altri mi guardavano…
Nel mezzo una strada tortuosa, fatta di scommesse con il proprio allenatore e sguardi sospettosi degli altri genitori e percorsa, senza mai perdere di vista l’obiettivo, con instancabile determinazione e con la scintilla di un’ambizione sconfinata. Non l’ambizione cieca di chi insegue un fine egoistico, ma quella di chi vuole rendere felici le persone a cui tiene.
La storia di Lukaku è esemplare per tutti i ragazzi che, su scale diverse, vivono una difficoltà. Quel bambino che decide di consacrare la sua vita a risollevare la propria famiglia ci insegna che anche i momenti più bui possono trasformarsi in una forza enorme da usare a nostro vantaggio. Ma ci insegna anche che, in un mondo che esalta l’individualismo e il contare solo sulle proprie forze, spesso le forze migliori sono quelle che impieghiamo con e per gli altri.
Battaglia al razzismo
Quando avevo 11 anni, stavo giocando per la squadra giovanile del Lièrse e uno dei genitori dell’altra squadra ha letteralmente cercato di impedirmi di andare in campo. “Quanti anni ha questo bambino? Dov’è il suo documento? Da dove viene?” Ho pensato, da dove vengo? Che cosa? Sono nato ad Anversa. Vengo dal Belgio.
C’è anche questo episodio, e sicuramente tanti altri, nel desiderio di Lukaku di essere il miglior calciatore belga della storia. Quegli sguardi sospettosi degli altri genitori rappresentano il pregiudizio più duro a morire, quello razziale. Pregiudizio tanto più difficile da estirpare quanto più sembra vivere in una contraddizione evidente.
Viviamo infatti in un mondo globalizzato, in una società che non è mai stata così multiculturale. E sono soprattutto i giovani ad essere avvezzi al multiculturalismo. Rispetto alle generazioni precedenti, hanno avuto molte più possibilità di esplorare, fisicamente o tramite Internet, il mondo; sono venuti a contatto prima e più spesso col diverso, che tendono a guardare con occhi meno “estranei”.
In un mondo che viaggia a questa velocità, il razzismo dovrebbe essere un lontano ricordo. La sua proliferazione e, peggio, la sua recrudescenza costituiscono un paradosso, purtroppo, tristemente reale.
Giunto in Italia, Paese dalla memoria corta e poco propenso a guardarsi allo specchio, Lukaku ha dovuto ben presto fare di nuovo i conti col razzismo dei nostri ospitali stadi.
E’ bastata la prima trasferta stagionale dell’Inter a Cagliari per sentir piovere dalla curva dei tifosi sardi ululati razzisti al suo indirizzo al momento di calciare il rigore decisivo. Lukaku ha risposto con lo sguardo di sfida, fiero e glaciale, di chi sta dall’altra parte della barricata, quella giusta.
Com’era la storia della goliardia?
Come se non bastasse, dopo aver preso pubblicamente posizione contro quello che era successo, Lukaku ha anche dovuto leggere il delirante comunicato della Curva Nord nerazzurra, il cui contenuto ha già ricevuto fin troppa attenzione.
Basterà dire che nell’orizzonte mentale di un ragazzo di origine congolese, nato e cresciuto nelle Fiandre, che ha girato il mondo e che è in grado di parlare otto lingue – tra cui un italiano perfetto sin dalla prima intervista – non possono sicuramente rientrare astrusi e insensati discorsi sulla differenza tra razzismo e provocazioni.
E non solo nel suo. Lukaku è il simbolo di chi è abituato al multiculturalismo e non concepisce idee retrograde sulla razza.
Lukaku social
Nel mondo di oggi i social hanno assunto un ruolo preponderante nella comunicazione. Sempre più spesso tuttavia, i social si trovano ad essere una giungla in cui le persone fanno confluire aggressività, frustrazioni, insulti di ogni tipo. In questo clima preoccupante, Lukaku parla tutto un altro tipo di linguaggio.
I suoi profili social parlano la lingua dell’inclusione, mirano ad unire piuttosto che a dividere, sono pieni di sorrisi, abbracci, commenti giocosi e infarciti di cuori ed emoticon. Non mancano poi le prese di posizione contro il razzismo. Emblematica e bellissima la foto in cui Romelu e Lautaro si tengono per mano dopo il gol vittoria segnato allo Slavia Praga, e che Lukaku ha commentato simbolicamente con le emoticon di una mano nera e una bianca che si incontrano.
Lukaku è il simbolo di chi crede che i social siano un luogo di incontro e condivisione, non la valvola di sfogo di aggressività e frustrazioni. È la realizzazione del concetto originale di internet prima e dei social poi: unire le persone.
Uniti.
Lukaku è inoltre l’uomo immagine perfetto per l’Inter che, in risposta agli esecrabili comportamenti di parte dei suoi tifosi, cerca di rilanciare il proprio brand nella direzione di quel fratelli del mondo che costituisce l’atto di fondazione della società.
Per molti aspetti dunque, Lukaku è una figura rappresentativa di un certo modo di concepire lo sport e la vita. È un personaggio positivo perché traccia una strada per i più giovani, che si trovano a doversi orientare in un clima di crescente aggressività che caratterizza stadi, social e finanche il dibattito politico.
Ed è una figura che forse può far bene anche alle altre generazioni, chiamate a svegliarsi da un sonno della ragione che, come ha detto qualcuno, genera mostri.