Le Pepite di Denver

Inventare storie è una caratteristica che spetta e compete a chi, con lineare e fantasiosa armonia linguistica, riesce a estrapolare dalla propria mente qualcosa che possa far reagire, istintivamente, senza coscienza, una sensazione di stupore e piacere nella testa di chi ascolta. Il cervello deve nutrirsi dei racconti ‘bardici‘, così come gli occhi devono saziarsi di quella fantasia che li fa sgranare insensatamente davanti a fiumi di parole.

Denver ha sempre avuto a che fare con persone in grado di recitare questi ruoli, capaci di relegare in poche righe e segni d’interdizione ciò che una qualsiasi persona vive in pochi secondi o innumerevoli attimi. Come John Fante, narratore di un luogo di polvere e pensiero, cantastorie nato nella realtà del Colorado dove la Mile-high City cresce e vive.

Un punto in mezzo alla grandezza dell’America, un semplice segno rosso da colorare nella cartina muta che le stelle americane rappresentano su quel blu, una di quelle città che venne creata e data alla luce per carpirne e sfruttarne tutte le risorse minerarie che possedeva. Nacque in queste condizioni Denver, in un periodo dove la corsa all’oro faceva bruciare chilometri ai cercatori più indefessi e malati, in un’epoca dove pochi paletti di legno e la convinzione di potersi prendere tutto ciò che non era marchiato a fuoco facevano diventare qualsiasi cosa proprietà privata.

Fece così William Larimer, che cominciò a dare forma alla città nel 1858, levigandola pian piano con le sue mani, lasciandola scalpellare dalle generazioni future, estrapolandola dalla roccia come una pepita da un fianco della montagna, tanto agognata nel 1800, ammirata a bocca spalancata in questo secolo dove stupirsi diventa sempre più difficile. E se è davvero così complicato lasciarsi trascinare dalla bellezza e dallo splendore che la montagna accanto alla quale Denver freme emana, non sono più pepite d’oro a far luccicare gli occhi dei cittadini, bensì quelle in carne e ossa che si lanciano sul parquet in canotta e calzoncini.

Nuggets è il corrispettivo italiano di pepite; e la pepita, prendendo una definizione attendibile, è un ‘pezzo di oro nativo di genesi naturale‘. La terra che regala la perfezione in una piccola parte di se stessa. E data la loro particolare inclinazione a cercare e trovare questi granelli di felicità, nessun nome poteva essere più appropriato se non quello di Denver Nuggets per la squadra che ha un roster formato da pepite.

Uno su tutti porta il tricolore nel cuore e nel sangue, indossa il numero 8 e ha la cresta sempre ben alzata: Danilo Gallinari. E’ in Colorado dal 2011, in America dal 2008, con la palla in mano per fare faville dal 2004. Una forma unica generata dal talento stesso, figlio della sregolatezza, un ragazzo che potrebbe fare tanto, che ancora ha dimostrato troppo poco. Ma nonostante questo ha fatto innamorare i tifosi di Denver, quei cercatori instancabili di bellezza, di quella ‘genesi naturale‘ che cercavano nella roccia e nei fiumi, che ora cercano senza sosta nel DNA dei giocatori di basket.

Denver di pepite ne ha avute, a partire da English e Vandeweghe, due fenomeni che portarono nel 1984-85 i Nuggets verso la finale di Conference, poi persa contro i Lakers con un sonoro 4-1. Da quel giorno lontano nel tempo, fino al 1991 con Mutombo, poi diventato grande con un’altra franchigia, i Nuggets non sono riusciti a trovare per sette anni un giocatore all’altezza di quei due ragazzi che fecero accarezzare il sogno di diventare Campioni all’intera città, così come neanche il giovanissimo e fortissimo centro dello Zaire non riuscì a fare.

Negli anni seguenti tanti campioni approdarono nella città ‘of the Plains‘, da Carmelo Anthony a Billups, passando per Allen Iverson e Ty Lawson, bissando addirittura nel 2008 lo stesso traguardo del 1984, quella final di Conference che si è conclusa con lo stesso risultato di 24 anni prima, contro la stessa squadra che li aveva eliminati allora, i Lakers.

Adesso, dopo anni di purgatorio in cui non si capiva cosa fossero diventati i giocatori del Colorado, il roster sembra aver trovato un minimo di stabilità, con il ‘Gallo‘ che sarà il punto di riferimento dopo stagioni passate a combattere contro infortuni destabilizzanti, sia fisicamente che psicologicamente. Dovrà prendere il piccone per primo e cominciare a scavare nel fianco di una classifica NBA ultimamente troppo severa con il talento che la squadra possiede tra le sue linee, decisamente vogliose di riscatto.

Forza e coraggio, orgoglio nel dire e nel pensarsi migliori di quanto realmente si è; magari odiosi nel guardarsi allo specchio e piacersi più di quanto il riflesso dica. Cominciare a essere più vogliosi nel raggiungere i traguardi, lasciandosi alle spalle la grandezza della montagna, sormontando la sua ombra a suon di giocate e vittorie. Questo deve essere il segreto. Il resto è contorno.

“Tu non sei nessuno
e io avrei potuto essere qualcuno”

John Fante

 

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