Spesso dimenticata e bistrattata, ancora una volta la Coppa Italia è stata pane per i denti degli juventini. La novella ormai la conosciamo: un’inseguitrice che ha mostrato la propria tenacia, il Milan di Gattuso, ma che è stata costretta a trovare di fronte a sé la rinomata compattezza difensiva degli avversari, la Juventus di Allegri, che ha ormai smesso di vivere di occasioni speciali e che forse ha dimenticato anche cosa sia la necessità di conquistare l’approvazione. I bianconeri, in Italia, hanno conosciuto soltanto la vittoria. Costante routine domenicale di certezze, estrema organizzazione societaria di cinismo e di fiducia nei propri mezzi sopraelevati rispetto alla caotica, e talvolta inefficiente, media. Sono i primi della classe con consapevolezza ed è bastato poco per dimostrarlo, ancora una volta. Insomma, negli ultimi anni di supervisione allegriana alla Juventus non è stato permesso tentare di vincere, ma soltanto vincere per continuare a vincere.
La partita
Com’è ben chiaro dal tabellino, questa finale ha mostrato due trame opposte per frazioni di gioco. Non possiamo esprimere la vittoria dei bianconeri come un’inevitabile climax ascendente, cui gli episodi e il talento dei singoli hanno permesso la sua prevedibile concretizzazione. Il primo tempo di Juventus-Milan, anzi, sembrava poter esprimere quel che in Italia è ormai difficile aspettarci quando a giocare è la squadra piemontese, cioè una gara aperta e dall’esito incerto. È stato quasi un patto concorde fra due allenatori. Gattuso, consapevole di dovere necessariamente porre le basi per una gara dagli aspetti anomali fin dai primi minuti, causando la giusta dose di caos nei confronti della perenne sicurezza juventina; e Allegri che, d’altra parte, ha accettato volentieri i coraggiosi tentativi di un Milan dall’animo puerile e che, come tale, vive di rabbia e desiderio.
Attenzione ai singoli, al piede di Dybala, alla rapidità di Cuadrado e Douglas Costa, al pallone svirgolato in area, al fallo da fuori area, al contrasto di Khedira nella metà campo – sussurra il toscano.
Alla fine, il primo tempo ha espresso, pur freddamente, una discreta dose di emozioni, probabilmente così prevista dai due tecnici, consegnando agli spettatori presenti all’Olimpico – o incollati davanti a uno schermo a LED in 4K – una prima parte di gioco dall’esito incerto. Anche in tal caso, però, sebbene Gattuso possa ben sperare nel piede caldo di Suso o nelle geometrie di Çalhanoğlu, è probabilmente Allegri a sorridere maggiormente di fronte a una partita tanto equilibrata quanto bisognosa dell’episodio vincente o della giocata del fuoriclasse: materia bianconera, dunque.
Sono bastati circa otto minuti alla Juventus per risolvere la questione. Un’accelerata dopo circa 55 minuti di studio. Il gol di Benatia apre il conflitto a fuoco, risolto immediatamente dal solito, rapido e doloroso, bombardamento juventino nei confronti dell’avversario. L’avversario, per l’accademia bianconera, comandata da un sergente dal cuore cinico e sgraziato come Allegri, non deve soltanto perdere, ma uscire dal campo annichilito, devastato psicologicamente e fisicamente, soprattutto quando il pressing bianconero è garantito dai suoi pezzi pregiati. Entrare a far parte dell’organico della Juventus significa non possedere remore, né tirare in ballo giustificazioni astruse sul tuo stato di forma fisico o sulla mancata resa mentale di fronte al match. Se non rendi vai via, anche con gentilezza – certamente – e se sei nella tua parabola discendente, il concetto non cambia: il club ha bisogno di nuove leve, vedasi i silenziosi addii di tre pilastri storici di questo ciclo juventino quali Marchisio, Barzagli e Lichtsteiner che insieme hanno alzato la Coppa.
Non servono prove di coraggio, né hanno bisogno di essere sorretti dalla forza di una città, ma soltanto di vincere. Vincere per continuare a vincere: un monito che riecheggia da ormai sette anni in casa Juventus.
Una vita da Dybala
L’afasia dei 45 minuti iniziali è stata comunque stravolta dalle vicende successive. La partita riprende con toni maggiori rispetto all’inerte timidezza del primo atto; stavolta il Milan prova a spingere con maggiore ampiezza, innescando soprattutto il coinvolgimento di Bonaventura, un’importante pedina per lo scacchiere di Gattuso, ma Allegri comincia ad alzare la voce. È una Juventus da copione, che quando decide di spingere non ha più remore, specialmente se in squadra puoi vantare di un talento come Dybala, considerato finalmente da Sampaoli per il Mondiale, dopo i dubbi dei mesi passati, e in ottima condizione per il rush finale. La finale dell’Olimpico doveva essere un invitante palcoscenico cui mostrarsi e lasciare il segno, e così è stato.
Non è stata comunque una stagione tranquilla per Paulo Dybala. L’argentino ha vissuto momenti di straripante forma, basti pensare alle prime giornate, per poi improvvisamente collassare di fronte alle scelte tecniche di Allegri, quasi come se fosse diventato un peso trovare il giusto ruolo a un calciatore del genere, ai quali si sono aggiunti i dubbi del CT dell’Argentina e il peso di una mole carica di indecifrabili spiegazioni. Non è comunque corretto individuare, e isolare, l’ex Palermo come un caso singolare di magnificenza dai lati oscuri, in quanto il 10 bianconero sembra pienamente rientrare in una generazione di fenomenali argentini dall’animo fragile.
La finale di Coppa Italia ha però ribadito la questione: Dybala è un 10 da unicum. A prescindere da ciò che gli riserverà il futuro, nella recente storia bianconera il nome dell’argentino è posto su una lastra di marmo a caratteri cubitali, con le giovani generazioni pronte a crescere e a ricalcare le timide orme di un ragazzo dal sinistro d’oro, insieme a quelle più datate che non possono non rievocare nelle gesta del dieci quelle dei grandi miti del passato. Il dramma di Dybala e il suo odissiaco viaggio interiore si è fintanto risolto così, con una prestazione in cui non è neanche servito il nome sul tabellino di gioco per comprendere chi fosse il migliore.
Giovane solitario
Dall’altro lato della barricata, invece, la storia di un giovanissimo portiere che convive con 1,96 metri di insicurezze. Certamente ridurre Donnarumma a un ragazzo dall’esito incerto e dalle mille paure sarebbe estremamente ingiusto, dopo quel che sta dimostrando da ormai ben tre anni. Ma non possiamo fare a meno che tentare di respirare a pieni polmoni l’angoscia vissuta dal classe ’99 in questa finale per comprenderlo, più che per condannarlo.
La prima ora del portiere campano è stata di ottima fattura, soprattutto dopo la difficile parata sulla conclusione del sopracitato Dybala poco prima del disastro.
Dal 61’ il buio. Il tiro di Douglas Costa non era insidioso da richiedere uno sforzo estremo, specialmente per un portiere elastico come Donnarumma. Come a Londra, contro l’Arsenal in Europa League, sbaglia la tecnica di respinta, agguantando con il metacarpo. Contro il brasiliano, nella fattispecie, sembra voler bloccare la sfera che fatalmente gli sfugge. È un errore che costa caro, vuoi perché avviene durante una gara decisiva, vuoi perché di fronte si presenta un veterano come Buffon e una squadra come la Juventus, che difficilmente permette di concedere occasioni tali per recuperare di due gol. Così, mentre le gambe cominciano a tremare e il respiro accelera al punto da provocare affanno, Gigio Donnarumma si rende conto dell’errore commesso e, soltanto tre minuti dopo, commette il secondo.
Da quegli otto drammatici minuti, Donnarumma ha vissuto la mastodontica solitudine di chi svolge il ruolo del portiere. Chissà cosa avrà pensato tra sé e sé fra i due distanti pali della porta dell’Olimpico, magari rivolgendo uno sguardo ai guantoni che stavolta l’hanno tradito. Forse che non bisogna davvero porre in discussione alcune realtà esterne che sono state definite, collettivamente, marce. Che forse si è persa già quella genuinità della prima volta. Oppure perché tutta questa improvvisa pressione. Perché proprio lui come erede di Buffon, perché 6 milioni l’anno per un ragazzo con sole due stagioni d’esperienza.
Sono tante le domande che in questo momento attorniano il ragazzo campano. Ma le risposte da trovare devono essere colte anzitutto sul campo da gioco solo da Gianluigi Donnarumma. Magari rendendosi conto che, possa vantare un destino da predestinato e una vita di ascendente prospettiva, a 19 anni possono ancora tremarti le mani.