Un asteroide, un corpo estraneo transitato nei cieli dell’NBA, venuto fuori dal nulla e destinato a tenere tutti col naso all’insù. Ecco cos’è Joel Embiid e, anche se manca ancora qualche giorno al 6 gennaio, il 2017 è stato l’anno della sua epifania.
Da Yaoundé al Bronx
Il 1961 è associato senza dubbio al simbolo della più grande divisione della storia: il muro di Berlino. Nello stesso anno, però, su palcoscenici meno illuminati del mondo, la trama della storia prendeva sviluppi opposti: il Camerun britannico si univa con quello francese, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia, facendo nascere il Camerun indipendente con capitale Yaoundé. Lo stato venne riorganizzato undici anni dopo nella Repubblica Unita del Camerun.
Nel 1973 si avvia così la costruzione del monumento simbolo della riunificazione: una sorta di cono rovesciato a spirale, con davanti la statua di un uomo che tiene in braccio insieme più bambini, a rappresentare le diverse parti del Paese.
Contemporaneamente, dall’altro lato dell’Oceano, precisamente nel Bronx, una giovane ragazza organizza la sua festa di compleanno alla Sedgwick Avenue e, a passare un po’ di musica, sarà suo fratello, che nel quartiere ha un certo seguito. Lei si chiama Cindy Campbell, il fratello è Clive, ma dato che è un ragazzone di due metri tutti lo chiamano Herc, DJ Kool Herc. L’11 agosto 1973 quel ragazzone ha inventato l’hip hop.

Started from the bottom
Ma come sono connesse queste nostre due storie? I due fili narrativi nella nostra testa s’intrecciano nel 1994, quando a Yaoundé nasce un altro ragazzone discretamente grosso, che di mestiere non mette i dischi ma gioca a basket: Joel Embiid. All’inizio, in realtà, avrebbe dovuto giocare a pallavolo ma, passato per il camp di Luc Mbah a Moute (altro giocatore NBA), si capì che la sua strada sarebbe stata quella della palla a spicchi. Così fu l’America, prima all’high school, poi college e alla fine NBA, pur non giocando per i primi due anni per infortuni.
L’impatto e l’atteggiamento sono incredibilmente hip hop. È l’attitude di chi ha sempre saputo fosse quella la sua strada e che una volta arrivato a destinazione si gode la vista. Perché è partito da lontano, perché ha dovuto sopportare tormenti fisici, perché l’unico mezzo per farcela sono state le sue capacità. E ora, come l’hip hop comanda, se la tira alla grande.
Who I am
The time is now, my grind is here shit. My body is focused, my mind’s in gear, let’s start it.
Queste le prime due frasi di Juelz Santana dei Diplomats. Sono a metà tra una speranza e un’intenzione programmatica: un po’ il modo per dire sono qui, non per figurare soltanto. Lo stesso pensiero di Embiid riguardo all’NBA.
Dopo i primi mesi di doveroso ambientamento, con l’inizio del 2017 ingrana definitivamente e un bel po’ di mascelle faticano a stare su guardando questo centro più che atipico. A gennaio, per la Eastern Conference, è sia rookie del mese che giocatore della settimana. L’impatto con l’asteroide è avvenuto: per quanto ancora non maturo Embiid è una delle cose più strabilianti viste su un campo da basket nell’ultimo periodo.
Thought process
The Process. Così parla di sé, in maniera molto modesta e usando la terza persona, Joel Embiid. The Process è il processo attraverso il quale Philadelphia prova a costruire una squadra che sia una contender. La prima stagione, però, finisce troppo presto, ancora una volta per un infortunio. La cautela nell’ambiente dei Sixers è tanta, si sa di avere una perla tra le mani, ma la paura di vederla rompersi fa sorgere più di qualche dubbio. Il processo c’è, ma forse va ripensato.
Un’altra stagione è finita con un nulla di fatto, certo le aspettative non erano molte, ma i miglioramenti sperati si sono solo intravisti, salvo lasciare troppo presto lo spazio alle vecchie frustrazioni.
Dead Presidents
Presidenti morti. Non proprio un’espressione elegantissima, ma lo slang raramente va sotto braccio col bon ton e così, soprattutto nel mondo afroamericano, questo termine è molto diffuso per indicare i dollari. Bigliettoni verdi con stampati sopra i presidenti morti. Nella città della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione l’espressione è ancora più adeguata.
Ad agosto la dirigenza Sixers decide da che parte stare, se da quella del talento o quella della paura, e propone a Joel Embiid un’estensione contrattale da 148 milioni su cinque anni. Dead presidents, un bel po’ di dead presidents per il ragazzo partito da Yaoundé.
Sky’s the limit
L’hanno pensato tutti. Per quelle capacità tecniche abbinate a quel fisico. Per quell’atteggiamento che per alcuni può essere sfrontatezza, per altri è sicurezza nei propri mezzi. Il confine è labile, ma se sopra ci corre la voglia di porsi continuamente sfide, di fare un passo avanti, poco importa.
Il 15 novembre è la data in cui tutta l’NBA si è girata a guardare Embiid. Career-high da 46 punti contro i Lakers, con tanto di sfottò a LaVar Ball a fine partita. È già tra i grandi dell’NBA? È già un giocatore franchigia? È affidabile fisicamente? Le risposte sono varie, ma non fanno altro che porre delle etichette, che dicono cos’è e cosa non è. Sono limiti, e noi preferiamo lasciargli solo il cielo sopra di lui.
Business as usual
L’ultimo flash dell’anno. L’ultima moneta lanciata in un salvadanaio già colmo di talento e grandi prestazioni. È la partita del Christmas day, come lo chiamano gli americani, o più semplicemente Natale, per tutti quelli che preferiscono la lingua di Boccaccio. Al Madison Square Garden ci sono i Knicks ad aspettare i Sixers, per un incontro tra due squadre non particolarmente in forma. Philadelphia vince, 105 a 98, ed Embiid mette 25 punti con 16 rimbalzi. E la notizia qual è? Nessuna, appunto.
Ormai le sue prestazioni non suscitano più clamore, ormai ci si aspetta da lui che il suo gioco sia sempre su certi standard. Dominare una partita è diventata una cosa abituale, business as usual, come il disco degli EPMD. Se hai quella mole di talento anche stupire diventa prevedibile.
Consacrarsi definitivamente: questo è quello che tutti si attendono da lui per l’anno prossimo. Magari portando i Sixers ai playoff che mancano da troppo tempo, magari venendo inserito in qualche quintetto NBA. Non si sa. Io in realtà gli chiedo solo di continuare a farci divertire così. The Process, Joel Embiid. Started from the bottom now he’s here.