Sottovalutato
L’ Under 21 dovrà convivere, da qui all’inizio del prossimo ciclo, chissà se con Luigi Di Biagio, con questo termine dai tratti indeterminati che, se scrutati da più angolature, potrebbero mostrarci le varie sfaccettature di questa nazionale che è riuscita ad attrarci e tenerci davanti ai televisori (dai 5 milioni al debutto, agli 8 milioni in semifinale: numeri mostruosi) come non capitava dai tempi di Claudio Gentile, con De Rossi e Gilardino (nel 2004 dominato, ultimo successo in Germania) passando per quello emozionante in Svizzera del 2002, di Pirlo e Maccarone, perso in semifinale al golden gol contro la Repubblica di Ceca, poi vincitrice; arrivando al 2000 con Marco Tardelli e il 4-3-1-2 di Pirlo capocannoniere e miglior giocatore del torneo, alle spalle di Ventola e Comandini, in rampa di lancio verso Inter e Milan, che schiantarono tutti in Slovacchia; senza scomodare gli anni 90 con il predominio di Cesare Maldini al timone.
A-priori
Ci è riuscita, sostanzialmente, per il grosso, e inevitabile, appeal che i giocatori selezionati si sono portati cuciti sopra i propri numeri, in seguito a una stagione che ha visto tutti gli interpreti convocati, protagonisti nelle loro rispettive squadre di club, quasi tutte di Serie A (4 Atalanta, 3 Milan, 2 Fiorentina, 2 Torino, 2 Sassuolo, 2 Genoa, 1 Juventus, 1 Inter, 1 Udinese, 1 Palermo, 1 Pescara, 1 Verona, 1 Benevento, 1 Cesena) con una media di 24 partite giocate in campionato. Numeri importanti, mai appartenuti alle precedenti gestioni a così alti livelli, che testimoniano una tendenza positiva delle nostre società, vuoi per necessità, vuoi per virtù, date da una migliore qualità delle risorse umane e da una generale programmazione in crescita.
Quasi inutile sottolineare che il blocco Atalanta, con l’aggiunta di Donnarumma, Rugani, Gagliardini, Berardi e Bernardeschi, ha fatto brillare gli occhi di tutti.
Ma li ha fatti brillare talmente tanto, che il termine “sottovalutato” entra prepotentemente nelle riflessioni “a-posteriori” che tra queste righe seguiranno.
Le altre
L’attenzione del pubblico nazional popolare, infatti, come succede nella maggior parte delle manifestazioni delle selezioni giovanili, si è rivolto quasi esclusivamente alle potenzialità sprigionabili dai nostri colori, sottovalutando la potenza delle altre squadre in competizione: in primis Spagna e Germania, superiori per qualità e struttura, e che ieri sera ha visto gli iberici arrendersi alla miglior squadra della competizione per qualità/organizzazione; compagini organizzate come l’Inghilterra (sempre attrezzata a livello giovanile) la Svezia campione in carica, e il Portogallo testa di serie con Renato Sanches, Bruno Fernandes e Bruma ispirato; passando per le underdog della competizione: la Polonia, squadra ospite, la Slovacchia granitica di Skriniar, e la Repubblica Ceca di Jankto e Schick (il talento, forse, più in ombra di questa competizione).
A una più attenta, ma non approfondita, analisi, si potrebbe già scrivere che l’ Under 21 di Gigi Di Biagio, al cospetto soprattutto di uno squadrone come quello spagnolo che ci ha poi annientato con la grazia di Ceballos e l’eclettica armatura di Saúl, non poteva partire in questa manifestazione come favorita, e l’obiettivo postosi dalla Federazione di giungere tra le prime 4 era quello più realistico, come si è poi avverato.
Al minuto 3.42 fa impazzire me e i nostri difensori. Sembra Jason Williams che finta il passaggio più e più volte, con una leggerezza di passo imbarazzante. Poi esagera e si chiude in un imbuto, pur uscendone. Chiamatelo pure: Movimento Ceballos.
Cosa non è funzionato?
L’avvio dell’Europeo è stato catastrofico, relativizzando l’espressione, e riducendola prettamente alla qualità espressa in campo. Abbiamo, di fatto, sottovalutato l’organizzazione consapevole dei nostri avversari (Danimarca e Repubblica Ceca) e forse sopravvalutato le nostre qualità di gioco, sottovalutando le caratteristiche peculiari dei nostri interpreti. Perdonate la supercazzola.
La prima partita contro la Danimarca, che difficilmente avremmo portato a casa senza l’intuizione di Pellegrini (il migliore, per costanza, della spedizione) ha mostrato quello che era un problema al quale Gigi Di Biagio avrebbe dovuto porre fine: la coesistenza tra Berardi e Bernardeschi sulle fasce, in un modulo a 3 punte, senza un interprete di centrocampo in grado di velocizzare, con qualità e istinto, e isolare i nostri due giocatori più forti nell’uno contro uno. Ne ha risentito Bernardeschi, fuori ruolo e mai nel vivo del gioco, e soprattutto Berardi, costretto a mettersi in luce più in fase difensiva che offensiva, mostrando quelle che sono le sue lacune di base, a cui dovrà rimediare per non limitarsi a essere uno splendido giocatore di media classifica. Lacune di carattere associativo (vive solo di spunti anarchici, poco efficaci se non vengono isolati dalla manovra di gioco) e comportamentale (il giallo preso contro la Germania, che lo ha estromesso dalla semifinale contro gli iberici, è da idioti).
Sottovalutare questa dinamica di gioco è stato l’errore più grosso del tecnico romano, perché in un solo colpo ha depotenziato il peso offensivo della squadra e l’ha dotata di poco equilibrio tra le due fasi.
Gagliardini non possiede doti eccelse di pensiero veloce e di passaggio verticale, Caldara e Rugani, che pure avrebbero avuto le caratteristiche per farlo, si sono mostrati troppo timidi in fase di uscita bassa, Donnarumma è stato spesso impreciso con i piedi.
Superata, a fatica, la trequarti di campo, ci siamo spesso ritrovati a gestire il possesso (spesso seconde palle vinte) con due blocchi distinti: Benassi e Pellegrini (simili per caratteristiche) che si ritrovavano in assenza di ritmo nello spazio creato da Petagna, ma senza garantirgli un appoggio concreto (quindi troppo staccati) Berardi e Bernardeschi larghi e avulsi, serviti con lentezza e quindi raddoppiati, e uno dei due terzini nella terra di nessuno.
Nel momento in cui l’azione si trasformava da attiva a passiva, Gagliardini (Cataldi contro la Repubblica Ceca) si trovava preso in mezzo, e la difesa troppo esposta a palla scoperta, senza un reale pressing degli altri componenti. La Repubblica Ceca ci ha punito esclusivamente trasformando l’azione da difensiva a offensiva.
Le caratteristiche dei nostri interpreti, di fatto, suggerivano di impostare il gioco in maniera più ritmata e aggressiva, saltando Gagliardini nella manovra (più sporcatore di palloni, e gestore dell’ordine) verticalizzando direttamente sull’estro di Bernardeschi, che non avrebbe dovuto giocare a sinistra, ma più centrale, consentendogli di calciare, assistere o creare superiorità numerica con il dribbling.
Tralasciando alcune scelte tecniche, effettuate tra la prima e la seconda partita – frutto, forse, di una sottovalutazione dei nostri avversari, ma che non avrebbero cambiato la sostanza dei fatti – i problemi maggiori sono stati da una parte l’atteggiamento di Danimarca e Repubblica Ceca, che ci hanno lasciato sapientemente il pallino del gioco, dall’altra una scelta di modulo che non ci consentiva di sfruttare i nostri giocatori al meglio. Non è un caso che nelle prime due partite, la miglior Italia si è vista con Bernardeschi sulla fascia destra, a lui più congeniale, che rientrava nel mezzo del campo, lasciando Conti libero di affondare, e Chiesa sulla sinistra in grado di tagliare in profondità (25 minuti di Italia-Danimarca).
Cosa è funzionato?
Italia-Germania
La seconda parte dell’Europeo ha mostrato, invece, il valore più vicino al potenziale esprimibile dalla nostra selezione. Il merito è stato, soprattutto, di Gigi Di Biagio che, in seguito alla sconfitta ceca – scriviamolo senza retoriche – è stato sottovalutato.
Il tecnico romano ha semplicemente costruito una gara perfetta contro una Germania più forte di noi (e che forse ha fatto qualche calcolo di troppo, giocando con il braccino tirato) mandandola costantemente in sovraritmo, con un pressing organizzato, aggressivo e audace che ha letteralmente annullato Dahoud e Arnold, due che con gli scarpini ci sanno fare, ma che prediligono un gioco lento da sovvertire con le loro giocate.
E lo ha fatto proponendo gli stessi interpreti con due cambi sostanziali.
Chiesa, che ha dimostrato nel rapporto carogna/qualità di essere un giocatore già pronto per i palcoscenici più importanti del mondo, dal primo minuto sulla fascia sinistra, e Bernardeschi attaccante centrale; ma soprattutto un 4-1-4-1 meravigliosamente ordinato e altissimo in fase di non possesso che sprigionava la logica aggressività di Benassi e Pellegrini (le loro migliori doti difensive) pronti a innestare con giocate ravvicinate, sporche, comunque veloci, Chiesa e Berardi, che potevano a quel punto dialogare con Bernardeschi e non con Petagna (il discorso si fa differente).
In questo contesto di gioco, la nostra difesa poteva giocare più alta e aggressiva, mettendo in luce le propria velocità e istintività di base, e Gagliardini poteva esaltarsi nel suo ruolo più congeniale, ovvero da vertice basso, in qualità di interprete nella copertura degli spazi focali.
Quando dovevamo, invece, impostare l’azione dal basso (poche volte, a scrivere il vero) Bernardeschi entrava subito nel vivo del gioco, abbassandosi sul cerchio di centrocampo, lasciando la profondità alla cattiveria di Chiesa e Berardi, e consentendo contestualmente ai due terzini di buttarsi nello spazio liberato, mentre Benassi e Pellegrini potevano sfruttare le loro doti migliori offensive, cioè quelle dell’inserimento in progressione da dietro: il gioco dell’Italia scopriva un’armonia guerriera e un’identità che non aveva ancora conosciuto.
Oltre alla qualità di gioco, il pubblico da casa e sugli spalti scopriva un gruppo cazzimmoso (Chiesa, in primis) unito intorno alla figura del suo allenatore (il rapporto tra Bernardeschi e Di Biagio è stato quello di un allievo e un suo mentore) e del suo capitano: Marco Benassi è stato, forse, il giocatore più sottovalutato della nostra spedizione, e continua a essere nell’immaginario collettivo un giocatore sottovalutato, non entrando mai nella considerazione di possibili scenari più prestigiosi. Ma ha mostrato doti di leadership, adattabilità e sacrificio, alle quali abbina da già cinque stagioni in massima serie (nessun pari età come lui, in Italia) un costante miglioramento in fase offensiva (in questi cinque anni ha segnato nell’ordine: 1, 2, 3, 4, 5 gol).
Il gol di Bernardeschi contro la Germania è l’emblema dell’aggressività mostrata dagli azzurri in quella partita.
Italia-Spagna
Un’unione che si è vista per tutti i 90 minuti di Italia-Spagna in cui l’ingenua espulsione di Gagliardini ha sicuramente scardinato l’equilibrio di un match, fino ad allora a pari merito, costruito sulla falsa riga di quello contro la Germania: un 4-1-4-1 aggressivo in fase di non possesso, in cui gli spagnoli si sono dimostrati più abili dei tedeschi, ma che hanno faticato a impensierirci in parità numerica.
Rimangono i dubbi su come sarebbe andata a finire senza l’espulsione di Gagliardini e senza le squalifiche di Conti e Berardi.
Ciò che, tuttavia, si può imputare al tecnico romano, è di non aver proseguito al 100% l’idea di gioco mostrata contro la Germania, ovvero di un Bernardeschi più nel vivo del gioco, in posizione centrale.
Di Biagio, infatti, ha preferito non rischiare la mossa Garritano per Berardi, riproponendo Petagna dal primo minuto come attaccante centrale e il fiorentino esterno destro. La punta dell’Atalanta, tuttavia, ha mostrato in questa competizione tutti i suoi limiti su cui dovrà lavorare: un attaccante fisicamente spaziale, che sa usare bene il suo corpo, ma che non riesce ancora a fare reparto da solo perché la qualità non lo supporta e ha necessariamente bisogno di una mezza punta che gli giochi affianco (vedi il Papu Gomez). A questo si aggiunge poco fiuto del gol, e una lentezza a guidare il primo pressing in fase di uscita bassa degli avversari (lo stesso identico discorso, più accentuato, vale per Cerri).
Giusto per farci un po’ del male.
Chi si è messo in luce?
In ordine decrescente.
Federico Chiesa: è riuscito a imporsi titolare, partendo dalla panchina, mostrando un pensiero audace “punto sempre l’uomo” e un attaccamento alla maglia paragonabile a quello che ho visto a De Rossi. Insomma, il mio nuovo potenziale idolo. Spero di non sbagliarmi.
Lorenzo Pellegrini: per costanza, il migliore della spedizione, con una rovesciata dal futuro e un futuro in giallorosso.
Federico Bernardeschi: il simbolo, a livello di riconoscibilità, di questa spedizione che ci ha fatto sognare contro Germania e Spagna, nei momenti in cui è contato essere.
Marco Benassi: uno così sarà fondamentale sempre in una rosa a determinati livelli (rileggere sopra).
Mattia Caldara: soprattutto contro Germania e Spagna, soprattutto quando ha mostrato quella qualità di anticipo propedeutica nel creare un break sempre più decisivo in un calcio di posizione, in grado di sovvertire i piani difensivi degli avversari. Personalmente, in questa dinamica di gioco mi ha ricordato Lucio.
Chi si è messo in ombra?
In ordine crescente.
Andrea Petagna: credo che conosca i suoi limiti (rileggere sopra) e credo che sarà intelligente a lavorarci.
Domenico Berardi: lo reputo uno dei giocatori italiani più forti (il più forte della spedizione) nel trasformare palle gol dal nulla, ma se non trova un sistema a lui congeniale, deve diventare più collaborativo anche in fase di possesso, altrimenti è destinato a una carriera da Sassuolo. Tralasciando le doti comportamentali, necessariamente da migliorare.
Gianluigi Donnarumma: approfondiamo di seguito.
L’Europeo di Donnarumma
I falsi dollari di Monopoli lanciati alle spalle del napoletano durante Italia-Danimarca sono una delle pagine più brutte della storia della maglia azzurra. Arrivano il giorno dopo il gran rifiuto del portiere (e di Raiola) all’offerta di Mirabelli e Fassone, e sono di una stupidità senza eguali, sulla quale è inutile soffermarsi.
Rimanendo sul campo, invece, l’Europeo è stata una vetrina che di fatto lo ha mangiato vivo. Sempre al centro delle telecamere, il suo rendimento ne ha risentito, e gli errori palesi sono diventati un boomerang dal sapore triste di vendetta.
Sulla sua spedizione pesano più il primo che il terzo gol contro la Repubblica Ceca, e in special modo il secondo gol di Saúl. In entrambi ha mostrato lentezza in fase di spinta, e forse un’eccessiva confidenza nei propri mezzi fisici – chiamiamola anche sopravvalutazione – che sotto il caldo di giugno non può essere uguale a qualche mese fa.
Sarebbe comunque deleterio pensare a un Donnarumma gravemente ridimensionato. Le doti non si discutono, anche se con i piedi ha mostrato un passo indietro evidente. Ma i piedi, per un portiere, sono anche un fatto mentale.
Di concreto, la vetrina Under 21 potrebbe aver restituito al Milan il suo portiere, chissà per sempre?
Postilla: neanche l’Europeo di Andrea Conti è stato esaltante. Ha mostrato qualche incertezza di base nel sistema a 4 e le troppe voci di mercato non lo hanno aiutato.
Postilla della postilla: la Federazione non è stata brava a gestire tutte queste situazioni; in una conferenza stampa prima di Italia-Germania non si può far chiedere a Bernardeschi dove giocherà il prossimo anno.
Il futuro dell’ Under 21
Nel 2019 giocheremo in casa e il termine “sottovalutato” dovrà essere tenuto necessariamente in considerazione.
Al di là di chi siederà in panchina, bisognerà costruire un biennio che potrebbe rivelarsi fondamentale per il futuro dell’intero calcio italiano, regolarizzando i vari percorsi delle selezioni più giovani.
Si è spesso parlato, infatti, nell’ultimo periodo di una programmazione e una crescita a livello giovanile netta, soprattutto sull’onda dell’entusiasmo per il Mondiale Under 20 che ci ha visto protagonisti fino alla semifinale.
A mio avviso bisogna ripartire proprio dalla classe dei ‘97, di cui Chiesa sarebbe il simbolo, e che può contare su giocatori già sotto i riflettori come Meret, Barella, Mandragora e Orsolini. A questi si dovranno aggiungere i ’98 di cui possiamo già fare i nomi di Locatelli e Adjapong.
Senza, ovviamente, tarpare le ali a chi può ambire alla nazionale maggiore, o a chi può ambire all’ Under 21 da sotto categoria (vedi potenzialmente Pellegri) il prossimo commissario tecnico (lo stesso Di Biagio) dovrebbe individuare sin da subito un gruppo di 30/40 ragazzi, su cui cimentare la prossima spedizione.
La fase di non-qualificazione, infatti, dovrebbe incentivare il prossimo commissario tecnico a lavorare con calma ed essere spregiudicato: puntare su una reale Under 21 (i classe ’97 e ’98) dalla quale, in una reazione a catena, far sviluppare un lavoro biennale alle giovanili inferiori basato sulla singola annata.
Figurando, così, nel prossimo biennio un’Under 20 dei ’99, un’Under 19 dei 2000, e via discorrendo.
Rimangono tagliati fuori da questo discorso i ’96 come Pellegrini e Scuffet.
Ma, attualmente, possiamo sperare di ridurre il gap europeo che ci divide, oggi, da Germania e Spagna, solo anticipando il processo di crescita dei giovani in nazionale, individuando fin da subito quei talenti che, con una dovuta programmazione, possono arrivare a 22-23 anni con un’esperienza consolidata di gruppo in maglia azzurra.
Insomma, il prossimo biennio dell’ Under 21 non dovrà essere sottovalutato sotto nessun punto di vista.