Per capire al meglio Dennis Praet, la sua invisibilità e, soprattutto, il suo modo di vedere il calcio è necessario, per prima cosa, inquadrare il contesto in cui il 24enne belga è cresciuto.
Da sempre infatti siamo abituati a rimanere aggiornati solo sui campionati più importanti d’Europa. Non bisogna generalizzare, però sfideremmo chiunque a trovare un buon numero di appassionati di calcio che seguono con continuità, ad esempio, il campionato belga. Che poi magari non è neanche tanto peggio di quello francese, PSG a parte.
Tuttavia, basterebbe rimanere sintonizzati sulle trattative di calciomercato – questo lo facciamo tutti, non c’è dubbio – per capire quanto la Jupiler Pro League negli ultimi anni stia plasmando sempre più giovani di livello. Non a caso, negli ultimi tempi la nazionale belga è una delle più grandi protagoniste in campo europeo ed internazionale.
Il sistema calcistico del paese è cambiato radicalmente dalla fine degli anni ‘90: prima di quel momento la nazionale aveva ottenuto un solo sporadico quarto posto ai Mondiali messicani del 1986 e un paio di podi agli Europei, oltre a tante brucianti eliminazioni anticipate. Michel Sablon, direttore tecnico della nazionale in quel periodo, diede il via alla rivoluzione basata su un’idea comune: quella di costruire giocatori tecnicamente sviluppati e di proporre un gioco offensivo ad ogni livello – di club e di nazionale – attorno al 4-3-3.

Tutte le squadre della Pro League quindi furono indirizzate dalla federazione a seguire questi principi, soprattutto a livello giovanile. I risultati andarono ben oltre le aspettative: solo per citarne alcuni, Hazard, De Bruyne, Fellaini, Witsel, Mertens provengono tutti da questo tipo di sistema. Caratteristica principale di questo metodo è la tendenza di cedere i giocatori all’estero solo una volta concluso il percorso formativo calcistico. Uscirne prima può essere pericoloso: basti pensare ad Adnan Januzaj, passato dal settore giovanile dell’Anderlecht a quello del Manchester United a soli 16 anni. L’ala di origine albanese sta ancora inseguendo la sua fama di fenomeno, che finora è rimasta solo una bella prospettiva non coincidente con l’attuale giocatore discontinuo e altalenante.
Praet è cresciuto con calma
Di Dennis Praet si parlava molto bene da anni, almeno da quando nel 2010 un sedicenne costava all’Anderlecht già 600.000 euro, finiti nella cassaforte del Genk. Nell’ecosistema in cui Praet è cresciuto, però, le cose si fanno ancora con calma, come una volta, quando non c’era la frenesia che oggi ci spinge a correre come centometristi. All’Anderlecht ha avuto tutto il tempo di crescere, prima di spostarsi verso Genova a 22 anni compiuti. In Belgio i giocatori crescono con cura, come piccole piante nate sul terreno che meritano tutte le attenzioni del caso, prima di essere lasciate al loro destino.
La sua invisibilità è quella tipica della giovane promessa che ci mette più tempo degli altri a sbocciare completamente, quando ormai tutti sembrano essersi dimenticati di lui. Del resto, nella mentalità comune, se a 18 anni vieni accostato a grandi club, a 24 devi essere già un top player, altrimenti eri solo uno dei tanti.
Praet infatti ha ritardato la sua definitiva esplosione, diventando solo col passare del tempo un giocatore intelligente e in grado di adattarsi a diversi ruoli, merito del lavoro svolto nella Samp.
Lavoro svolto comunque su ottime basi, perché le abilità tecniche le ha sempre avute, come aveva già dimostrato nella sua ascesa tra le fila dell’Anderlecht. A 17 anni l’esordio tra i professionisti in una partita di Beker van Belgie – la coppa nazionale – in cui già mostra la sua migliore abilità, quella del passaggio, servendo due assist. Nel 2014, a 20 anni, ha già disputato cento partite ufficiali con la sua squadra. Fino a lì sembra il classico giocatore che sogni di veder giocare nella tua squadra, spesso basandoti solo su qualche video montato malissimo con una canzone tamarra in sottofondo.
Stranamente però l’hype su di lui scende abbastanza velocemente, e i grandi club iniziano a guardarsi altrove. Infatti, Praet abbandona l’Anderlecht solo nell’estate 2016, finendo a 22 anni nella Sampdoria, buonissima squadra ma non certo uno dei top club europei che erano stati interessati a lui. Si rivelerà una scelta azzeccata, visto che finirà tra le sapienti mani di Marco Giampaolo, bravissimo a gestire talenti occulti come Praet.
Tecnica occulta
Spesso capita che i giocatori più tecnici in campo risaltino, brillino di una luce particolare che attira a loro tutti i riflettori. Dennis Praet invece è nascosto a centrocampo: emerge la sua classe, ma lui resta nell’ombra. E’ il tipico giocatore di cui chiedi l’identità quando stai guardando distrattamente una partita ma da cui poi vieni attratto con una giocata spettacolare. La sua abilità migliore è quella di servire passaggi decisivi, non di segnare – e anche da questo possiamo capire qualcosa della sua identità.
Il rapporto con l’allenatore non decolla subito per la verità. Appena viene acquistato dalla Sampdoria, Giampaolo lo elogia (“E’ un giocatore di grande qualità”), ma mette anche le mani avanti, senza sbilanciarsi troppo: “I giocatori li conosci bene solo quando cominci ad allenarli”. E infatti Praet non convince del tutto il tecnico, indeciso sulla posizione in cui schierarlo. Inizialmente l’idea sembra essere quella di piazzarlo trequartista, per sfruttare la sua visione di gioco e abilità nel passaggio. Nelle prime giornate di Serie A disputa qualche partita, ma nel ruolo c’è concorrenza: a gennaio è arrivato in Liguria Ricky Álvarez – per uno degli ultimi tentativi di recupero dell’argentino ad alti livelli – e in rosa ci sono Bruno Fernandes e Djuricic. In più quello di trequartista non sembra il ruolo perfetto per il belga, almeno nel nostro campionato: in quella zona c’è troppa densità e Praet preferisce avere campo e spazio per poter immaginare la giocata migliore da compiere. A Giampaolo allora viene l’intuizione di spostarlo indietro di qualche metro e di metterlo a fianco di Torreira, come mezzala destra. A partire da gennaio Praet prende le redini del ruolo, aiutando tantissimo la Samp nella risalita del campo per vie centrali così amata dal suo allenatore.
Da questa posizione Praet è in grado di generare calcio, palleggiando con i compagni, muovendosi in modo liquido verso l’esterno o lanciandosi a tutta velocità nei corridoi. Uno spunto perfetto ci arriva dall’ultima giornata di campionato: contro il Parma il centrocampista belga ha servito due assist molto simili. Sistemato sulla fascia destra, sul primo gol ha crossato il pallone rasoterra per Caprari, sul secondo ha alzato la parabola per raggiungere la testa di Quagliarella posizionato sul secondo palo. Il tutto con una naturalezza tecnica che lo rende un giocatore al contempo speciale ma occulto, un numero 10 che fa parlare i suoi piedi ma cela la sua figura.
Praet è rapido, ma non eccessivamente elegante con la palla nei piedi. Ha sicurezza nelle giocate, ma è un po’ caotico quando ha la palla. E’ entropia e controllo allo stesso tempo: in lui convivono due anime, quella del giocoliere – in grado di fare ciò che vuole con i piedi, di illuminare il campo – e quella del faticatore, sempre concentrato su cosa gli sta succedendo attorno ma un po’ goffo nei movimenti. Quella dell’invisibile, insomma, e quella della star. Si potrebbe quasi estrapolare una morale interessante dalla sua storia: la tecnica forse si può insegnare anche a chi superficialmente potrebbe sembrare meno adatto, come fanno in Belgio.