Da Picchi a Di Bartolomei, possiamo dire che il nostro calcio sia stato la culla della figura del libero. Capitano e trascinatore, l’etimologia è riconducibile all’esonero dai compiti di marcatura, potendosi concentrare così su salvataggi in extremis. Ma se l’Europa in generale ha sorpassato l’ultimo uomo arretrato, Makoto Hasebe è stato in grado di far rivivere la coraggiosa filosofia di tale ruolo, scacciando via l’inesorabile crudeltà del tempo che ha rivisitato nettamente la tattica.
Dal Giappone con furore
Un uomo venuto dal Sol Levante, Hasebe, ha sfatato il mito del frenetico progressismo nipponico. Quantomeno in chiave sportiva, resta l’unico esempio del libero attualmente, grazie alla semplice qualità di imparare dai grandi del passato. Alcuni ricorderanno Shizuoka per essere stata la sede del ritiro azzurro durante gli scandalosi mondiali asiatici del 2002, ed è proprio nell’omonima prefettura, precisamente a Fujieda, che il 18 gennaio del 1984 nasce Makoto Hasebe. La sua è una delle città più piccole del Giappone, dove però sembra vi sia una massiccia influenza calcistica. Come la maggior parte dei suoi connazionali, Hasebe si avvicina al calcio nell’ambito scolastico, iniziando ad allenarsi nella Higashi High School. Eppure, a detta di amici e allenatori dell’epoca, Hasebe non era un atleta promettente. Gli stessi insegnanti vedevano in lui un potenziale uomo di governo, date le spiccate doti oratorie che ne facevano, sin da piccolo, il leader indiscusso in ogni attività.

Yakusoku, promessa
Conseguito il diploma, paradossalmente arriva sulla scrivania dell’allora tecnico Yasua Hattori la richiesta degli Urawa Red Diamonds per tesserare Hasebe. In molti erano increduli, poiché il giovane brevilineo era distante da qualsivoglia talento tecnico, tuttavia la pragmatica concentrazione dedicata ai singoli istanti della gara colpisce il club targato Mitsubishi.
Sebbene – libri di storia alla mano – l’accostamento nippo-germanico suggerisca infelici ricordi, la proiezione nel football professionistico apre le porte al suo stretto legame con la Germania. Il suo rituale prepartita è uno sguardo introspettivo nella mentalità giapponese e pesca da quella tedesca: durante la mezz’ora precedente l’arrivo allo stadio alterna profondi respiri a sane letture delle opere di Nietzsche. La matrice culturale ha sempre ricoperto una fetta cospicua della vita di Hasebe, al punto da scrivere un libro. Un milione e mezzo di persone hanno letto “The Order Of The Soul, 56 Habits To Reach Victory”; un assoluto bestseller. Mentre il nichilista gli ha presentato la Germania umanistica, l’uomo chiave nella germanizzazione calcistica di Makoto Hasebe è un ex campione del mondo, piombato nella sua carriera, curiosamente, quando la Die Mannschaft si giocava il quarto trofeo intercontinentale contro Ronaldo a Yokohama. Si tratta di Guido Buchwald, stella dello Stoccarda triste antagonista del Napoli di Maradona in Coppa UEFA, arcigno difensore, che si vendicò sul Pibe de Oro in occasione della finale vinta di Italia ’90. Buchwald è stato senza dubbio fondamentale per Hasebe; sarà il berlinese a provarlo nelle varie sistemazioni del centrocampo, adattandolo talvolta come terzino destro. Nonostante la duttile dedizione, l’habitat naturale di Makoto Hasebe è la mediana difensiva, indistintamente dal reparto di competenza. Un elegante frangiflutti che recupera palloni pensando già alla giocata successiva, compensa la mancanza fisica con un’intelligente visione di gioco, cruciale per velocizzare le trame o prevedere potenziali pericoli. Il percorso che porterà Hasebe a diventare il talento principe in patria culminerà nel 2006, anno in cui toccherà quota 150 presenze in J-League e si porterà a casa ben tre trofei, di cui uno personale: campionato, coppa nazionale e New Hero in quanto miglior giovane. È già evidente che sarà, insieme a Keisuke Honda, il nuovo corso del centrocampo giapponese, orfano di Nakata ma ancora per qualche annata affidato ai vellutati piedi di Shunsuke Nakamura.

Germanizzato
L’equilibratore asiatico attira attenzioni europee e coach Buchwald è pronto a raccomandarlo ai suoi vecchi conoscenti. Il Wolfsburg di Felix Magath decide di ingaggiarlo per poco più di un milione. Spesso inserito come centrocampista basso o da centrale in mezzo a Barzagli e Zaccardo, l’esperienza in Bundesliga di Hasebe si rivela un successo. In realtà, i Wolfe attraversando un florido periodo di grazia, in cui letteralmente strappano il titolo dalle mani del Bayern, consegnandolo al piccolo comune extracircondariale sassone. L’organico che compone quel dream team annovera, su tutti, una delle coppie d’attacco più prolifiche di sempre, ossia Dzeko e Grafite. In sostanza, il successo del Wolsfburg scudettato è racchiuso nei numeri, 80 gol segnati di cui 54 dal tandem, e sulla solidità difensiva, capolista in differenza reti con 39 reti tra fatte e subite.

Dal debutto del 2008, il percorso di Hasebe è stato piuttosto regolare, ha adattato le proprie prestazioni alle esigenze di una rosa in perenne mutamento. Al Meisterschale è seguito il ritorno presso la realtà, fredda e insensibile nei confronti di romantici sognatori che auspicavano l’apertura dell’era Wolfsburg. Invece, complici numerose partenze, Hasebe si è ritrovato a dover occuparsi principalmente di un centrocampo snaturato, in cui si è assunto la responsabilità di mitigare l’esuberante palleggio di Misimovic e l’irruenza di Gentner. Malgrado il brusco risveglio dall’utopia di dominio verde, la Nazionale maggiore ripone in lui enorme fiducia per la spedizione sudafricana. Hasebe si è aggregato fra i Samurai Blu mediante l’occhio vigile di un certo Zico, il cecchino carioca fu il vero promotore di Makoto nell’alta sfera della Japan Football Association. Nel 2010, a 26 anni, diventa il capitano della selezione, guidandoli fino allo sfortunato ottavo col Paraguay perso ai rigori.
Le cose prendono però delle pieghe inaspettate, il Wolfsburg passa di colpo dal palcoscenico stellato della Champions League ai playout in zona retrocessione. L’attimo rappresentativo della completa avaria in cui vaga la squadra è palese nella gara contro l’Hoffenheim del 2011. A dieci minuti dal termine, la partita è sul 2-1 e Magath ha già effettuato tutti i cambi a disposizione per cercare di ribaltarla. A regnare, per gli ospiti, è la confusione. Il portiere Hitz tocca la sfera fuori area con il guantone, e viene espulso, a sostituirlo c’è Hasebe. Il nostro invisibile da appena 178 cm con indosso l’enorme casacca del compagno appena squalificato, è commovente. Bobby Firmino, ancora discontinuo trequartista prima di incontrare Klopp, non si lascia pregare e approfitta della legittima incertezza del trapiantato estremo difensore per insaccarla e vincere la disputa.

Frankforderisch
E’ora di cambiare aria. La scelta di Hasebe è discutibile, vuole ricominciare dal Norimberga, con i granata resta però una sola stagione causa la relegazione in Zweite Liga. Il Mondiale brasiliano, non fortunatissimo, ha in fondo lucidato l’immagine di un Hasebe sulla soglia del tramonto: invece, una delle piazze più calde di Germania, l’Eintracht Francoforte, lo rilancerà.

L’artefice del trasferimento è Niko Kovac. Il Croato ha bisogno di una garante della retroguardia, e non sbaglia opzione. Arretra Hasebe in definitiva al centro della difesa, mettendolo nel fulcro del suo 3-5-2 dove la palla si muove in primis dalle retrovie. Gli affianca Russ, fin quando la malattia non ne condizionerà il rendimento, e Abraham, per non sopperire al gioco aereo. Nel modulo di Kovac, Hasebe ha anche la libertà di poter avanzare sulla metà campo e aiutare i compagni in difficoltà quando il match diventa chiuso e senza alcuno sbocco propositivo, siccome gli esterni, di notevole gamba, si abbassano spesso in copertura. Hasebe migliora la tecnica individuale e il tempismo difensivo, in cui è praticamente impeccabile. Risultato lampante della crescita individuale sono i continui interventi al limite che effettua al fine di evitare un gol, senza badare troppo allo stile.
All’occasione rigorista, si è specializzato nel passaggio lungo in profondità con cui fornisce diversi assist. Culmine della rinascita francofortese è stata l’ultima DFB-Pokal. Makoto Hasebe è difatti la bestia nera dei bavaresi, avendogli sottratto lo scettro per ben due volte. Quest’estate, con l’eliminazione al mondiale da parte del Belgio, ha chiuso la carriera internazionale dopo 114 gettoni raccolti.
Sotto la guida di Adi Hutter sta nascondendo la carta d’identità, documento che oggi alla voce “età” recita trentaquattro. Hasebe è in scadenza di contratto, benché adesso l’Eintracht stia lottando per la supremazia in Bundes e abbia staccato il pass per i sedicesimi di Europa League. Si è aggiudicato, di recente, il Pallone d’oro asiatico, premio che potrebbe spingerlo a tornare in patria. È certo, però, che l’invisibile Hasebe non vorrà lasciare la Commerzbank Arena a mani vuote.