Uno sport sostenibile è possibile.

La crisi climatica è sicuramente il principale problema del nostro tempo, se non altro perché rischia di far sì che altri tempi non ci siano affatto. Le generazioni più giovani sono quelle che sembrano aver recepito meglio la gravità della questione, anche perché sono quelle che hanno più da perdere. Se, quindi, quella climatica è la madre di tutte le battaglie, da essa deve derivare necessariamente un impegno che investa tutti i campi, anche quello da gioco. Perciò, non è più possibile sottovalutare l’impatto ambientale del calcio. Semplicemente non ci possiamo più permettere, come si è fatto per tutto il secolo scorso e anche di più, di far finta che tutto il sistema dello sport – e del calcio, in questo caso specifico – non abbia un peso sull’ecosistema nel quale viviamo.

L’impegno encomiabile di Howedes

Per una valutazione del genere occorre lasciare da parte sia i sentimentalismi di chi ha nel pallone il suo giocattolo preferito – e noi siamo tra questi – e  perciò non vuole che sia toccato, sia ogni forma di benaltrismo, che ritorna sempre più spesso nei dibattiti sul clima. Sì, tutti noi aspettiamo il fine settimana più per le partite che per la pausa da scuola/lavoro.

Sì, sappiamo anche noi che i settori che contribuiscono maggiormente al riscaldamento globale sono altri, ma negare l’impatto ambientale del calcio vorrebbe dire mettere la testa sotto la sabbia e non provare ad attuare, per quanto possibile, quelle modifiche che renderebbero tutto il sistema quantomeno più sostenibile.

 

Qual è l’impatto ambientale del calcio?

Innanzitutto, prima di addentrarci in ogni tipo di valutazione, è necessario chiarire in che maniera il gioco più bello del mondo riesca a procurare danni al pianeta. Per avere un’indicazione più precisa dobbiamo andare a guardare le cifre, nonostante queste siano spesso frutto di stime e varino in base ai parametri dei quali si tiene conto. L’apporto più utile lo forniscono organizzazioni con dimensioni tanto grosse da poter avviare studi esaustivi sul tema. In questo caso, trattandosi di calcio, il contributo maggiore ce lo dà la FIFA.

In vista dei Mondiali di Russia del 2018, infatti, la Federazione Internazionale decise di avviare un programma che aveva come obiettivo principale quello di rendere la Coppa del Mondo un evento più sostenibile possibile. L’iniziativa, soprattutto nelle intenzioni (e già qui si potrebbero aprire migliaia di parentesi), era più che positiva, poiché mirava a migliorare l’impatto del torneo sia dal punto di vista ambientale che sociale ed economico.

Proprio per perseguire questo scopo, la FIFA stessa ha pubblicato nel 2016 un report contenente le previsioni di gas serra e rifiuti che sarebbero stati prodotti dal torneo. Purtroppo, oltre alle semplici proiezioni, dati effettivi non sono stati pubblicati e forse neanche raccolti. Ma, a questo punto, sorgono dubbi circa le reali intenzioni dell’iniziativa dato che, nonostante discorsi di sostenibilità, non ci sono state remore a organizzare i Mondiali del 2022 in Qatar.

Da questo documento è però evidente come l’impatto ambientale del calcio raggiunga livelli spaventosi. Per il solo periodo della competizioni il report stima una produzione di 1.943.000 tonnellate di CO2e (che consiste nel rapportare all’impatto sul clima dell’anidride carbonica quello di tutti gli altri gas serra, così da considerarli insieme). Per capire la portata di un numero del genere, stiamo parlando di circa la metà dell’anidride carbonica equivalente prodotta da Malta in tutto il 2017. Lo studio tiene conto di tutti i fattori che incidono in qualche maniera: dalla costruzione degli stadi ai trasporti usati da squadre e tifosi, dal merchandising ai rifiuti prodotti durante gli eventi fino ad arrivare all’acqua consumata.

 

Sì, ma…

Alcune precisazioni, però, vanno fatte. Innanzitutto è difficile scindere perfettamente i gas serra – o comunque tutto ciò che incide indirettamente sul clima – prodotti dal mondo del calcio rispetto a quelli del resto della società. Ad esempio, se in una città i trasporti pubblici non sono adeguati, così da costringere i tifosi ad andare alle partite in macchina, inquinando quindi di più, la colpa sarà difficilmente attribuibile al calcio inteso come industria e più alla società. Tutto ciò, in realtà, rende la cosa ancora di più complicata risoluzione, perché ci fa capire che, per avere un impatto ambientale del calcio pari ad un utopistico zero, bisogna agire a fondo anche nella società.

Inoltre, va tenuto conto di come il calcio sia una delle industrie principali delle economie occidentali, sia per quanto riguarda la quantità di denaro generata, che per i posti di lavoro ad esso connessi. Sarebbe impensabile pensare di staccare la spina a un settore così importante dell’economia mondiale, senza neanche considerare le implicazioni sentimentali. Ogni conversione green deve preservare il ruolo fondamentale che il calcio ha ormai assunto all’interno dell’economia. In realtà, però, proprio quest’operazione di rinnovamento ecologico può a sua volta generare introiti e occupazione.

Cosa si può fare?

Ogni tipo di proposta deve necessariamente tener conto di quanto detto prima. In ballo non c’è solo questa o quella partita, ma milioni di posti di lavoro di persone che, grazie al calcio, mantengono la propria famiglia. E non sto parlando dei calciatori, che sono un numero piuttosto esiguo. L’impegno deve essere triplice e deve venire da tutte e tre le parti in causa nel settore. In primis dallo stato e dalle amministrazioni cittadine, che devono fare tutto il possibile per far sì che l’impatto ambientale del calcio sia sempre minore. Come? Migliorare il servizio pubblico e fornire incentivi a chi porta avanti una conversione ecologica sono solo due dei modi. Ovviamente i problemi di ogni comunità sono più ampi dei confini del football, ma anche su esso ricadono. Può risultare una vera e propria impresa, ad esempio, usufruire del trasporto pubblico a Fuorigrotta dopo una partita del Napoli.

Ad essere chiamate in causa, per seconde, sono le società. Sta a loro pensare a un mondo del calcio che continui a rappresentare un business, senza però essere distruttivo per l’ambiente. Per ora iniziative ci sono, ma sembrano timidi esordi. In Italia, tanto per cambiare, la più all’avanguardia è la Juventus che, oltre ad aver realizzato la terza maglia con plastica riciclata dagli oceani, ha utilizzato materiali recuperati dal vecchio Delle Alpi per costruire lo Stadium. Un’altra opzione è quella di diminuire l’impatto legato agli spostamenti, preferendo il treno all’aereo, cosa possibile soprattutto su una superficie non immensa come quella del nostro Paese. Bisogna, in generale, rendere tutti gli spazi più appropriati in tal senso. Dove sta scritto che fare la raccolta differenziata allo stadio debba essere per forza utopia?

A dover fare la nostra parte, però, siamo anche noi tifosi. Siamo noi ragazzi, forse più consapevoli del problema rispetto a chi ci ha preceduto. Combattere l’impatto ambientale del calcio vuol dire fare un passo avanti dal punto di vista culturale, il che può essere facile e complesso allo stesso tempo. Dobbiamo capire, ad esempio, che lo stadio non è solo il luogo nel quale andiamo a tifare la domenica, ma è un posto nel mondo e che ogni gesto che compiamo lì ha un effetto sull’ambiente nel quale viviamo. Non fa niente se la nostra squadra ha appena preso un gol, buttare stizziti il mozzicone di una sigaretta a terra non è mai un’azione giustificabile, né tantomeno intelligente. Ogni nostro gesto, anche se ci sembra circoscritto all’ambito del nostro sport preferito, ricade in realtà sul nostro mondo. Non possiamo più permetterci di far finta che non sia così.

Qualche nostalgico dirà che era meglio prima, quando questi problemi non c’erano. In realtà, semplicemente, non ce n’era consapevolezza, che è ciò che noi, forse, ora stiamo acquisendo. Lo sappiamo, il discorso è complesso ed è impossibile scindere lo sport dal resto della società. Il grosso, però, del peso del calcio sul clima è dovuto a un approccio consumistico inconsapevole da parte di tutte le parti in causa. Questo è ciò che deve cambiare. La nostra generazione deve correre il rischio di essere impopolare, ma la chiamata alla responsabilità parte da chi ha più da perdere, parte da noi giovani. Non sono supposizioni: l’impatto ambientale del calcio esiste e fa paura. Abbiamo l’obbligo di combatterlo, per rispetto verso noi stessi e verso il nostro sport preferito.

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