Genova, 14 agosto, ore 10.30. Colto da un improvviso calo fisico, mi appisolo dopo essermi svegliato insolitamente presto; non mi sarei mai aspettato di svegliarmi alle 12.25 e sapere che il ponte Morandi fosse crollato. Era successa la stessa cosa con Astori: una festa tiratardi, sveglia altrettanto tardi, e poi la notizia appresa dalle intasate chat Whatsapp: il destino è crudele.
Ho letto tante cose, tantissime. Mi sono addentrato in un marasma mediatico nocivo per Genova, per i genovesi, per chi vorrebbe scacciare tramite sferzanti pugni nello stomaco il dolore che s’imprigiona nel loro corpo.
E in quel momento, occorre rispetto.
C’è un momento, una linea Maginot, sottilissima, in cui la ventata di disinformazione e sciacallaggio mediatico (e non) non deve spazzare il rispettoso silenzio, il doveroso cordoglio per un figlio, un parente, un amico, una qualunque persona che non potrà più sedere a tavola con i suoi cari. E oggi, in occasione dei Funerali di Stato, Numerosette si ferma.
Procediamo per gradi. Innanzitutto mi scuso per non dare una certa chiarezza al pezzo, ma la mia forte genovesità mi induce a trattare l’argomento con una certa intensità: mentre scrivo, penso a una delle tante vittime, Marius Djerri, attaccante di una squadra amatoriale militante nel mio campionato a 7 che ho affrontato diverse volte. Mi si è gelato il sangue, pensando che sarebbe potuto accadere a un mio compagno di squadra.

Poteva succedere a chiunque. Chiunque, a Genova, poteva transitare in quel momento su quello snodo viario che già nel lontano 2009 era percorso da una media di 25,5 milioni di transiti: ma ecco che ritorna in auge quell’infingarda emotività, pulsante, ricordandomi i viaggi di ritorno dalla Val d’Aosta, con mia madre, la vista di quei cavalletti bilanciati tanto cari all’ingegner Morandi, tanto cari a me. Mi ricordavano che la vacanza era giunta al termine, che era giunto il momento di tornare a casa.
A casa, quelle vittime, non ci sono più tornate.
Ora, non voglio soffermarmi sul dolore delle famiglie, voglio lasciarle il dovuto spazio, magari donandone un abbraccio non rumoroso, ma sincero: non voglio neanche dibattere sulle consuete strumentalizzazioni di alcune forze politiche. Ma soprattutto, non è il momento.
Sono stanco di leggere queste cose. Stanco di trascrivere negazioni in questo pezzo, stanco di negare l’evidenza e soprattutto negare a me stesso che basti veramente un sorriso, una sciacquata di acqua limpida e sorgiva, un tuffo, per dimenticare tutto; qua mi si ritorce contro il mio altruismo, la mia empatia, il mio legame viscerale e catulliano con la mia terra. La amo, e la odio. Eppure, mi rattrista vederla così, mi rattrista vedere sfollati che hanno sudato sette camicie per pagare un mutuo ormai vanificato; verosimilmente, in questo caso, siamo tornati ai patemi dell’alluvione.
E l’alluvione, quella mediatica, ha inghiottito tutta la mia inesauribile pazienza.
Specialmente nel calcio. Ritengo assolutamente sacrosanta la decisione di rinviare entrambe le partite, ma soprattutto Sampdoria-Fiorentina; leggevo di persone che intimavano il non rinvio per devolvere così l’incasso. Chi non vive a Genova, non può tastare la fragilità viaria di questa città. E, cosa non meno importante, soccorritori e ambulanze devono prestare servizio nella zona colpita dal ponte, non allo stadio. Qualunque cosa succeda, la loro forza-lavoro è determinante. Ci tenevo a chiarirlo, mi scuso per il tono forse sprezzante e troppo saccente: ci sono tante cose che non so, io.
Rinviare tutta la giornata, forse, sarebbe stato troppo. Chi non vive qui non lo capisce, ma credetemi, non vi biasimo. Bisogna andare avanti, sarà davvero dura per noi. Genoa e Samp, comunque, dovevano fermarsi. Per carità, alla tragica morte di Astori il calcio si fermò, ma già parliamo di un atleta perfettamente addentrato nel sistema calcio: ripeto, Genova è isolata. Forse per questo nessuno riesce a captare il dolore più di noi.

Siamo isolati ma in un certo senso vicini, tra di noi, non solo tra Genoa e Sampdoria: tragedie come queste non hanno colori.
Oggi ci fermiamo. Ripartiremo dai Funerali di Stato, soggetti a non poche polemiche, anche qui, in parte condivisibili; il dolore di un lutto dovrebbe essere privato, condiviso solo con gli affetti più ristretti. E finisce così, con l’immenso dolore che assume connotati accusatori nei confronti dello Stato stesso. Bisogna riflettere sì, ma non solo perché ci sono i funerali; c’è sempre tempo per riflettere. La riflessione è una delle nobiltà più pregiate dell’animo umano, ma non sempre basta.
Fermiamoci. Già, sarebbe bello godersi l’inizio del campionato come se non fosse successo nulla, sfruttando l’ipnotico potere distrattivo del calcio, il piacere dello sport che amiamo raccontare. Ma qui l’atmosfera è desolante, tetra, pesante.
Ricominceremo, prima o poi, perché la bellezza di un nuovo inizio sta proprio nel poter lasciarsi alle spalle tutto quanto. E non vedremo l’ora, anche noi, di goderci questa nuova Serie A che prende forma. Dobbiamo aspettare, aspettare che la ferita si cicatrizzi, dobbiamo rispettare lo sgorgare delle lacrime. E non dobbiamo sempre mettere in primo piano il calcio.
Non trovo altro da dire. Mi sono preso la responsabilità di amalgamare i miei pensieri, ma forse vi ho fatto perdere tempo. Credetemi, ne avevo bisogno.
Spero un giorno di riguardare queste frettolose parole col sorriso.
Il sorriso di chi potrà dire: Sì, Genova si è rialzata.