Essere Virgil

Virgil Van Dijk è il prototipo del difensore moderno: forte fisicamente, tecnico e bravo tatticamente. Il capitano della nazionale olandese è il simbolo della rinascita degli Oranje, tornati alla ribalta con una nuova nidiata di giovani dopo un periodo di difficoltà.
Dietro all’ascesa nel calcio mondiale del centrale del Liverpool si cela però una storia difficile, che ben ci dimostra quanto larghe siano le sue spalle. Spalle di un vero condottiero, di un vero capitano.

Colpo di fulmine

Capita talvolta di imparare il nome di un giocatore perché in una fredda sera di novembre affronta la tua squadra del cuore. Un giocatore magari in rampa di lancio, finito già nel mirino delle grandi squadre del suo campionato, anche se tu non ne sai niente. Ascolti confusamente quello che il telecronista dice su di lui. Le parole ti arrivano da lontano, sono quasi un brusio indistinto. Sei distratto, concentrato sulla partita.

Poi, succede che quel giocatore lascia il segno in quella partita e il suo nome ti rimane impresso. Dopo la gara, ne perdi le tracce per qualche tempo e quel nome lo accantoni da qualche parte nella memoria. E’ inevitabile, la sua non è una squadra che segui abitualmente. Lo ritrovi nelle notizie di calciomercato qualche tempo più tardi, acquisto di spicco di una squadra importante, e ti ricordi di conoscerlo. Così ho imparato il nome di Virgil Van Dijk. 

Saltare

Ecco dove lo avevo già sentito…

Nell’autunno del 2016 l’Inter affronta il Southampton in Europa League. I Saints sono una squadra ostica e si parla un gran bene di quel ragazzone olandese dai tratti sudamericani (ereditati dalla famiglia originaria dell’ex colonia del Suriname), che veste la maglia numero 17 e la fascia da capitano. Van Dijk viene descritto in telecronaca come un difensore bravo a impostare, molto forte fisicamente e pericolosissimo sulle palle inattive.

Ma in Virgil si individua anche uno dei potenziali punti deboli della squadra. Lui e il suo compagno di reparto Yoshida tendono a distrarsi, possono essere attaccati e possono essere presi in velocità. E’ quello che prova a fare l’Inter, che in qualche modo riesce a portare a casa la sfida di San Siro e a passare in vantaggio in casa degli inglesi. La superiorità di Van Dijk sulle palle alte è però imbarazzante. L’olandese intraprende un duello personale sui calci piazzati con Handanović, costretto in più occasioni a veri e propri miracoli. Alla fine riesce a segnare di piede su un’azione rocambolesca, ma la lezione che ho iniziato ad imparare quella sera, senza esserne consapevole, è un’altra. Essere Van Dijk vuol dire saltare più in alto di tutti. Sempre. 

Virgil

Per andare più in alto di tutti bisogna essere forti. Bisogna avere le spalle larghe e Van Dijk se le è costruite pagando il prezzo della sofferenza.
La sua forza è stata forgiata dall’abbandono. L’abbandono è quello di un padre scapestrato che, quando Virgil e i suoi fratelli erano ancora molto piccoli, è andato via di casa e ha scelto di pensare quasi solo alla sua vita. Un padre che fa questo lascia nel figlio un vuoto difficilmente colmabile. In questo caso, il figlio ha però riempito quel vuoto con la rabbia e il desiderio bruciante di riprendersi con gli interessi quello che gli è stato tolto. Per Virgil poi, salvato dai medici dopo essere stato a pochi passi dalla morte, l’obiettivo è anche far capire a quel padre chi si è perso e che cosa ha abbandonato.

Solo Virgil, perché Van Dijk non lo rappresenta | numerosette magazine

Solo Virgil

Il rapporto padre-figlio ricopre un ruolo centrale in molte culture. Spesso in letteratura, questa dinamica viene analizzata in molte sfaccettature per descrivere la caratura degli uomini. Per esempio, nella declinazione del parricidio, il tema assume addirittura un carattere archetipico. Sappiamo bene i fiumi di inchiostro che Freud ha versato sull’argomento, e sappiamo altrettanto bene quanta importanza questo tema abbia nella letteratura, nelle arti figurative, nel cinema: da Zeus a I fratelli Karamazov, passando per Edipo e fino ad arrivare persino al Genny Savastano di Gomorra. Uccidere il proprio padre, realmente o metaforicamente, non è altro che un modo, talvolta passaggio obbligato, per affermare se stessi. Virgil decide di uccidere simbolicamente, nella sua memoria, quel padre che l’ha abbandonato. O meglio, decide di cancellarlo del tutto, fino a cancellare anche il suo cognome dalle magliette.
Lui ha capito che per essere se stesso non poteva più essere Van Dijk, doveva scegliere di essere solo Virgil.

Pressione

Le sue macroscopiche doti hanno convinto il Liverpool ad acquistarlo per una cifra monstre, più di 80 milioni di euro. Virgil è diventato così il difensore più costoso della storia del calcio e sulle sue spalle si è poggiato un bel carico di pressione. Come se non bastasse, è stato acquistato da una squadra che non si laurea campione d’Inghilterra dall’ormai lontanissimo 1990 e che, fatta eccezione per la League Cup del 2012, è a secco di trofei da oltre un decennio. Giusto per avere un po’ di pressione in più.

Ma essere Virgil, come detto, è avere le spalle larghe, e per lui la pressione pesa di meno. Il battesimo di fuoco con la maglia dei Reds è in FA Cup contro l’Everton, partita discretamente sentita da quelle parti. Al minuto 84 di quel Merseyside Derby, Van Dijk fa quello per cui ho imparato a conoscerlo: salta più in alto di tutti e manda al tappeto i Toffees.
Perché essere Virgil è rispondere così alle aspettative. 

Senza pressione, si vola sempre in alto.

Muro

La crescita di Virgil sotto la guida di Klopp va di pari passo con la crescita dei Reds. La scorsa stagione è iniziata con un Liverpool a due facce: attacco stellare ma difesa a volte troppo permeabile. Quest’ultima è stata traballante proprio fino all’arrivo del centrale olandese. Dal suo esordio in campionato con la nuova maglia infatti, il rendimento difensivo è subito migliorato, tant’è che sono stati solo 10 i gol subiti nella scorsa Premier dopo l’arrivo di Van Dijk alla 24esima giornata.

Quest’anno invece, Klopp sembra aver messo a posto le cose. Il Liverpool ha subito solo 18 gol in 31 partite di campionato ed è ancora in corsa per conquistare quel titolo che manca da troppo tempo. In Champions League, eliminato il Bayern a domicilio, i Reds sono ora attesi dalla sfida tutt’altro che impossibile con il Porto. Dietro la nuova solidità difensiva del Liverpool c’è naturalmente ancora lo zampino di Virgil che, alle sue notevoli doti di difensore moderno, aggiunge un’abilità in marcatura da difensore d’altri tempi. In più non ha ancora saltato una partita, da vero condottiero.
Essere Virgil, quest’anno, significa soprattutto essere un muro.

Van Dijk sarà…

Il colpo di testa che ha deciso la sfida col Bayern.

La partita di ritorno contro il Bayern è una buona testimonianza del fatto che, se il Liverpool dello scorso anno era soprattutto il Liverpool di Salah, quello di quest’anno è soprattutto il Liverpool di Van Dijk. Infatti, nonostante abbia deciso che dalle sue parti non passa più nessuno, continua ad essere incredibilmente decisivo in fase offensiva. Contro i bavaresi, prima serve dalle retrovie a Mané l’assist per il gol del vantaggio, poi, manco a dirlo, salta più in alto di tutti segnando il gol che chiude il discorso qualificazione e coronando una prestazione da 8 in pagella.

L’ascesa di Van Dijk sembra destinata a non potersi arrestare. Il suo destino sembra ormai segnato: essere leader dell’Olanda dei giovani e diventare capitano anche del Liverpool, possibilmente portandolo a quei trionfi che da tanto mancano dalle parti di Anfield Road.
Un disegno al quale lui non sembra aver la minima intenzione di rinunciare.
Perchè sembra che essere Virgil Van Dijk voglia dire soprattutto essere pronto a prendersi tutto ciò che gli spetta e che pareva essergli negato.

 

 

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