C’è una grande, cruciale, differenza tra costruirsi un personaggio ed esserlo spontaneamente. Luciano Spalletti fa parte della seconda categoria di allenatori italiani. Quel cerchio ristretto di figure, profondamente umane, che ogni maledetto weekend si confrontano con i media e le pressioni che esercitano, distaccandosi da una certa retorica adottata dal mondo del calcio.
La Toscana, in questo momento storico per il calcio italiano, rappresenta il punto massimo di espressione di questa umanità. Con pregi e difetti che contraddistinguono una persona messa totalmente a nudo, in un ambiente logorante e spietato come quello dei grandi club italiani.
Spalletti è nato a Certaldo, a pochi chilometri da Firenze, la sua toscanità è estremamente tangibile. Con la stampa usa il suo accento per enfatizzare le sue parole, ma lo fa in modo del tutto naturale. Le sue conferenze pre-partita e le sue interviste post-gara sono un inno al realismo popolare, come quello dei ritratti Pasoliniani o dei film di Nanni Loy.
LUCIANONE ERA
Spalletti ci ha messo del tempo per arrivare ad ottenere il prestigio del grande allenatore. La sua gavetta è il classico curriculum consumato, con all’interno piccoli successi personali, oltre che di squadra, ed altri passaggi a vuoto. Niente di diverso da chi solitamente parte dal basso con l’etichetta di mestierante e arriva al grande palcoscenico, con una dialettica impropria e avversa alle circostanze.
Ha cominciato praticamente da casa sua, ad Empoli. Il Castellani è un passaggio quasi obbligato per l’archetipo di allenatore sanguigno con delle idee di calcio innovative. Passare per Empoli ottenendo buoni risultati è una certifica di discreto valore, come lo dimostrano diversi allenatori che stanno rubando la scena nella nostra Serie A. Il risultato fu una doppia promozione dalla C1 alla Serie A, con tanto di salvezza nella massima serie al primo tentativo.
Lucianone era, ancor prima di Empoli, anche un bel ragazzo figlio degli anni ’80. Un cimelio di rara bellezza interpretativa, che descrive la sua essenza
Il grande trampolino di lancio della sua carriera è Udine, una piazza non troppo differente da quella di Empoli, più importante a livello storico, che tende ad essere un’isola felice dove il lavoro sul campo è difficilmente replicabile altrove. Fino a qualche anno fa, ai fasti dell’era Pozzo, Udine era un microcosmo idilliaco dove poter allenare talenti emergenti e plasmare una squadra per stupire. Una volta lasciata, diventava più che altro una maledizione, un punto di arrivo indesiderato. Allenatori, giocatori, dirigenti: praticamente tutti, colpiti dal sortilegio friulano. Luciano Spalletti è l’unico allenatore passato da Udine, che è riuscito in seguito a fare una carriera gratificante, sulla scia di quanto fatto in Friuli.
Ha portato l’Udinese in Champions League nel 2005, poi ha salutato, senza nemmeno togliersi lo sfizio di superare il preliminare di agosto. Già ai tempi si intravedeva una certa diffidenza con i giornalisti, con i quali è molto disponibile a parlare di tattica, molto meno quando ci sono in ballo situazioni interne allo spogliatoio. Come un presunto diverbio, piuttosto acceso, che ebbe con Marek Jankulovski.
Il primo Spalletti era un pazzo scatenato. Ricordo che in una partita si mise a mangiare un foglio di carta e a Bologna sollevò la panchina con Pierpaolo Marino sedutoci sopra.
Giampiero Pinzi, una vita in bianconero, in un piccolo frammento di follia spallettiana.
ROMA (ATTO I)
Luciano ha la grande occasione della carriera, rilanciare una Roma in profonda crisi d’identità. Dal post-Capello in poi, scelte discutibili e tanta confusione. Il suo rapporto con la piazza giallorossa è qualcosa di poco comprensibile, non è il classico amore e odio come succede per molti. Probabilmente non è mai stato né l’uno né l’altro. Roma ha stimolato ogni singolo aspetto della personalità di Spalletti, dalla sua esuberanza, alla sua saggezza, fino alla sua follia.
Roma lo ha anche cambiato, lo ha esasperato, ma lo ha in definitiva arricchito a livello personale, oltre che consacrato come uno dei migliori tecnici italiani in circolazione. Al di là delle grandi doti umane di cui possiede, Spalletti ha una grandissima capacità di lettura tattica e di problem solving. Non è un camaleontico, è uno scrupoloso sperimentatore.
L’intuizione della sua prima esperienza romana porterà la “Magica” a una striscia di undici vittorie consecutive: Spalletti si inventa Francesco Totti centravanti, ancor prima del falso nueve, condito da un “e sti cazzi” generale riecheggiante da Ostia fino a Fregene. Al netto di una spiegazione tattica ben precisa e funzionale, il capitano giallorosso conseguirà la scarpa d’oro a fine stagione.
Lascerà dopo quattro stagioni esaltanti dal punto di vista del gioco, con due secondi posti, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana in bacheca. Quel tanto che basta per spazientire un ambiente pressante che vuole tornare a vincere. Spalletti è pronto alla prima esperienza all’estero: stipendio ottimo, clima da rivedere. Andrà allo Zenit San Pietroburgo, ci rimarrà per 4 anni, e quando tornerà non sarà mai più quello di prima.
ROMA (ATTO II)
Spalletti ritorna a Roma, nell’inverno del 2016, ancora una volta da perfetto Mr.Wolf. La squadra è reduce da un anno deludente con Rudi Garcia, dopo una prima stagione invece molto incoraggiante. Lucianone ha la barba incolta, un paio di campionato russi in bacheca e qualcosa di diverso dentro di sé. Torna nella città eterna con un desiderio quasi compulsivo: vincere, ad ogni costo.
Il conto da pagare si chiama Francesco Totti, ed è piuttosto salato. Il capitano giallorosso viene escluso dai titolari sin da subito, sembra una decisione definitiva, e lo sarà. Totti sta per compiere 40 anni e non può garantire una tenuta fisica adeguata per gli equilibri della Roma spallettiana. Da qui in avanti, per oltre un anno, si ingaggerà uno scontro feroce e controverso, che coinvolgerà i due diretti interessati, i giornalisti, perfino questioni personali e familiari.
Lucianone show
Spalletti è consapevole di quel che rappresenta Totti, non solo per la squadra, ma per l’intera città, ma ritiene necessario arrivare a questo doloroso epilogo. Che a Roma, inevitabilmente, significa guerriglia. I 4 anni in Russia sembrano averlo metaforicamente addestrato, Lucianone si sa difendere con le sue armi migliori. La dialettica e la coerenza, prima ancora che una fame di vittorie che mai aveva avuto prima.
Roma secondo atto descrive perfettamente l’umanità del personaggio Spalletti, ferito ma determinato. La teatralità con cui affronta i giornalisti ad ogni conferenza stampa toccherà degli apici che in Italia si sono visti soltanto con Josè Mourinho, con il quale guarda caso, va abbastanza d’accordo. Dichiarerà che la sua permanenza è legata alla vittoria del Campionato, in maniera abbastanza esplicita. Cercherà più volte di spiegare a stampa e tifosi che la situazione di Totti è del tutto inconsistente rispetto all’effettivo traguardo del club. Ma finirà egli stesso per esserne risucchiato, esasperato dalla situazione, non rinunciando talvolta ad atteggiamenti provocatori. Come il mancato ingresso di Totti nella sua ultima partita a San Siro con risultato della Roma ormai acquisito.
LUCIANONE SARÀ
Lo Spalletti che stiamo ammirando alla Pinetina è la versione probabilmente definitiva. Un uomo che ha trovato un terreno fertile in un club che ha smarrito la propria identità. All’Inter Spalletti è libero di costruire e plasmare la squadra a suo piacimento. Il risultato è una squadra prima in classifica, di cui si denota un calcio estremamente semplice ma funzionale. Una squadra in cui, finalmente, si può notare senza sfumature esterne il lavoro tattico e mentale di un allenatore estremamente abile nel problem solving. Il connubio tra Spalletti e l’Inter è, fin qui, un incastro perfetto. Una squadra malata cronica che incontra uno sciamano guaritore.
Nel vocabolorio sciamanico di Spalletti significa “gestione del match”
Mentre quello visto alla Roma era più che altro incazzato, la sua versione nerazzurra appare estremamente determinata, a tal punto da trascendere il contesto ambientale fino a neutralizzarlo. Luciano Spalletti all’Inter sembra posseduto, con lo sguardo assatanato e una vocazione esoterica.
La sua grande capacità di adattamento alle situazioni, come applicare il miglior sistema di gioco in base alla rosa a disposizione, sembra trovare riscontro anche nel rapporto con i media. Spalletti si adatta al contesto, facendo suo il mezzo, giocando ad armi pari. Se c’è aria di guerriglia, non si depone l’ascia. Se c’è tranquillità, si legge Siddharta dopo la rifinitura e poi si va a parlare con i giornalisti.
No, Luciano. Tranquillo, ti voglio bene.