Premessa: il pezzo che state leggendo nasce da un dialogo, nonché dall’intenzione di dimostrare a qualcuno qualcosa di cui si è fortemente convinti. Nasce dallo sdegno immediato provato al sentir affermare che “Fabregas non è un buon centrocampista, nel senso che è sopravvalutato”, e dalla volontà di fare da scudo ad un calciatore che, a livello personale, sta attraversando negli ultimi mesi il periodo professionalmente più difficile di una carriera intera.
Se da un lato il processo di rivalutazione in negativo di Fàbregas è giustificabile (se non altro perché ci sta lentamente disabituando a colpi che un tempo erano all’ordine del giorno), dall’altro è profondamente scorretto nei confronti del giocatore stesso parlare di super valutazione. Per quale motivo? Uno su tutti: Fàbregas merita rispetto. Lo merita per ciò che ha dimostrato con continuità nel corso degli anni a prescindere dal variare delle maglie indossate, e lo merita per il nome che porta sulle spalle. Un nome che – sia chiaro – si è costruito da solo, mattone dopo mattone.
FÀBREGAS ERA
Appena sedicenne. Quando? Il 23 ottobre del 2003, quasi tredici anni fa. In che occasione? League Cup, Arsenal-Rotheram United. L’esordio concessogli da Arsène Wenger lo portò ad iscrivere il proprio nome in cima alla lista dei più giovani Gunners ad aver giocato in prima squadra. Era esile, e per forza di cose ancora non sviluppato, motivo per cui la stampa britannica ebbe qualcosa da obiettare (per usare un eufemismo) contro colui che nelle gerarchie del centrocampo avrebbe dovuto prendere il posto di vice-Vieira. E lui? Una scrollata di spalle, a testa alta come i più grandi.
Nonostante le premesse fossero ambigue, già a partire dalla stagione successiva (2004/05), Cesc fu impiegato in pianta stabile nell’undici titolare. A maggio registrerà quasi cinquanta presenze totali, tra Premier League, Champions e Coppa di Lega: non un dato banale, se si considera che la suddetta stagione vedeva i Gunners campioni in carica in Inghilterra e dunque ben più irrigiditi dalla pressione rispetto agli anni successivi.
Fàbregas, sostanzialmente, non è mai rimasto seduto in panchina, anzi: dalla stagione dell’esordio in poi ha costituito una delle maggiori certezze per Wenger. Che, quattro anni dopo, gli legò all’avambraccio la fascia da Capitano, ereditata da Willy Gallas. Si era appena conclusa un’annata a dir poco travagliata, che cominciò con due addii illustri (quello del vicepresidente David Dean e quello di un pezzo grosso come Thierry Henry) e tutt’altro che indolori, durante la quale un giovane Fàbregas poté iniziare a comprendere che cosa significasse assumersi le proprie responsabilità – e anche parte di quelle altrui – all’interno del gruppo di cui andava piano piano diventando uno dei leader.
Paradossalmente fu proprio quella (2008/09) la stagione in cui i numerosi sciagurati infortuni cominciarono ad abbattersi su di lui: tendiniti, problemi alla coscia e l’infortunio ai legamenti pregiudicarono forse il periodo più delicato della sua carriera, accompagnandolo di pari passo fino al dicembre del 2012. Da lì in poi (facciamo gli scongiuri) il buon Cesc ha sempre goduto di buona salute.
Ad essere onesti, in realtà, qualche gara (sette, per la precisione) è stato costretto a saltarla anche nei tre anni di Barcellona. Le ragioni che lo hanno spinto a tornare al Campo Nou sono alla luce del sole, così come tutti sanno che per farlo arrivò addirittura a decurtare il suo stesso stipendio. Come a dire: fermatemi, se ci riuscite.

Il (secondo) periodo blaugrana ha rappresentato l’apice della prolificità di Cesc: 15 reti il primo anno, 14 il secondo e 13 il terzo, per un totale di una media monstre pari a quasi un gol ogni tre partite. Ho sempre pensato che la sua avventura spagnola sia stata meno longeva di quanto lo era in potenza a causa del triplice cambio in panchina che sconvolse in un migliaio di giorni la perfetta armonia instaurata da Guardiola. Quando Fàbregas arrivò, nell’estate del 2011, Pep stava già prendendo in considerazione l’idea di concedersi un anno sabbatico, mentre tra il 2012 e il 2014 si succedettero (per un motivo o per un altro con risultati al di sotto delle aspettative) Tito Vilanova e Gerardo “Tata” Martino. Un triplice cambio che indubbiamente deve aver ostacolato il raggiungimento della necessaria stabilità personale all’interno del contesto Barça.
Cesc Fàbregas interpretava il ruolo del centrocampista in maniera differente da quella a cui, come anticipato nelle prime righe, ci sta abituando. Era naturalmente più veloce e veniva impiegato in posizione più avanzata, fattore determinante per il netto calo dal punto di vista realizzativo che, nei due anni a Stamford Bridge, è diventato un dato di fatto. Se prima era una mezz’ala offensiva o un trequartista, adesso è un regista, un mediano. Da quando è tornato a Londra fa meno assist e meno gol, e negli ultimi dodici mesi si è amalgamato in tutto e per tutto alla linea declinante della sua squadra. È quindi davvero giusto, alla luce dei fatti, affibbiargli l’etichetta di calciatore sopravvalutato?
FÀBREGAS È
Un centrocampista che si sta stabilizzando su buoni livelli. Non trascendentali, ma su buoni livelli. Sta indubbiamente attraversando un periodo complesso della sua carriera, un periodo che – come molti di noi – probabilmente non si sarebbe mai aspettato di dover attraversare. D’altronde il suo essere stizzito non è poi così fuori luogo: parliamo di un calciatore che, a trent’anni da compiere, vanta già ben oltre cinquecento presenze con tre tra le maglie più prestigiose del mondo, con indosso le quali ha segnato una caterva di reti.
E – vietato trascurare! – servito tantissimi assist. Il suo modo di calciare la palla a scavalcare la linea dei difensori è letteralmente unico. Non è un caso se moltissimi dei suggerimenti vincenti originati dal suo destro sono riconducibili all’esempio sottostante.

Troppo spesso viene dimenticata la natura di Cesc Fàbregas, ed altrettanto troppo spesso si sottovaluta quanto la continuità di minutaggio sia importante per valutare un giocatore del suo genere. Questo inizio di stagione, ad esempio, non lo ha certo aiutato: Conte ha fatto di tutto per portare Kanté a Londra e ha deciso di affiancarlo a Matic sin dalla prima giornata, non rinunciando neppure ad Oscar sulla trequarti. Dunque Fàbregas (che l’anno scorso, tra l’autunno di Mourinho e la gestione Hiddink, ha saltato soltanto quattro partite) si è trovato tagliato fuori, e senza poi più di tante possibilità di obiettare.
Fino ad una settimana fa aveva trovato spazio nell’undici titolare soltanto in occasione delle gare di Coppa contro Bristol Rovers (3-2) e Leicester (4-2, con tanto di doppietta, assist e palma di man of the match). Dopodiché, dopo avergli concesso soltanto trentadue minuti nelle prime cinque giornate di Premier, Conte lo ha schierato dal primo minuto nella débâcle contro l’Arsenal, richiamandolo in panchina dopo appena 10′ dall’inizio della ripresa. Non esattamente il massimo per il morale di un giocatore che da dodici anni a questa parte è considerato praticamente indispensabile da chiunque.
La tendenza a ricoprire il campo nella sua interezza (caratteristica che lo contraddistingue più o meno da sempre) lo porta ad essere ancora identificato come un todocampista. A cambiare sono però i ritmi: Fàbregas si muove nelle stesse zone di campo in cui si è sempre mosso, ma lo fa con velocità ridotta e a passo più ragionato. È meno esplosivo, quasi come fosse invecchiato prima del tempo dovuto: è questo, se vogliamo, uno dei campi in cui perde più punti di fronte allo sguardo severo di Mister Conte.
FÀBREGAS SARÀ
Un giocatore umile e ritrovato, che condurrà il Chelsea verso i piani alti della Premier League forte della fiducia incondizionata del proprio tecnico. Questo, almeno, è ciò che si augurano dalle parti di Stamford Bridge.
Più nel dettaglio tecnico, invece, sarà sicuramente un giocatore statico, uno di quelli a cui dai il pallone per metterlo in cassaforte. Uno di quelli che non hanno bisogno di macinare chilometri sul campo, perché lo fanno con i piedi e con il cervello. Sarà un trequartista o un mediano basso, sicuramente non una mezz’ala.
D’altronde, caro Cesc, gli anni passano per tutti.
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