Quando lo vedevo allenarsi volevo morire. Diego Costa non si fermava mai, la sua influenza positiva contagiava tutta la squadra. Era assurdo.
Diego Simeone
C’è un bel romanzo del 1884 che si intitola “À Rebours“, “Controcorrente“. Lo ha pubblicato il parigino Joris Karl Huysmans, e in Francia ha la stessa importanza che da noi viene attribuita al Piacere di D’Annunzio.
Il protagonista è un giovane carico di dilemmi, che impiega la vita a fuggire da tutto ciò che conosce. Si chiama Des Esseintes ed è un tizio emotivo, inquieto, talvolta brutale, incapace di stare in mezzo agli altri, troppo eccentrico e troppo goffo per appiattirsi nella ville des lumières.
Chi l’avrebbe mai detto che un romanzo dell’estetismo francese sarebbe stato la metafora perfetta per descrivere uno dei calciatori più discussi degli ultimi quindici anni?

Controcorrente
Diego Costa è sempre andato controcorrente. Per una curiosa associazione involontaria, questo pezzo di verità affiora tra i miei pensieri mentre rileggo À Rebours di Huysmans. Un calciatore itinerante, un ossimoro vivente, sempre al centro dei riflettori, ma quasi mai per il motivo giusto. Ma soprattutto, un attaccante in fuga da sè stesso.
Se Des Esseintes nasce a Parigi, Diego Costa non ha questa fortuna. Lui, come tanti altri, fa parte del sottoproletariato brasiliano, senza nome e senza prospettiva, che ha solo due possibilità per migliorare la propria esistenza. Il contrabbando e il calcio. La via facile, il sentiero tortuoso.
Diego è ancora giovane quando decide, per la prima volta, di andare controcorrente. Ha solo quindici anni quando suo cugino lo invita a lasciar perdere il calcio: vendendo merci di contrabbando si guadagna cinque volte lo stipendio di un calciatore di buona categoria. Ma Diego Costa è testardo, e ha negli occhi una determinazione che sfocia già nell’ossessione. Si è convinto di essere un grande calciatore. E lo diventerà.

Il romanzo di formazione
Il primo contratto di un certo livello lo firma a 18 anni. Deve allontanarsi dal Brasile e si accasa allo Sporting Braga, che milita nella seconda divisione portoghese. La lingua è più o meno la stessa, fa un po’ più freddo e c’è meno gente che campa con il contrabbando, tipo il cugino. Diego Costa è un giovane non molto aggraziato ma determinato come pochi. Sa di non avere il talento cristallino di altri che già sfrecciano verso i grandi club, ma lui va controcorrente, è nella sua natura.
Stagione dopo stagione, Diego continua a credere nel suo sogno, come nei migliori romanzi di formazione. Prestiti, cessioni, panchine; la prima giovinezza la passa praticamente in aereo, girando mezzo Portogallo nell’attesa della famosa esplosione, che però rischia di non verificarsi mai.

Più che una ricerca dell’opportunità, però, la sua sembra una fuga. Come quella di Des Esseintes. Diego Costa non trova nessuno che si fidi delle sue capacità. Litiga con tutti: i compagni di squadra, che non ci mettono il suo stesso impegno. L’allenatore di turno che lo fa marcire in panchina. La dirigenza che non ci crede quando lui afferma che diventerà uno degli attaccanti più forti del mondo. Con regolarità, ogni sei mesi, Diego Costa fa i bagagli e presenta le sue speranze a qualcun altro. Intanto gli anni passano.
Ormai ne ha venticinque quando parte l’ultimo treno per una grande carriera.
In fuga, insieme
Diego Costa è un classe ’88. A venticinque anni, la maggior parte dei suoi coetanei più famosi avevano già vinto trofei prestigiosi. Agüero, Lewandowski, Di Maria, solo per citare i più famosi. Lui invece arrivava da una buona stagione al Rayo Vallecano, e sembrava l’unico a non essersi arreso a una buona carriera da gregario, onesta e senza troppi grilli per la testa.
L’Atlético Madrid se lo riprende, ma la dirigenza non è entusiasta di un giocatore goffo, poco brandizzabile. Un attaccante che non ricorda affatto l’eleganza di Forlán o la forza di Agüero, e neanche la sopraffina rapacità del Radamel Falcao ammirato a Madrid. Diego Costa dà l’impressione di essere finito al Calderón per sbaglio, quasi fosse saltato giù dagli spalti per giocare una partita coi suoi idoli. Solo un allenatore pazzo come Simeone poteva vedere in Diego Costa il futuro. Non solo per lui, ma per tutto quel movimento calcistico oggi noto come cholismo.
La filosofia di Simeone non poteva esistere senza calciatori come Diego Costa. Su di loro, sul loro carattere, el Cholo ha costruito le fortune di un intero club. Ne ha fatto una ragione di vita. Con i suoi eccessi e le sue scorrettezze, l’attaccante brasiliano rappresenta la miseria e la nobiltà di una delle squadre più rivoluzionarie degli ultimi dieci anni.

Esilio londinese
Non sorprende che Diego Costa se ne sia andato da Madrid con grande rammarico. Per la prima volta (a venticinque anni) aveva giocato una stagione da titolare, allenato da chi credeva ciecamente nelle sue potenzialità e nel suo modo di giocare a pallone. E finalmente aveva ottenuto un grande successo, con quella Liga 2013/14 che porta soprattutto la sua firma.
La cessione al Chelsea lo catapultò in un altro universo calcistico, fatto di una foga diversa, molto poco sudamericana.
Diego Costa fa coppia con Hazard nel primo scudetto di Conte. I blues triturano la Premier League con un 3-5-2 molto poco britannico, ma qualcosa, sotto, ribolle. Diego Costa sta guidando una rivolta contro l’allenatore. Ma è una voce isolata. La verità è che Conte gli dà fastidio, perché Conte non è un sergente come Simeone, è un generale, e vuole tutti in riga, senza nessuno che si permetta di fiatare.
Al secondo anno, l’incantesimo si rompe. Diego Costa viene considerato un elemento destabilizzante e finisce fuori rosa. Ormai è vicino ai trent’anni, e se comincia a fare panchina corre il rischio di venire accantonato dalla nazionale prima, e dal grande calcio poi.
E dove poteva andare, se non alla corte dell’unico coach che abbia mai creduto veramente in lui?
Quanto è difficile essere Diego Costa
Il guaio del calcio televisivo è che appiattisce la vita dei calciatori ai novanta minuti di gara. Diego Costa, sul teleschermo, è un giocatore che non passa inosservato. Ha una corsa lievemente ingobbita, cerca sempre la provocazione con gli avversari, e se gioca fuori casa vuole lo scontro col pubblico. Non di rado se l’è presa anche coi compagni di squadra, dando l’impressione di essere un fanatico.
La verità è che, come Des Esseintes, Diego Costa è dovuto sempre andare controcorrente. Mentre il protagonista di Huysmans si è lasciato consumare dalla sua fuga, finendo preda della nevrosi, Diego Costa ha trovato sfogo nel pallone. Ogni contrasto, ogni tiro in porta rappresentano per lui un gradino da salire per l’ascesa sociale sua e del sottoproletariato da dove proviene. Ogni allenamento è la chiave di volta per la vita. Ogni singolo secondo sul campo da calcio è lì per essere riempito da un atto eroico.
Sempre, e solo, controcorrente
Ma nel calcio, si sa, la foga gioca brutti scherzi. Diego Costa ha costruito una carriera intera sulla sua voglia di sfondare, aggredendo qualsiasi pallone, ma molte volte non è stato capace di controllarsi, andando oltre i limiti. Perché la foga non può essere tutto. Non è difficile ricordare le espulsioni rimediate in Inghilterra, o quella finale di Champions abbandonata dopo dieci minuti, a causa di uno stiramento.
Diego Costa non ha il talento di tanti suoi coetanei, questo è innegabile. Col tempo ha affinato la sua tecnica ma rimane forte l’impressione di una struttura costruita col sudore. La sua qualità migliore è da ricercare nella grinta, che molte volte sfiora l’ossessione. E se questo significa essere deriso dai tifosi per la corsa ingobbita, ben venga. Se diventare the most hated man in London significa sfondare i cancelli dell’Olimpo del calcio, Diego Costa non esiterà neppure un secondo.
Una difficile eredità
Nell’ultima partita di campionato, Diego Costa ha dato forse uno degli esempi migliori della sua sofferta personalità calcistica. Per 77 minuti ha sofferto la gabbia del Barcelona, cercando rogne in mezzo a Umtiti e Pique. Ha litigato praticamente con tutti, aveva gli occhi iniettati di sangue e dava l’impressione di voler innescare una rissa colossale. Poi si è inventato un gol che consegnava a un Atlético in trincea un inatteso vantaggio.
A un certo punto, l’ennesimo contrasto di gioco gli ha fornito l’occasione per andare a muso duro con Umtiti. A quel punto Griezmann, che è francese e con il centrale del Barcelona ci ha vinto un mondiale, ha preso da parte il connazionale e ha cercato di calmare le acque. Diego Costa, a quel punto, è esploso. Le telecamere lo hanno inquadrato mentre diceva: “Sono IO il tuo compagno di squadra! Non lui!“.
Lo ha urlato con rabbia, mentre Griezmann portava l’indice alla tempia e lo invitava a usare il cervello, a ragionare. In quel gesto è racchiusa tutta la carriera di Diego Costa. La frustrazione di chi ha sempre creduto da solo ai propri sogni, l’isolamento in cui spesso ha vissuto giorno dopo giorno, a causa della foga che ha sempre dovuto mettere in ogni cosa.
Diego Costa sarà…
Calciatori come Diego Costa sono sempre più rari. Il mondo del calcio ha uno schema ben preciso, che lo porta a selezionare uno stock di giocatori di talento scremando poi quelli che non superano determinate attitudini atletiche. Il percorso contrario (specie per un attaccante) è sempre più raro: Diego Costa, infatti, ha costruito un fisico prepotente e solo in un secondo momento ha aggiunto doti tecniche sempre più raffinate.
La sua carriera è stata sempre controcorrente. A partire dalla nazionale, Diego ha spesso rinnegato sé stesso e le proprie origini. Come quando ha preferito la Spagna al Brasile, prendendo parte alla disastrosa spedizione del 2014. Forse, solo al fianco di Simeone si è davvero potuto esprimere al massimo potenziale.
Certo, le telecamere hanno inquadrato molti gesti scorretti. Intollerabili, ingiustificabili, inammissibili neppure nella più frustrata delle situazioni. Sarà per questo che Diego Costa ha fatto fatica in Inghilterra, dove gli sportivi sono sportsman, che è un termine coniato da gentleman, e implica tutta una serie di codici non scritti.
Diego ha vinto quello che poteva vincere, ha dimostrato che col talento non si nasce, ma lo si coltiva giorno dopo giorno. E’ stato l’uomo-simbolo del cholismo, probabilmente il più interessante apostolato calcistico, in opposizione a Guardiola e Sarri. Nei prossimi anni, quando il suo fisico comincerà a chiedere dazio dei tanti sforzi, le sue escandescenze potrebbero aumentare di numero. Resta l’impressione che la maggior parte dei tifosi non abbia capito che la rabbia, la cattiveria di Diego Costa erano (almeno in origine) energia positiva.