Essere Pirlo

Tanto vale bersi l’oceano con un cucchiaino piuttosto che discutere con un innamorato.

Stephen King

Lo dice anche uno dei più grandi scrittori dei nostri tempi: mai dare retta agli innamorati. Parlano senza cognizione di causa, sono accecati dalla bellezza.

Eppure, nonostante gli avvertimenti di Stephen King, eccomi qui, pronto a scrivere sul calciatore che più di tutti mi ha fatto amare il calcio. Quello che per (quasi) tutta la carriera ha indossato la 21 sulle spalle con leggerezza, quasi con indifferenza. Uno dei più grandi pensatori del calcio giocato, un ragioniere euclideo nel cerchio di centrocampo.

Andrea Pirlo ha detto basta. E noi partiremo proprio da quest’ultima immagine per cercare di capire chi abbiamo di fronte.

Il principio della fine

8 novembre 2017. Un signore di 38 anni, distante tremila chilometri da casa, saluta una folla vestita di azzurro unanime. Si trova dentro uno stadio. Piove. Appenderà gli scarpini con una sconfitta.

Ultima partita di Andrea Pirlo | numerosette.eu
L’ultima partita di Andrea Pirlo. Il New York City F.C. è stato eliminato dalla Columbus Crew in semifinale di East Conference.

Voglio cominciare dalla fine, dall’epilogo di una straordinaria carriera. Perché persino nel dire “basta” Pirlo ha dato l’ennesima dimostrazione della propria personalità. Si è ritirato quasi con imbarazzo, in silenzio, pareva che non volesse prendersi il palcoscenico. Niente guardia d’onore, niente parole al pubblico, niente riconoscimenti fastosi.

Ha lasciato il campo come un gregario qualunque.

Andrea Pirlo non ha provato l’amore viscerale di Totti, o la fedeltà di Del Piero. Andrea Pirlo è stato un calciatore di pensiero. Un pitagorico. E come tutti i pitagorici seguiva un culto superiore ad ogni altra cosa: per lui il calcio trascende i colori delle maglie e diventa filosofia agonistica, per lui conta trovarsi in una squadra adeguata, capace di vincere e di metterlo nelle condizioni di fare la differenza. Ecco, dunque: forse abbiamo scoperto il suo segreto. Pirlo è un pitagorico. Pirlo, in mezzo al fango di un campo di calcio, trascende. Ha una sua dottrina, una sua filosofia.

E proveremo a carpirne i gelosi segreti.

Punizione Pirlo | numerosette.eu
Primo segreto di Pirlo: saper piazzare il pallone nell’unico angolo che il portiere non può fisicamente coprire. Possibilmente da 35 metri.

Pirlo il pitagorico

Che Andrea Pirlo abbia avuto un atteggiamento disincantato verso il mondo (del calcio) non è un mistero. Già agli esordi, quando giocava con la Reggina e soprattutto con il Brescia di Roberto Baggio e Joseph Guardiola, diceva ai giornalisti di non temere la pressione dei grandi stadi e di non essere spaventato da San Siro, vero e proprio gigante del tifo. Se Pirlo ha vissuto la sua carriera da calcolatore impassibile, però, non lo deve solo alla sua indole personale.

Pirlo e Baggio al Brescia | numerosette.eu
Gennaio 2001. Pirlo passa dall’Inter al Brescia in prestito. Qui avviene la prima metamorfosi tattica del giovane adepto di Pitagora.

Come tutti i pitagorici, Pirlo ha avuto bisogno di mentori e di uomini capaci, profondi conoscitori del calcio, in grado di tramandare preziosi segreti. Ne abbiamo già citati due: Baggio, che forse è stato il più grande pitagorico della generazione precedente, e Guardiola, che è un vero e proprio sciamano del football. Entrambi grandissimi giocatori, entrambi filosofi giramondo. A loro modo hanno saputo comunicare al giovane Andrea il valore della ragione in un gioco tutto muscoli ed emozioni.

Alla corte di Brescia

Brescia in quegli anni era una specie di corte rinascimentale, dove il calcio era divenuto importante quanto la filosofia. L’iconica maglia azzurra con la V bianca è stata indossata da grandissimi giocatori, in un periodo (gli anni ’90) in cui la qualità delle “piccole” in serie A era straordinariamente alta.

Ma il calcio italiano non è fatto solo di filosofi, ci mancherebbe. E infatti Pirlo ha avuto un terzo mentore in gioventù, un uomo che di pitagorico aveva poco, o quasi nulla. Parliamo di Carlo Mazzone.

Mazzone sarà per sempre citato nelle antologie calcistiche per l’intuizione che lo ha portato a spostare Pirlo dalla trequarti alla mediana. Forse per affinità pitagorica, forse per puro calcolo matematico, Mazzone lo ha messo davanti alla difesa: lontano dalla frenesia dell’attacco, dalle marcature serrate delle linee difensive. Lontano, stoicamente lontano dalla confusione: Pirlo in mediana è come mettere un cecchino sul campanile di un borgo della Normandia. Diventa letale, perché vede tutto e ha un vantaggio strategico sugli altri. Pirlo non è mai stato un dribblomane, né un attaccante della profondità. Pirlo ragiona. Quando protegge la palla e fa girare una squadra intera, applica i principi della perfezione pitagorica. Mazzone, anche senza essere un cultore della filosofia presocratica, ci ha fatto inconsciamente un grande favore.

Pirlo e Baggio al Brescia | numerosette.eu
Secondo segreto di Pirlo: il lancio verticale a pescare la punta che si muove a mezzaluna. Poi, se la punta si chiama Roberto Baggio, esce una meraviglia di questo genere.

Pirlo l’ignifugo

Accecati dai successi che Pirlo ha conseguito con le maglie del Milan e della Juventus, tendiamo a dimenticarci del suo periodo all’Inter. Un paio di stagioni difficili, in cui nessuno capì la sua profonda vocazione filosofica. Arrivò giovane, e non lasciò quasi traccia.

Pirlo e Ronaldo | numerosette.eu
“Penso, dunque gioco” è il titolo dell’autobiografia di Andrea Pirlo. All’Inter ha lasciato un paio di giocate memorabili, ma giocando sempre fuori ruolo non ha reso come avrebbe potuto. In questa foto è assieme ad un altro giocatore discreto.

Ma la cosa più importante è che Pirlo non ha perso se stesso, nella Milano nerazzurra. Tutti noi sappiamo che l’Inter vanta la triste fama di ammazza-giovani: quanti talenti si sono bruciati da quelle parti? Il merito di Pirlo è stato quello di passare indenne tra i nerazzurri, di ascoltare le sirene del fallimento, ma di passare oltre. Un po’ come Ulisse, che era il predecessore, guarda caso, di Pitagora. Entrambi uomini d’ingegno, superiori ai loro simili nella battaglia.

Perché Pirlo è sempre stato questo: superiore. Un giocatore che ha viaggiato sempre alla stessa velocità, senza scatti o allunghi brucianti. Perché la sua velocità era tutta mentale e d’esecuzione. Il suo classico lancio dalla trequarti, che fece la fortuna di Ancelotti e Conte, è qualcosa che trascende le normali regole del gioco. Questo è Pirlo: l’applicazione pitagorica nel calcio.

Pirlo all'Inter | numerosette.eu
Siamo nella stagione 2000/01. Pirlo, seppure fuori posizione, ci mostra il suo colpo più classico: protezione della palla in orizzontale, fino a trovare l’imbucata perfetta per l’attaccante. A proposito, quello che si inserisce è un certo Vampeta (a proposito di ammazza-talenti).

La radice di due

Purtroppo, la storia di Pitagora è avvolta nella leggenda. Non sappiamo bene che fine fece, ma sappiamo invece che cosa ne fu dei suoi discepoli. Si dice che un giorno, un giovane adepto sia arrivato dal maestro ponendo un quesito terribile: come si misura la diagonale di un quadrato? Fu l’inizio della fine. La morte dei numeri razionali, la radice quadrata di due: un quesito ingenuo che mandò all’aria una delle più grandi teorie filosofico-matematiche dell’Occidente.

Pirlo al Milan | numerosette.eu
Pirlo nei suoi anni al Milan. Giocatore sopraffino, cuore pulsante della manovra offensiva rossonera.

La storia di Pirlo, per fortuna, è andata diversamente. La sua radice di due è stata l’esperienza all’Inter, dove Hodgson gli ripeteva che non avrebbe mai fatto fortuna in una grande squadra. Pirlo è rimasto sé stesso, fino a quando il tempo gli ha dato ragione: al Milan, da mezzala, ha fatto parte di una delle squadre più vincenti della storia, alzando per ben due volte la coppa dalle grandi orecchie. Il Milan di allora, quello guidato da un altro Pitagorico come Ancelotti, era una squadra dal tasso qualitativo impressionante.

Ma se Kakà, Sheva e Inzaghi giravano a meraviglia era perché, alle loro spalle, c’era un grande architetto.

Se vuoi una squadra pitagorica, hai bisogno di un cervello in mezzo al campo, di un adepto che porti avanti la tua filosofia. Ancelotti l’ha trovato nel suo 21. Due cifre che, nel mondo pitagorico, significano tutto.

Pirlo e Inzaghi | numerosette.eu
Cosa succede quando metti assieme un mediano pitagorico e un centravanti dai movimenti assassini? Semplice: vinci la Champions League. Con passaggi verticali come questo.

Pirlo e la furia nel calcio

Con questo titolo un po’ stridente, invece, voglio parlare di quello che accadde negli anni della panchina al Milan e del trasferimento alla Juventus. Tutto comincia e finisce con Massimiliano Allegri, che nel 2010 passa dal Cagliari al Milan. Nel suo modulo non c’è spazio per le idee: nel 4-3-1-2, il rombo in mezzo al campo è fatto di faticatori, il cui unico scopo è quello di rompere il gioco avversario, verticalizzare per Ibrahimovic e accompagnare l’azione. Quel Milan vinse lo scudetto nel 2010/11 e ne fu simbolo Nocerino, secondo miglior marcatore dei rossoneri, che marchiò il tabellino per 11 volte prima di scomparire nell’anonimato. Il primo Allegri, versione 2010/11, era l’esatto contrario dei pitagorici, radicalmente opposto alla dottrina delle idee matematiche. Si considerava un aristotelico: osservava la natura dei suoi calciatori, e ne cercava l’alchimia migliore.

Pirlo e Allegri | numerosette.eu
Dopo il 2011, il Milan è sprofondato in uno dei periodi più difficili degli ultimi vent’anni. Qui Allegri discute con due dei senatori dell’ultimo scudetto, Seedorf e Andrea da Brescia.

Andrea fece tanta panchina. Una riserva di lusso, assieme a Nesta e Inzaghi, con una sostanziale differenza: Pirlo sentiva di avere ancora qualcosa da dire. Per questo motivo accettò le scelte del suo allenatore, e non disse mai una parola fuori posto. Piuttosto che sollevare un caso mediatico, preferì attendere la fine naturale del contratto: da vero pitagorico non si lasciava distrarre dagli accidenti della vita, ma guardava già oltreLo faceva con gli occhi stava ammirando Torino.

Quando Pirlo passò alla Juventus divenne uno dei pochi calciatori nella storia italiana ad aver militato nella trinità calcistica del nostro Paese. Eppure, nessuno riuscì ad odiarlo. Pensate alla differenza con Bonucci, tanto per citare l’ultimo in ordine cronologico: Il fatto è che Pirlo non è mai stato fazioso, ha sempre dispensato calcio per un fine superiore, senza badare troppo al colore della casacca di gioco. In pieno stile pitagorico lasciò il Milan perché non gli permetteva più di esprimere le sue idee su un campo da calcio. E allora Marotta e Conte, che stavano costruendo l’ossatura su cui ancora oggi si fonda il primato della Juventus, non esitarono neppure un secondo. Perché Pirlo non va giudicato in base alla condizione fisica, ma alla freschezza delle sue idee.

Era il momento più alto della sua carriera, ma nessuno se n’era ancora accorto.

Andrea raggiunse una squadra rabbiosa e affamata, che metteva il muso fuori dalla lunga punizione di Calciopoli e si preparava a dominare di nuovo l’Italia. In molti si chiedevano come il flemmatico regista da Brescia avrebbe potuto conciliarsi con l’allenatore più vulcanico degli ultimi anni. Il tempo ce lo ha spiegato.

Andrea Pirlo Juventus | numerosette.eu
Non c’è una divisa che lo faccia sfigurare. Questo perché, ogni volta che è sceso in campo, Pirlo ha indossato il calcio.

Il circolo di Torino

Se la Juventus ha vinto così tanto nei tre anni di Pirlo è merito un po’ di tutti.

  • Primo: Conte ha modellato la squadra al fine di creare un circolo pitagorico.
  • Secondo: Pirlo ci si è messo in mezzo, baricentro di un 3-5-2 che diventava di anno in anno più forte.
  • Terzo: con un’applicazione tattica impressionante, Pirlo poteva telecomandare i suoi compagni di squadra come Pitagora faceva coi suoi discepoli.
Pirlo alla Juve | numerosette.eu
Se volessimo descrivere la Juve di Conte, ci basterebbe questa GIF. Tutta la squadra ruota attorno a Pirlo, che protegge la palla per otto secondi nella trequarti dell’Atalanta per poi mandare letteralmente in porta Lichtsteiner. L’esterno della Juventus, in quel momento, non è più un calciatore: è una variabile nella fisica delle traiettorie di Pirlo.

Nella fredda Torino, però, qualcosa cambia. Il contatto con Conte è straordinario. Sono due anni in cui Pirlo, ormai ben al di sopra dei trent’anni, scopre che la grinta può essere un’arma in più. Da vero pitagorico, aveva sempre giocato con le idee trasferendole ai piedi; alla Juve, però, la forza di uno stadio nuovo e la voglia di vincere hanno fatto la differenza. Pirlo è diventato ancora più cinico, ancora più devastante. La sua flemmatica razionalità lasciava più spazi alle esplosioni di gioia. Un po’ di Conte era entrato in Pirlo, ormai.

Pirlo Europei 2016 | numerosette.eu
Agli Europei del 2016 Pirlo ha fornito una delle sue prestazioni migliori. Guarda caso, sulla panchina sedeva l’allenatore che era riuscito a spronarlo nonostante l’età. Qui il momento più iconico: il cucchiaio a Joe Hart durante i rigori contro l’Inghilterra.

Arrivano le vittorie, arriva lo Scudetto. Arriva la rivincita contro un Milan che lo dava per bollito e lo ha scaricato senza troppi complimenti: sarebbe stato facile darsi delle arie, pensiamo. Andrea, ascolta: sei passato dalla parte dei vincitori, hai lasciato un Milan sull’orlo del baratro, dove non credevano più in te, e hai raggiunto la squadra più forte della penisola. Ti sei preso la rivincita più dolce di tutte, quella sul campo.

Eppure niente, Pirlo non si distrae. Non si è mai interessato alle dichiarazioni al veleno, o peggio ancora ai litigi da conferenza stampa. Se si trova alla Juve è per scopi superiori: per dare le ultime pennellate a quel capolavoro che è stata la sua carriera.

Punizione Pirlo | numerosette.eu
Una perfetta traiettoria galileiana, da studio di corpi solidi.

Il dolore di Pirlo

Quando Allegri sostituì (tra lo scetticismo dei tifosi) un Conte ormai destinato alla nazionale, in molti si chiesero che cosa ne sarebbe stato di Pirlo. I due non avevano avuto un ottimo rapporto al Milan, ma Andrea non è tipo da serbare rancore: tutto va sottomesso e sacrificato in nome del campo. Sulla panchina, poi, siede un Allegri molto diverso dalla versione 2010/11, consapevole del fatto che basare una squadra intera sul singolo (leggi: Ibrahimovic) diventa sempre controproducente. Nel calcio c’è bisogno di idee. E avere uno dei mediani più forti della storia a sua disposizione gli è stato d’aiuto.

Pirlo in lacrime | numerosette.eu
I segni del tempo non risparmiano neppure chi si nutre di idee. Andrea Pirlo, in lacrime dopo la sconfitta col Barcellona in finale di Champions.

Paradossalmente, il punto più alto della carriera di Pirlo arriva con un allenatore che non aveva mai creduto in lui, e coincide con una sconfitta. Siamo nel 2015. La Juventus, dopo aver resistito per sessanta minuti, viene schiantata dal Barcellona di Messi: in mezzo al campo c’è un signore di 36 anni che ha perso l’ultima grande occasione della sua vita, ha la maglietta dentro i pantaloni, come si faceva una volta, e gli spaghi dei calzoncini legati di fuori (per scaramanzia). Piange.

Non lo avevamo mai visto così.

Le telecamere di tutto il mondo lo pescano e gli rubano quell’intima debolezza, perché si tratta di un evento straordinario. Pirlo forse sta pensando che il calcio può darti tanto, ma non si allontana mai dal suo destino. E le primavere passano. Contro qualsiasi pronostico era arrivato a un passo dalla vetta, nonostante le sue idee pitagoriche si sono dovute arrendere ad un altro pensiero filosofico. Quello del Barcellona, segnato da Guardiola e dal post-Guardiola.

Pirlo l’emigrato

Pitagora fu un emigrato. Nacque a Samo, isola come tante sul Mar Egeo: per motivi politici e personali emigrò in Magna Grecia, dove fece fortuna a Crotone e poi a Taranto. Proprio qui fondò la scuola pitagorica, qui cominciò la diffusione delle sue idee sull’anima e sulla matematica.

Anche Pirlo, alla fine della sua carriera calcistica, divenne emigrato: quasi un obbligo per i calciatori di oggi, una passerella negli anni finali di attività. Lo ha fatto Del Piero; per un momento, anche Totti aveva pensato di prendere a calci un pallone a Miami.

Pirlo e Kakà MLS | numerosette.eu
Due vecchie conoscenze del calcio italiano. A distanza di quasi dieci anni, Pirlo e Kakà si sono ritrovati – da avversari – dall’altra parte del mondo. Tutto il calcio è paese.

Perché New York? Perché la Major League Soccer? Ci piace pensare che Pirlo abbia lasciato l’Italia per fondare la sua scuola pitagorica, in onore del lontano maestro. Ma, in realtà, le cose stanno diversamente. A 36 anni, concluso il contratto con la Juventus, Pirlo cominciava a sentire gli acciacchi del corpo. Provò a non ascoltarli, e sorretto dalla forza delle sue idee si trasferì negli Stati Uniti. Non è ben chiaro che cosa si aspettasse. In America, complice la spettacolarizzazione che da quelle parti investe ogni sport, non c’è spazio per idee cristalline e geometrie dell’anima: i tifosi preferiscono vedere gol, errori, lunghe cavalcate. Insomma, emozioni. Il pubblico non è ancora pronto alla forma sofisticata di piacere insita nella filosofia calcistica.

Pirlomachia

Pirlo arriva a New York sperando di portare le sue conoscenze meccaniche dello sport. Il lancio di sessanta metri, il filtrante dal tempismo perfetto, la punizione maledetta. Ma non ci riesce. Un po’ per colpa del fisico che cede troppo facilmente, un po’ perché la MLS viaggia ad un ritmo alto, e lui soffre. Noi italiani, così immersi nel nostro campionato, non ce ne siamo accorti più di tanto. Sì, Pirlo è in America, starà dispensando magie, diciamo al bar. Ma non è così. Pirlo soffre. Chi si ricorda le ultime convocazioni in maglia azzurra? Quando Conte, nel 2015 scherzò con la sua carta dì’identità e provò a riutilizzarlo il Nazionale?

Pirlo Italia 2015 | numerosette.eu
Pirlo a 36 anni, in una delle sue ultime apparizioni con la maglia azzurra (contro Malta, da capitano). A causa della sua condizione fisica non ottimale, il fuoriclasse venne sommerso di critiche.

I limiti fisici, purtroppo, arrivano per tutti. Se Pirlo ha potuto tenere botta fino a 36 anni è perché il suo stile di gioco non è mai stato esageratamente dispendioso: gli bastavano una buona resistenza, un’ottima protezione del pallone e la velocità d’esecuzione. Ma il tempo usura anche i fondamentali; ecco allora che, lontano dai riflettori, Pirlo diventa poco lucido.

A New York è l’ombra di sé stesso, diventa tormentato e malinconico come quella città. Decide di chiudere la sua esperienza in anticipo, da tanto è disperato. Bisogna scegliere le proprie battaglie, o si fa la fine del primo Pitagora. Pare infatti che quello vero si sia suicidato dopo aver perso tutto in un incendio causato da lui stesso.

Il vino buono

Alla fine, il momento di dire basta arriva per tutti. Tra il 2016 e il 2017 un’intera generazione di fenomeni ha appeso gli scarpini al chiodo: Xavi, Lahm, Totti, Xabi Alonso, cito solo alcuni nomi di eccellenti interpreti che hanno modificato per sempre l’ossatura di questo meraviglioso gioco. Dopo la generazione dorata, si sa, arriva quella d’argento, o di lega ancora più bassa.

Si è ritirato il più grande alchimista degli ultimi anni. 

Ma che cosa resterà, della carriera di Andrea Pirlo?

Resterà innanzitutto l’impressione di essere davanti a un giocatore eterno. Dagli anni ’90 sino ad oggi, Pirlo ha giocato sempre con la stessa velocità di pensiero. Non si è mai snaturato, e ha reso il massimo laddove erano gli allenatori a costruire la squadra attorno a lui. Resterà il silenzio, che da vero professionista lo ha accompagnato in ogni fase della sua vita calcistica: mai una parola fuori posto, mai un gossip, mai una bravata davanti alle telecamere. Ma soprattutto resterà il suo modo di interpretare il calcio, un modo tutto suo: i francesi direbbero à la Pirlo, con l’accento sulla sillaba finale. Perché mentre nel calcio tutti imparavano a correre più veloci e a metterla sul piano fisico, lui ha vinto le sue sfide sull’iperuranio, con la forza delle idee. Se Pitagora aveva capito il segreto della vita, Pirlo aveva compreso quello della partita di calcio. Riusciva a leggere il momento decisivo, a fare l’unica giocata possibile per sbloccare delle situazioni difficili.

Il testamento di Pirlo

Pirlo-Grosso 2006 | numerosette.eu
Persino lo stop è orientato verso quel che verrà. I piedi di Pirlo sono profetici. E valgono un mondiale.

Forse, le parole non bastano. Forse, per capire quanto sia importante l’eredità di Pirlo bisogna analizzare al fotogramma la sua giocata più iconica. Siamo a Dortmund, nella leggendaria semi-finale Mondiale del 2006. Siamo contro gli acerrimi nemici, che vogliono vincere in casa. Al 118′ minuto Pirlo fa una giocata che, nella sua semplicità, è straordinaria: nella concitazione di quei minuti, ci sono duecento milioni di persone che stanno perdendo la testa, non solo i ventidue in campo; non solo quelli sugli spalti. Ci sono popoli, nazioni che si aggrappano alle emozioni di quel momento. L’unico, a Dortmund e forse in tutta Europa, che non perde è la testa è Andrea da Brescia. Per lui, tra finale mondiale e allenamento mattutino non c’è alcuna differenza. Perché lui ha sempre lo stesso approccio razionale al pallone. Scompone ogni cosa in numeri primi, diagonali, geometrie impeccabili. E allora eccolo che, in un’area affollatissima, sposta due volte il pallone, con quel suo tipico temporeggiare in attesa del momento perfetto. Il solfeggio termina quando Grosso fa un piccolissimo movimento verso il centro del campo. A Pirlo non serve altro: il gol lo inventa lui. Dà una palla ai due all’ora, che attraversa quattro metri d’area in verticale. Era l’unica linea di passaggio disponibile. 1-0 per noi, e sappiamo come è andata a finire.

Il silenzio di Pitagora

Si dice che Pitagora e i suoi adepti custodissero segreti terribili. A tutti veniva imposto il silenzio perché la verità non venisse sparsa al vento come i semi del grano: Pitagora, poi, credeva nella metempsicosi, la resurrezione dell’anima. In questo momento, io vorrei davvero dargli ragione. Chissà che il genio matematico di quell’uomo ormai perduto nel tempo non sia arrivato sino ai giorni nostri. Forse in Pirlo c’è davvero Pitagora. Si, nel modo di interpretare la partita, nello stoicismo agonistico, nell’esecuzione meccanica.

E anche se per Andrea la radice di due è ormai arrivata, a noi resta tutto il resto.

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