Essere Agüero

Il City di Guardiola è indubbiamente, almeno dal punto di vista estetico, quanto di più appagante possa essere messo in mostra nel rettangolo di gioco. Un calcio quasi scientifico e matematico, ma che comunque necessita di un giocatore tanto forte da poter andare oltre gli schemi e occasionalmente di sostituirsi ad essi: un giocatore come Sergio Agüero tanto per intenderci, quel tocco di lusso che va a perfezionare una macchina già incredibilmente efficiente.
Il Kun è a tutti gli effetti uno dei maggiori talenti della sua generazione ed in assoluto degli ultimi 10/15 anni, elegante e decisivo quando serve, con la classe ed il romanticismo che contraddistingue da sempre i sudamericani ma anche dotato della velocità d’esecuzione necessaria a campare nel calcio moderno.

Essere Agüero vuol dire pensare e agire fuori dagli schemi, essere un fenomeno ma venire ignorato ogni qual volta si pensa ai più forti di questo gioco, ma soprattutto vuol dire essere uno di quei personaggi difficili da ritrovare nella storia del calcio per talento e mentalità.

Precoce

La prima metà della sua carriera, quella che potremmo definire come giovinezza, è incredibilmente condizionata dalla spensieratezza e spavalderia che solo un ragazzino con le sue doti poteva mettere in mostra.
Inizia a giocare tra  i professionisti prestissimo con l’Independiente che lo lancia nel mondo dei grandi  a poco più di 15 anni, scelta assolutamente discutibile e, all’epoca come oggi, rischiosa ma che fa capire da subito come ci si trovi di fronte ad un predestinato.
Il primissimo Kun è un diamante grezzo, decisamente più irruente del giocatore che possiamo ammirare ora e poco propenso a ragionare col pallone tra i piedi, ma già in grado di estrarre dalla sua faretra dei colpi che torneranno utili anche qualche anno più tardi. Infatti, il primo goal segnato da professionista è una giocata che lo accompagnerà per il resto della sua carriera: sterzata di potenza al limite dell’area e tiro di collo pieno che scende all’ultimo e inganna il portiere, pochi semplici tocchi che lo portano a compiere il primo capolavoro della sua carriera.

Con i Rey de Copas segna tanto – tiene stabilmente la media di un goal ogni 2 partite, follia per un ragazzino di quell’età – e impressiona, è quindi solo questione di pochi anni prima che arrivi la chiamata dal calcio europeo portandolo a quel fisiologico salto di qualità.
Quella chiamata arriva dalla Spagna, per la precisione da un Atletico Madrid che si rivelerà la piazza ideale per lui, perché l’Atletico pre-Simeone era una società si ambiziosa ma decisamente lontana dalla corazzata del Cholo, quindi Agüero si trova a vestire il ruolo da protagonista in un ambiente con relativamente poche pressioni e tanto spazio per mettere in mostra il suo sconfinato talento.
L’avvento di Agüero in Liga è definibile con una sola parola: disequilibrante.
Negli anni di militanza in terra spagnola è secondo solo a Messi e CR7 – il primo degli umani, tanto per intenderci -, segna ad un ritmo vertiginoso e porta una squadra poco più che mediocre costantemente tra le prime 4 e alla prima Europa League della sua storia. Il Cholo è il maggiore artefice della crescita e affrermazione dell’Atleti, ma il Kun ha sicuramente contribuito a mettere i Colchoneros sulla mappa del calcio europeo e mondiale.

Rispetto agli esordi, Sergio comincia a subire i primi effetti della europeizzazione sul suo gioco: impara a giocare di più e meglio con la squadra, aggiunge alle sue doti di finalizzazione anche una notevole capacità nel palleggio e nella lettura delle partite. In più, impara il mestiere della punta da due campioni come Fernando Torres e Diego Forlán. Del primo è rincalzo nel primo anno europeo, col secondo forma invece una grande coppia d’attacco. Ne sa qualcosa l’Inter, uscita ammattita dalla sfida nella Supercoppa Europea del 2010.

Agüero sangue blu

L’arrivo al City dello sceicco Mansour e di Mancini coincide con l’inizio della seconda parte della sua carriera, dove evolve sotto ogni punto di vista. A Manchester non è più il giovane talento in grado di fare cose strabilianti, ma diventa sempre più un leader tecnico per la squadra, chiamato ad alzare il livello dei compagni oltre che incidere con le proprie giocate.

Pure gli inglesi, mai totalmente entusiasti del calore dei sudamericani e da sempre impostati verso un calcio fisico, si rendono conto di trovarsi di fronte un calciatore formidabile, in grado di incantare sotto la pioggia di Stoke esattamente come faceva contro Barcellona e Real Madrid.
La Premier è un grande e interessantissimo banco di prova che il Kun intraprende nel miglior modo possibile. Un calcio nettamente più fisico e dai ritmi più serrati non lo abbatte, ma anzi lo sprona a migliorarsi rendendolo così uno dei migliori stranieri ad aver mai messo piede in questo campionato, quasi allo stesso livello di mostri sacri del calibro di Henry, Drogba e Bergkamp.
Agüero in maglia Skyblues regala perle inestimabili praticamente ad ogni allacciata di scarpe, è diventato un giocatore tanto divertente quando decisivo nei momenti clou e trasmette un’aria di quasi onnipotenza col pallone tra i piedi.

Ci mette 6 anni a diventare il miglior marcatore della storia del City, ma appena una stagione per diventare un’icona eterna di questa società: la sua rete del titolo 2012 allo scadere della gara contro il QPR rimarrà per sempre un qualcosa da raccontare ai nipotini, una di quelle giocate delle quali ricordi ogni singolo istante. Sì, compreso l’assist di Balotelli.

Giusto per rinfrescarvi la memoria

Titoli e goal a parte, l’aspetto più interessante della versione Mancunian del Kun è la sua enorme crescita tecnico tattica. Esattamente come il suo compagno di squadra David Silva, prende spunto per migliorarsi da ogni allenatore avuto nel corso degli anni. Con Mancini e Pellegrini incrementa esponenzialmente il suo lavoro senza palla, sia per quanto riguarda gli inserimenti alle spalle della difesa che per recuperare la sfera, ma è con Guardiola poi che il suo percorso di crescita subisce una brusca e notevole accelerata.

Il lavoro di Pep consiste nel renderlo più numero 10, senza dargli una posizione fissa in campo ma il compito di facilitare il gioco ed essere a tutti gli effetti il regista offensivo della squadra. Un cambiamento del genere lo porta a giocare meglio sia stilisticamente che per quanto riguarda i risultati: è più centrale rispetto al gioco e può scegliere quando e come mordere la partita. Prima era un animale vorace e Guardiola lo ha reso un raffinatissimo predatore d’agguato.

Grandezza indiscutibile

La carriera di Agüero ha raggiunto, almeno fino a questo momento, un livello davvero invidiabile tanto dal punto di vista del proprio stile di gioco quanto da quello degli obiettivi raggiunti.
Segnare così tanto e alla sua maniera, ma soprattutto incidere come ha fatto lui sulle fortune della propria squadra sono fattori per niente banali e degni solamente di un giocatore di caratura internazionale. Eppure si ha l’impressione che manchi qualcosa per poterlo consacrare tra i grandissimi, come se fosse ancora un gradino sotto a chi ha scritto la storia di questo gioco. La carriera ed il valore reale di un giocatore non vengono dati assolutamente dal suo palmarès, però esso contribuisce in maniera decisiva alla considerazione che si ha del giocatore stesso.
Probabilmente una Champions League cambierebbe parecchio lo status di Agüero, permettendogli di entrare in un Valhalla accessibile solo a pochi grandi giocatori con quelle doti e in grado di vincere quanto gli spetterebbe.

Comunque vada, la grandezza ed il livello dell’argentino non possono essere in discussione. La sua classe e eleganza sono un qualcosa di indimenticabile, meraviglioso e non hanno bisogno di un trofeo per essere riconosciute tali: la bellezza deve essere ammirata, non premiata.
Del resto, anche Sergio Leone non ha mai ricevuto un oscar. Sarà il nome.

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