Non è una legge ma quasi. La vita di un uomo si divide in due fasi: quella in cui facciamo la raccolta delle figurine e quella in cui ci illudiamo di essere troppo grandi per una cosa del genere. È antropologia spicciola, ma proprio come quelli studiati da questa disciplina, anche noi, dicendo “Quest’anno l’album non lo compro” intraprendiamo il più classico dei riti di passaggio e transitiamo dalla comunità dei bambini a quella dei ragazzi. Non possiamo più perdere tempo dietro alle figurine, dobbiamo pensare ad altro, dobbiamo essere più seri, sono i tempi delle prime cotte. Sì, però qualcosa lo abbiamo lasciato lì, tra le pagine di quegli album. Non è morto, solo non ci è così consentito averci a che fare. Lo facciamo solo sporadicamente, riaprendo quelle pagine un po’ per scherzo, un po’ per nostalgia, come per riprendere una boccata d’aria e poi rituffarsi tra le spinte e gli strattoni del presente. Lasciatecelo fare, vi prego.
C’è forse qualcosa di male nel ricordo? C’è un che di vigliacco nella resa incondizionata al passato? Non credo. Alla base, forse, c’è solo un peterpanismo – pare ci sia anche una definizione di questo lemma – che ci spinge a recuperare quella che, nella nostra testa, rimane la fase migliore della nostra vita. Senza remore, senza sorriso: le figurine sono una cosa serissima e meritano per questo un elogio.
Pavimento bianco
Ogni volta che si ripesca dal passato, che ci si rivolge direttamente a una precisa fase della propria vita, è impossibile isolare un elemento da tutto il resto dei ricordi. La memoria si presenta nella sua totalità, non ci riporta indietro a un semplice oggetto, ma ci reinserisce in un contesto. Così anche le figurine non riusciamo a ricordarle da sole, astrattamente, ma ritorniamo con la mente a noi che apriamo quei pacchetti nei luoghi della nostra infanzia. La tela che assorbe tutte le macchie di colore dei miei ricordi è il pavimento bianco della cucina di casa di mia nonna. Io, sdraiato a terra, a pancia in giù, che apro pacchetto dopo pacchetto. E poi mi giro, entusiasta, per far vedere che sì, quella volta mi era uscito Shevchenko, contento come se fosse proprio lui, come se l’ucraino avesse deciso di migliorare il mio pomeriggio trasmutandosi in una di quelle figurine. Riuscivo a dare a delle semplici foto auto-incollanti un valore che non si poteva toccare.
Nell’VIII secolo dopo Cristo, la Chiesa si ritrovò ad affrontare uno dei suoi primi movimenti riformatori, portati avanti alacremente dagli imperatori bizantini. Il termine che viene usato è iconoclastia, letteralmente “distruzione delle immagini”. Questo perché, preoccupati dall’eccessiva importanza data alle icone in ambito religioso, questi sovrani iniziarono ad ostacolarne la diffusione e a distruggerle. Basandosi su passaggi della Bibbia, si tentò di contrastare la tendenza ad adorare le immagini più di quello che fosse rappresentato al loro interno. Il meccanismo è esattamente lo stesso che si presenta con la raccolta delle figurine. Così succede che una figurina di Ujfalusi diventi un ponte per la memoria e lo scudetto del Padova abbia il valore di un diamante grosso come una noce. Anche noi combattiamo la nostra battaglia iconoclasta, relegando, a un certo punto della nostra vita, quegli album meravigliosi all’interno di scatoloni, o lasciandoli sulle mensole più alte, dove si sa che non andremo mai a prenderli. Mai, tranne quelle volte in cui il passato riesce a riportarci a sé.
Ce l’ho, mi manca
Fino ad ora, però, abbiamo rinchiuso la collezione delle figurine all’interno del recinto della memoria individuale, ma c’è molto di più. Il vero motivo per cui questa attività – non saprei neanche come definirla – occupa una porzione così significativa della nostra crescita è lo spazio di vita collettiva che ricopre. In questo hanno un ruolo fondamentale i doppioni. Così, come in un riciclo ante litteram, nessuna figurina va sprecata, ma tutte possono diventare o oggetto di scambio o – nel peggiore, ma non poi così tanto, dei casi – strumento di gioco. Sono gli anni in cui la logica del gruppo, del branco – in senso positivo – ha un ruolo fondamentale, per cui anche uno svago individuale, come quello di collezionare delle figurine e incollarle su un album, ha una sua ricaduta collettiva, in qualche modo influisce sulla nostra vita sociale. Sembra quasi esagerato dirlo, come se ne si facesse un affare più grande di quanto lo sia realmente, ma quante amicizie sono nate grazie al casus belli dello scambio delle figurine? Quanti ragazzini troppo timidi per inserirsi in un gruppo ce l’hanno fatta perché avevano un dannato bisogno di quel Ruben Olivera con la maglia della Juventus?
È per questo che la frase tipica degli scambi di figurine è diventata una formula, con quel celomanca scritto tutto attaccato, come in un rituale. Così ha assunto un valore universale, è la stessa ovunque ed è identificabile in tutte le città italiane. È un passepartout di socialità, una delle poche frasi colloquiali che ha dappertutto lo stesso significato. Per questo, il ricordo di quella che è stata la prima, favolistica, fase della nostra vita non può limitarsi all’apertura solitaria dei pacchetti. Certo, l’ebbrezza di trovare il pezzo tanto ricercato era quella propria delle scoperte dell’infanzia, ma il grosso della raccolta, della collezione, lo si consumava tutti insieme. Era lì, all’ingresso di scuola o a ricreazione, al campetto prima di giocare o giù al palazzo. Il tutto faceva da collante, come quello sul retro dei faccioni dei nostri idoli – o dei nostri nemici odiati – che si attaccava alle dita quando eravamo lenti ad incollarli. Rigorosamente a pancia in giù sul pavimento bianco.
Da piccolo stavo meglio di oggi, avevo trovato sia Volpi sia Poggi.
Il segreto sta proprio qui, il nocciolo della questione è in questa frase. Le figurine ci rimandano a un’età che ora, con gli occhi degli adulti, vediamo come perfetta. Un’età dell’oro – di cui, ovviamente, allora non ci rendiamo conto – che ci sembra inevitabilmente perduta. Forse lo è anche, non possiamo far altro che recuperarla ogni tanto salendo su una sedia, alzandoci sulle punte e tirando giù, col braccio teso, quella pila polverosa di album, che, tenaci, proprio non ci stanno a lasciarsi andare dall’oblio. Sarà quello il modo per recuperare il tempo più spensierato della nostra vita, fatto di entusiasmanti scoperte individuali sotto forma di panchinari del Lecce – di cui sappiamo tutte le fasi della carriera – e momenti collettivi. È proprio durante quelli che si forma, almeno in parte, il nostro essere calciofili. Anzi, è proprio dando valori diversi a figurine altrimenti uguali, che iniziamo a diventare tifosi. Io quella figurina di Shevchenko l’avevo scartata altre dieci volte, ma non avrei avuto comunque nient’altro di meglio da chiedere a quel pacchetto. Ecco, quella figurina di Shevchenko rappresenta la mia infanzia perduta.
Chi glielo dice a quel bambino con l’aria impettita, che custodisce geloso quel mazzo tra le dita, che una volta che la tua raccolta di figurine è finita tutto il resto della vita è in salita?