Quando ancora non esistevano manuali scritti, quando le idee di come si potessero incastrare determinate regole all’interno di fogli e inchiostro ancora non erano state ben definite, ecco che già da tempo esisteva la scherma. Non quella alla quale ora si dedica attenzione a fatica tra un’Olimpiade e l’altra; bensì qualcosa che derivava da un sentiero delineato da racconti e dipinti trovati su rocce e pariri, che hanno fatto conoscere alla storia antica, moderna e contemporanea, quella che un giorno è stata poi ribattezzata scherma.
Il più antico manoscritto risale al XIII sec.: una miniatura di due cavalieri che rappresentano un duello con la spada, dove la descrizione può essere vista come una prima imbastitura di regole. Di stampo tedesco, questo accenno di trattato andò ad inserirsi nella ricerca che Achille Marozzo, il padre fondatore della scherma italiana, fece a cavallo del 1400-1500 per poter dare seguito e costruzione a un’arte che sarebbe poi divenuta sport.

Edoardo Mangiarotti
Grazie proprio ad Achille Marozzo, o forse anche grazie alla predisposizione naturale di un territorio che da sempre ha avuto nel DNA la capacità di tirare fuori campioni, gli italiani sono da sempre stati ai vertici di questo meraviglioso sport. E il primo a essere ricordato per aver reso grande la scherma italiana è senza dubbio Edoardo Mangiarotti. Un lombardo, figlio di un maestro di scherma che gli insegnò il rispetto per l’avversario e le regole di spada e fioretto, il ragazzo nato a Renate nel 1919 fu subito grande.
Una grandezza data non solo dalle indiscusse capacità tecniche e atletiche, ma anche da quella mente che prevedeva l’azione ancora prima che accadesse. A dirlo oggi, sembrerebbe qualcosa di naturale e scontato; all’epoca era un elemento di profonda intelligenza e intuizione.

Intuitivo come il padre Giuseppe, che lo levigò come una lastra di marmo della migliore qualità, definendone forma e aspetto, dandolo alla pedana come Michelangelo fece con la Pietà a San Pietro. Ambidestro e biarma, l’appena diciassettenne partecipò alla sua prima Olimpiade nel 1936, quella di Berlino; quella di Jesse Owens (J.C. per chi conosce la storia), quella organizzata per dimostrare al mondo la grandezza della Germania di Hitler. Quella che, per la scherma italiana, fu la rampa di lancio di un futuro campione.
E sotto il “cielo grigio di Berlino”, Edoardo vinse la medaglia d’oro nella spada a squadre, tornando a casa con il metallo più prestigioso, nella gara più importante.
Dopo la guerra
Pensare che una volta si annullavano le guerre per poter far posto ai Giochi Olimpici, fa ragionare sul fatto di come, la Seconda Guerra Mondiale, determinò lo spartiacque tra età moderna e contemporanea. I Giochi della XII e XIII Olimpiade non vennero disputati proprio per via del conflitto che il fuhrer tedesco scatenò nel 1940.
Mangiarotti fece parte di quella chiamata alle armi che reclutò una miriade di sportivi, di civili, di soldati; che partirono per una guerra dalla quale non molti sarebbero tornati. Eppure quel ragazzo aveva qualcosa in più degli altri, tanto che prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, partecipò nel 1937 al Mondiale di Parigi, dove confermò con la sua squadra di spada maschile l’oro Olimpico conquistato l’anno precedente.
Fu dunque Londra il palcoscenico successivo per Edoardo, che a distanza di dodici anni (e quindi ventinove d’età), partecipò alla sua seconda Olimpiade. Il ’48 fu leggermente più amaro per il figlio di Giuseppe, che arrivò secondo con le due squadre di fioretto e spada maschile, mentre nella prova individuale dell’arma senza convenzione (la spada) riuscì a conquistare il terzo gradino del podio.
Ma dopo dodici anni in cui il mondo era riuscito a tessere le fila di un mantello di pace e una tranquillità appena recuperata, soltanto grazie, o meglio purtroppo, al sangue versato da chi in quegli ideali sbagliati di un uomo non ci credeva. E si lottò dunque per la libertà, per la sopravvivenza; ed Edoardo camminò accanto a chi, da questa marcia verso la costruzione di un mondo nuovo, non riuscì mai a tornare.
Il Re di spade
Fu forse la difficoltà di tornare alla vita prima della guerra, a quel quotidiano che non sarebbe stato più tale, che impedì a Edoardo di diventare il migliore a livello Olimpico individualmente, qualche anno prima del dovuto. Dovette aspettare Helsinki per fregiarsi del titolo olimpico individuale, nel 1952, quando la Finlandia si inchinò due volte davanti alla disarmante bravura dell’ormai uomo di Renate. Due ori nella spada, individuale e a squadre, contornati poi da altrettanti argenti, nel fioretto individuale e a squadre.

A dimostrazione che quello schermidore era la rappresentazione vivente di quelle regole che vennero prima pensate, poi scritte, infine fatte nascere come inchiostro su carta; che lui tradusse in dinamismo assoluto. Furono altre due le Olimpiadi disputate, Melbourne 1956 e Roma 1960, dove vinse altre cinque medaglie distribuite tra tutti e tre i metalli, in entrambe le armi.
Contando le ventisei medaglie ai Campionati del mondo, le sei ai Giochi del Mediterraneo e le tre alle Universiadi (quest’ultime tutte d’oro), Edoardo divenne, per il mondo, il Re di spade. In una nazione dove non era la monarchia la forma di governo che continuò a esistere dopo la guerra, Mangiarotti fu il monarca assoluto all’interno di uno sport che continuava (e continua tutt’oggi) a sfornare campioni, ma dove lui fu il primo in assoluto.
Dopo il ritiro
Come tutte le cose, anche la carriera agonistica di un atleta ha una fine. E quello che ne rimane non sono altro che storie, racconti, medaglie e coppe, esposte su una mensola a casa. Ma Edoardo, anche al di fuori della pedana, volle dimostrare di essere più di questo. Per dimostrare che con la penna se la cavava bene come con la spada (forse poco meno), dal 1949, anno in cui era ancora atleta, divenne collaboratore, con la funzione di inviato-giornalista, per la Gazzetta dello Sport.
Si occupava di scherma, di quello sport che diventò, per lui, uno stile di vita. Perché questo è: quando sei a tal punto dentro una disciplina, diventa per forza di cose la tua vita. Fino al 1972 Mangiarotti restò tra le fila del giornale rosa, scrivendo addirittura un libro nel 1966: La vera scherma, un’opera data alla luce insieme alle mani e all’ingegno di Aldo Cerchiari, artista del dopoguerra.
Un libro dove Mangiarotti cercò in qualche maniera di andare oltre quella che era la scherma descritta nei vecchi trattati, provando a innovarla, riscrivendola in una versione più ‘sua’, che riassumeva in pieno la sua concezione di assalto, posizioni particolari e quant’altro. Un lavoro di studio fisiologico, dove mise in evidenza determinate situazioni delle quali si rese conto mettendo in pratica quelle intuizioni che tanti anni prima lo fecero diventare il campione che tutti conoscono.
Gli ultimi anni
Negli anni successivi continuò a impegnarsi al di fuori della pedana per far si che la scherma avesse la giusta e meritata visibilità che stava lentamente perdendo, ma solo in parte riuscì in questa impresa. Così come furono numerose le medaglie, altrettante furono le onorificenze che ricevette da numerosi organi, quali il collare di bronzo dell’ordine olimpico e il titolo di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana.
All’età di 93 anni, nel 2012, Edoardo Mangiarotti si spense nella sua casa di Milano, lasciando così il mondo della scherma per sempre. Ieri avrebbe compiuto 100 anni, e tutti gli schermidori, anziani o giovani che siano, si ricorderanno sempre di quel sorriso genuino e di quel signore tanto umile quanto elegante. In pedana o per strada, con la divisa o senza; un uomo che ha dato vita a una palestra che porta il suo nome in giro per l’Italia e per il mondo, che ha creato nella mente di molti il sogno di tutti gli sportivi: arrivare in cima al monte Olimpo della scherma, su quel podio coronato d’alloro.
Lo stesso podio che per 13 volte vide il Re di spade indossare la sua corona.