4-1
Suarez.
Punto esclamativo!
Le possibilità che la Roma passi il turno, sono praticamente nulle.
Che sarebbe stato difficile si sapeva; che bisognava lanciare il cuore oltre l’ostacolo, si sapeva anche quello.
Eppure non è servito correre come loro (e a tratti anche di più).
Perché il Barça è più forte. È più pronto.
È più quadrato.
È…
Ogni aggettivo che si cerca per definire gli undici blaugrana puntualmente è già stato utilizzato. È così esiste una sola parola per riassumere tutto ciò che sono: MARZIANI. E la Roma è tornata a casa con un sogno quasi in frantumi, che somiglia più a un rimasuglio di ciò che poteva essere e non è stato.
Giorno 1 d.B. (dopo Barcellona) – giovedì
Di Francesco si è alzato dopo aver dormito male. “Eppure non hanno sbagliato così tanto” pensa. L’aveva preparata bene, era riuscito a incastrare per ben più di qualche minuto quei geni del palleggio. Ma loro fiutano la paura, si nutrono di quegli attimi di terrore che creano apprensione. E tanto basta a disfare le maglie della difesa giallorossa; tanto basta per far carambolare la palla in porta dopo la deviazione di De Rossi.
Ma stamattina Eusebio si è messo a guardare i video, ha scrutato ogni particolare, ogni movimento con o senza palla, ogni passaggio sbagliato, ogni pallone intercettato, ogni cosa che non doveva essere, ogni cosa che sarebbe potuta cambiare al ritorno. Ha messo per iscritto ogni paura per sconfiggerla.
Giorno 2 d.B. – venerdì
Kostas Manolas ancora sta pensando a quel maledetto ginocchio. Al posto sbagliato, nel momento sbagliatissimo. Se lo sarebbe tagliato se avesse potuto; avrebbe volentieri fatto a meno della sua articolazione per evitare quell’autogoal maledetto. “Già quelli sono forti, poi ci si mette anche la sfortuna” pensa. Allora non c’è niente da fare.
Forse ancora una volta è tutto da rimandare, forse la Roma non è ancora pronta al salto in Europa. Ma il greco pensa a dove ha sbagliato, agli errori fatti al di là del ginocchio e della maledetta sorte; pensa a Suarez, a Messi, a chiunque possa arrivare al limite dell’area e a come disinnescarlo.
Giorno 3 d.B – sabato
Si, c’è la Fiorentina in casa. Ma la testa di Perotti è rimasta al Camp Nou, insieme al suo polpaccio. Mentre guarda i suoi compagni che entrano in campo, dalla tribuna vaga con la mente al ricordo di quel cross che andava solo spinto alle spalle di Ter Stegen. Invece è finito fuori. Fuori. Poteva essere il pareggio, è stato il tracollo.
Da lì altri due goal del Barcellona prima dello sprazzo di sole di Dzeko, intervallato dall’ennesimo miracolo del portiere tedesco e seguito dal quarto goal dei padroni di casa. Ma ora Perotti è li, non può farci più nulla. Così come nulla può sui due goal viola e sulla sconfitta della sua Roma. Ma tutto questo lascia il tempo che trova. Perché la testa è già a martedì.
Giorno 4 d.B. – domenica
Valverde è sicuro della sua squadra, di quei tre goal di vantaggio; ormai pensa già a chi potrebbe incontrare in semifinale. Ragiona sui possibili accoppiamenti, su chi preferirebbe trovare nella strada verso la coppa, pensa a come sarà incontrare squadre più forti. Non più “bon-bon” come titolava Marca.
È sereno. Non ci pensa neanche più di tanto alla partita di ritorno: “Messi, Iniesta, Piquè, Suarez…ci pensano loro”.
Giorno 5 d.B. – lunedì
Messi ne ha giocate di partite. Da quando era un bambino della cantera, sempre con quei colori addosso, ha giocato una marea di quarti di finale. Non le conta neanche più le volte in cui doveva giocarsi qualcosa d’importante, così come non conta neanche più le volte in cui lo marcavano talmente stretto da non farlo nemmeno respirare.
Ma alla fine sa che respira e segna sempre. E non si preoccupa. Nonostante siano bastati gli altri e non sia servito lui nel 4 a 1. È così, sull’aereo che lo porta a Roma pensa solo a dormire e a godersi il viaggio.
Giorno 6 d.B. – martedì
il giorno della partita
De Rossi si è svegliato con una folle idea: “e se…”. Del resto non sono quelli di qualche anno fa. Forti si. Ma non come prima. Fanno girare palla. Ma non come prima. Ti chiudono e poi ti mettono alle corde. Ma non come prima. E allora la folle idea che potrebbero farcela passa nella testa di Daniele.
Si prepara, si veste, con la stessa calma dei giorni precedenti. Ma con un’idea in più. “E se…”. Sale sul pullman con i suoi compagni, arriva allo stadio, si cambia nello spogliatoio. Prova a mettere quel folle germe dentro la testa di Manolas, di Florenzi, di Schick. Si. Perché giocherà Schick.
Perché Di Francesco, dopo aver studiato, visto, analizzato ha capito che solo una cosa si può fare contro i marziani: sorprenderli. Che quell’idea pazza fosse venuta anche a lui? Li scruta i suoi giocatori, uno a uno. Non c’è bisogno di dire niente. Nulla.
Così come nulla dice Valverde ai suoi, se non di stare concentrati e giocare come sanno. Messi lo guarda e sorride. Suarez anche. Piqué figurarsi.
Entrano in campo e Daniele vede uno stadio stracolmo di volti pieni di speranza, di voglia di farcela, almeno stavolta. E Daniele sa che quando le cose sono impossibili, allora la Roma sogna in grande. E i suoi tifosi aiutano a farlo. Così si carica tutti sulle spalle e parte alla carica, lanciando Dzeko in avanti.
E il Bosniaco risponde presente, la mette alle spalle di quel Ter Stegen fin troppo sicuro dei suoi mezzi, che deve arrendersi alla potenza fisica del 9 giallorosso. Ma nessuno dei suoi ancora trema, i visi sono rilassati, spensierati. Messi già pensa al volo di ritorno. Si.
Perché non tocca neanche un pallone, se non quando batte le due punizioni che fanno un secondo smettere di respirare l’Olimpico, prima di sentirlo abbandonarsi a un boato di gioia per aver calciato fuori.
Ma un goal non basta. Ma Daniele nell’intervallo continua a parlare con Fazio e Nainngollan e gli parla di quella folle idea insieme a Di Francesco. “E se…”. E così, nel secondo tempo si ricomincia da dove erano rimasti: lancio in avanti del belga, aggancio di Dzeko e Piqué costretto a stenderlo. Rigore.
Lo stadio freme. Ha paura. Che si possa sbagliare quell’occasione, perché già tante volte quei 70.000 l’hanno visto fare. Ma non stavolta. Daniele calcia e la mette dentro. Ancora. 2 a 0.
Stavolta Valverde comincia a passeggiare, a pensare, a capire che forse questa Roma ci crede davvero. È così pensa ai primi cambi da fare, ma senza fretta confida ancora in Messi e Suarez, fino ad allora nulli.
Passano i minuti e Manolas intanto ripensa a quell’autogoal, a quel brutto scherzo che il destino deve ancora ripagargli. Sale sul calcio d’angolo, l’ennesimo della partita. E come nelle favole migliori che questo sport ha regalato a chiunque creda nei sogni, ecco che il suo colpo di testa finisce in rete.
3 a 0. Lo stadio ha di nuovo paura. Stavolta di farcela. Di Francesco lo sa, stanno lì a un passo dalla semifinale. Ora Messi ha una faccia terrorizzata dipinta addosso, il volto di chi pensa che basterà fare un paio di tocchi e via verso la porta.
Ma così non è. Finisce la partita, la Roma passa in semifinale.
34 anni dopo.
Per la prima volta, da quando la Champions League ha sostituito la “Coppa dei Campioni”.
10 anni dopo esser approdata ai quarti – suo traguardo massimo, nell’attuale competizione, sino a ieri.
Nessuno ci crede eppure tutti piangono. Perché per una sera il calcio italiano ha dimostrato che conta ancora qualcosa in Europa.
Giorno 1 d.R. (dopo Roma)
mercoledì
Che non è un sogno ormai si è capito. Ne parlano i giornali, lo strillano le radio, lo ricordano le tv. Sul volo di ritorno Messi e Valverde non parlano, si accontentano di capirsi immaginando che niente possa far scomparire la delusione.
Si svegliano Daniele ed Eusebio, si svegliano tutti i tifosi giallorossi che ieri sera piangevano allo stadio e davanti alle televisioni. Si svegliano e si rendono conto che il Barcellona è stato battuto. E che nella testa è entrato e rimasto quel seme che ieri De Rossi ha fatto germogliare nella testa di chiunque.
Che sta fiorendo.
E se…