Dwyane Wade jr., il fiore di Chicago

Non lasciare mai che qualcuno ti porti via ciò che ami. Se ami davvero qualcosa, non averla più sarebbe un po’ come morire“.

Non serve analizzarla. Non bisogna comprenderla. Semplicemente: bisogna viverla. Perché quella che si legge qua sopra non è una semplice frase, ma una filosofia di vita, un modo d’essere. Non sono frasi collegate da fiato e interpunzione, bensì ricordi e sudore che hanno bagnato la canotta di un uomo che ha veramente amato qualcosa a tal punto da non voler mai vederla scivolare lontano da lui.

Era il 1982, e il basket NBA non era ancora quello che è oggi. Cartelloni pubblicitari, figure di spicco a fungere da testimonial, dirette interoceaniche: nulla di tutto ciò esisteva. E Dwyane Wade lo sapeva. Quello che non poteva neanche minimamente immaginare era che suo figlio, Dwyane Tyrane Wade jr., sarebbe diventato un volto icona dell’NBA del 2000. E la bellezza delle grandi storie, soprattutto di quelle del basket americano, sta (purtroppo) nel racconto delle loro origini, quasi mai piacevoli, sempre più spesso terribili e strazianti.

Strazianti come quella madre succube della droga, troppo debole per resistere alla tentazione di quell’eroina, maledizione di un tempo dissennato e pazzo; come quel quartiere di Chicago sempre mal visto da chiunque ne parlasse; strazianti come quei primi nove anni di vita di quel piccolo futuro talento della pallacanestro. E qui entrò in gioco il padre: lavoro duro, disciplina ferrea, metodologia nell’organizzazione della vita: cambiò radicalmente il modo di pensare di Dwyane. E nonostante tutto, tra l’indecisione che lo portava a ondeggiare tra parquet e campo di football, al suo penultimo anno di College il giovane ragazzo di Chicago decise di dedicarsi esclusivamente al basket, con coach Crean che, notate le indubbie qualità di Wade, gli permise di rimanere seduto in panchina nonostante gli scarsi voti che non gli avrebbero permesso neanche di guardare il campo della scuola. E così, nel 2002, nel suo secondo anno a Marquette, ‘Flash‘ divenne da subito leader di una squadra che riuscì ad arrivare sino alle Final Four grazie a lui, grazie a quello che da lì a poco sarebbe diventato il nuovo volto fenomenale dell’NBA governata da fisici eccezionali e menti sopra la norma.

E nel 2003 ci provò: si dichiarò eleggibile al draft, e da allora gioca con la squadra che lo scelse e dalla quale non si è mai staccato: i Miami Heat. Considerando che le altre scelte di quell’anno furono giocatori del calibro di LeBron, Milicic, Anthony e Bosh, non andò affatto male alla franchigia della Florida nello scegliere quello che, di lì a poco, sarebbe diventato (e ancora è) il giocatore simbolo della squadra della costa atlantica. I primi mesi in NBA furono duri, difficili, scanditi da infortuni che ne caratterizzarono il cattivo rendimento e da un gioco difficile da attuare con una squadra non proprio completa dal punto di vista del collante. Ma quando servì dare una scossa, Wade era presente: e nel 2006, dopo tre anni nella massima serie del basket mondiale, quel numero 3 dal volto inespressivo e freddo, insieme a un roster ben amalgamato e potenzialmente fenomenale, andò a vincere il suo primo titolo.

Ce ne furono poi altri due, nel 2012 e 2013, due anni di seguito dopo quei sei passati nel limbo di acciacchi e malanni, conditi con alcune finali perse per un soffio, altri contornati da semplici errori tecnici che sono costati però tantissimo in termini di gioia e gloria. Ma dove non arrivarono successi in terra natia, allora giunsero soddisfazioni con la maglia a stelle e strisce, sia alle Olimpiadi di Atene (bronzo dietro a Italia e Argentina) che a quelle cinesi di Pechino (oro davanti a Spagna e Argentina). Un altro infortunio lo costrinse a guardare in tv il trionfo di Londra dei suoi compagni, con la mente che in quei giorni vagava tra rabbia e Olimpiade brasiliana del 2016, ormai sempre più vicina.

Quest’anno gli Heat si stanno dando da fare, stanno provando a risollevarsi dalle ceneri di un trionfo che sembra più lontano di quanto sia in realtà, grazie anche a quel ragazzo che ormai è uomo, padre di tutte quelle giovane ‘scelte’ con le quali si allena e gioca ogni giorno da tredici anni. ‘Flash’ vuole un’altra medaglia, un altro oro, un’altra soddisfazione con la canotta addosso. Che sia di Miami, che sia quella del suo paese, è indifferente. Vuole vincere per rispondere alle critiche di inizio anno; per far tacere le malelingue che hanno provato ad additarlo come ‘non più decisivo’. Una medaglia che farebbe ricordare al mondo e all’America come, dai sobborghi di una Chicago forgiata da delinquenza e terrore, possa nascere alle volte un fiore che, senza far rumore, è sbocciato trentaquattro anni fa senza mai aver dato ancora segno di poter appassire.

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