C’é un gesto che più di tutti mi ha spiegato Diego Milito, non è un gol, né una giocata, né un assist dei suoi. Semplicemente è…Diego Alberto Milito.
Estate 2013, tournée dell’Inter in USA che ho modo di seguire da giornalista, Diego viaggia con la squadra ma non gioca, ancora sta recuperando dal terribile infortunio al ginocchio che, come da lui rivelato qualche giorno fa, alla lunga lo sta costringendo ad appendere le scarpe al chiodo.
A un evento organizzato per la stampa e alcuni ospiti illustri a New York, incontro El Principe: “Come stai, Diego…quando torni?” “Non lo so, sono nella fase finale del recupero, però mi sento bene…già lavoro col pallone…” “Ti manca il campo, vero?” “Tantissimo, ma torno presto” continuiamo con un paio di battute: poche parole, e semplici, perché Diego è timidissimo e si nota il suo imbarazzo mentre parliamo: ti fissa con quegli occhi blu, ma non ha molto da dire, non perché non voglia, ma perché lui è così.
All’evento partecipano anche Zanetti, Kovacic e altri giocatori e dirigenti: una partita a biliardino, una foto di qua, una di là…un bicchiere di prosecco, il tempo scorre veloce, pure troppo, a un certo punto incontro di nuovo Diego: è solo, quasi in disparte, si vede che certe cose mondane non fanno per lui, in realtà nemmeno per me: mi comporterei come lui se non avessi da lavorare.

Mi avvicino di nuovo a lui e devo farmi coraggio, perché un po’ timida lo sono pure io: “Ascolta Diego, io mi vergogno perché sono qui da professionista, ma devo chiederti una cosa…” “Dimmi…” “É che io ti ammiro tantissimo, e mi piacerebbe avere la tua maglia…” “Guarda, qui nel tour non ho la maglia da gara, perché non gioco, non l’hanno portata: ma ho delle maglie da allenamento, ricordamelo prima dell’ultima partita e te la do” ” Va bene, se non puoi però non importa” “No no, mi fa piacere, ricordamelo”.

I giorni passano e arriviamo all’ultima partita col Real Madrid, a Saint Louis: vedo Diego a bordocampo poco prima del fischio di inizio, i nostri sguardi si incrociano, lui capisce, io devo dirgli solo ” la maglia” e lui mi fa “vieni dopo davanti allo spogliatoio e te la do”.
Triplice fischio, mi fiondo nell’area spogliatoio dove è allestita una piccola zona mista: devo intervistare comunque Jonathan, quindi devo aspettare lì.
Passano tutti tranne lui, penso ” magari visto che non giocava è già sul pullman…” Arriva Jonathan, lo intervisto, cinque domande, rimango lì.
Passa Mazzarri ” il mister non fa conferenza, potete fargli qualche domanda qui” “ok…Max vai tu, per favore, io devo aspettare qua…lo sai”.
Un giornalista americano mi chiede se parlo spagnolo e posso fargli da interprete in un’intervista a Icardi ” va bene…”
Alla terza domanda, mi scuso col collega, devo interrompere…” Diego, Diego!” proprio in quel momento mi passava davanti ” la maglia!” lui ormai è già verso il pullman, credo di averlo perso, credo che magari ha fatto finta di non vedermi: invece no, mi ha vista, mi ha sentito, torna indietro, si ferma “Aspetta qua, te la porto subito” torna nello spogliatoio e dopo un paio di minuti esce con la maglia che mi aveva promesso “Eccola, te l’avevo promessa” mi fa un sorriso, mi dà la mano e se ne va. Io rimango attonita: qualsiasi altro giocatore mi avrebbe detto ” scusa devo andare, il pullman sta per partire per l’aeroporto” invece no, lui è tornato indietro, appositamente, e quella maglia che mi aveva promesso me l’ha data. Non ha tradito la sua parola, e c’è da aspettarselo da quelli come Diego, ma quelli come Diego nell’ambiente del calcio moderno sono perle rare.
Quella maglia da allenamento la custodisco come un cimelio, durante il viaggio di ritorno in Italia l’ho messa anche nel bagaglio a mano ” perché se mi perdono la valigia e la “Maglia“, mi uccido” e poche cose per me hanno più valore, perché non é solo la maglia di Diego Milito, uno dei giocatori che più ho amato da quando seguo il calcio, ma una maglia che lui ha voluto veramente donarmi, avrà capito quanto ci tenevo.

Penso che in questo episodio sia racchiusa tutta la sua semplicità e umiltà: Milito è stato il grande campione ma anche l’antipersonaggio.
Forse è per questo che nonostante una carriera invidiabile è sempre passato in sordina, forse è per questo che molti di lui ricordano solo lo straordinario anno del triplete e non ricordano che quasi da solo l’anno prima portò il Genoa al quinto posto, il Genoa: sarebbe stata Champions League, se non fossero stati in svantaggio negli scontri diretti con la Fiorentina. Il Genoa in Champions League vi sembra cosa da poco? E quattro gol segnati col Real Zaragoza in una sola partita al ben più famoso e attrezzato Real Madrid dei galacticos? O vogliamo parlare del 2012, anno in cui Milito in Europa è stato secondo per numero di gol solo a due extraterrestri come Messi e Cristiano Ronaldo, e non con squadroni come Barcellona o Real Madrid, ma con un Inter ben lontana da quella del triplete. Per non parlare del Racing, il suo Racing: vince l’ultimo scudetto nel 2001 con lui come protagonista; nel 2014, come il figliol prodigo, ritorna in patria con un ginocchio in meno e tanti trofei e carisma in più, e trascina di nuovo la squadra a un altro storico trionfo in Argentina, a 35 anni gioca con l’entusiasmo di un ragazzino di 18. Un giocatore infinito.
Questo suo carattere umile e schivo che probabilmente non lo ha reso molto appetibile agli sponsor, non è stato inserito dalla FIFA nemmeno nella lista del Pallone d’Oro nel 2010: uno degli scandali più grandi della storia del calcio, credo che per molti quel premio abbia perso di credibilità proprio quando Milito fu clamorosamente escluso dalla lista dei 23 di quell’anno. O forse non lo hanno inserito perché altrimenti avrebbe stracciato tutti, a mani basse, e cosa avrebbero detto al Barcelona e a Messi, sospinti dagli sponsor e ancora con la coda fra le gambe per non aver potuto giocare la finale al Bernabéu, quella finale che proprio Milito decise con una doppietta straordinaria, coronando non solo il suo sogno di bambino ma quello di milioni di bambini, magari ormai anche un po’ cresciuti ma con l’Inter nel cuore, in tutto il mondo.
Le lacrime mostrate in mondovisione dopo il secondo – splendido – gol, erano le lacrime di ogni interista che una notte così la sognava da anni: Diego è stato amato, adorato come un dio in ogni squadra dove ha giocato perché per ogni maglia ha dato tutto, e ci si poteva riconoscere in lui per la sua passione, spontaneità e semplicità: tanto freddo sotto porta, quanto passionale nelle esultanze, esultanze spontanee, non costruite ad arte per lanciare mode. Il classico giocatore che lo vedi giocare e al secondo tocco di palla ti innamori, come era successo a me a San Siro nell’autunno del 2008: una cosa che notavi subito è che di pallone non ne buttava via uno, sembrava una creatura quasi surreale in mezzo al campo, aiutato da intelligenza e classe sopraffine, a volte sottovalutate perché lui non era tipo da perdersi in doppi passi e altre frivolezze, che magari fanno impazzire i ragazzini amanti dei videogiochi ma alla fine portano a poco. Lui col pallone fra i piedi danzava, annichiliva i difensori con la sua famosa finta ma era estremamente concreto. E nel calcio vero conta quello.
Quanti giocatori in una semifinale di Champions contro il Barcellona, con il pallone fra i piedi in piena area, avrebbero optato per il tiro invece di servirlo al compagno piazzato meglio?Un buon 90%. Diego no: la sua intelligenza gli fece scovare prima Sneijder, poi Maicon, e infine…bam! La piazza di testa per il 3-1, per il gol che poi sarebbe valso la finale, perché la sua firma la doveva mettere in ogni partita che contava, in quella stagione straordinaria.
Una carriera portata all’apice tardi, dove non mancano gli episodi fortunosi, come quel contratto gettato oltre la porta dell’ufficio della Lega sulla sirena di chiusura del calciomercato, per il suo passaggio dal Saragozza al Genoa. Un gesto tanto spontaneo quanto assurdo quanto storico: se il suo procuratore non ci avesse pensato, forse staremmo parlando di un’altra storia, forse non ci sarebbe mai stata la notte del Bernabéu, forse non sarei qui a scrivere questo articolo.
Ma come accade nei film e nei romanzi, spesso sono strane coincidenze a segnare nettamente il percorso di una persona, e quella sicuramente lo è stata. Ma non è l’unica nella carriera di Milito.

Ironia della sorte, Diego chiuderà la sua carriera un 22 maggio, lo stesso giorno in cui non solo lui ma ogni persona dal sangue nerazzurro è diventata RE nella magica notte di Madrid. Un altro 22 maggio da non dimenticare, per Diego Alberto Milito da Bernál: questa volta nel suo Cilindro, con la maglia del suo Racing, sicuramente qualche lacrima gli scenderà come sei anni fa. Ma lo faranno sentire un dio, proprio come quella sera: perché ovunque sia andato Milito ha scritto la storia, e per renderlo ancora più immortale ad Avellaneda sono addirittura pronti a dedicarlgi una via: Calle Diego Milito, dove forse chi vi darà quattro calci a un pallone sognerà un giorno di essere incoronato Principe come lui.