Esclusiva – Una vita da gregario: Diego Bortoluzzi

Se ci venisse chiesto di dare una definizione di “calcio”, piuttosto tecnica e poco filosofica, cosa risponderemmo?

Molto probabilmente parleremmo di 22 giocatori dentro un rettangolo verde, tutti con lo scopo di buttare un pallone dentro una rete evitando che gli avversari facciano lo stesso.

A pochi verrebbe in mente di citare l’allenatore, la figura che dirige l’orchestra e che nel calcio moderno sembra aver assunto un’importanza fondamentale. Quale superficialità.

Figuriamoci, allora, quanti parlerebbero delle persone che stanno alla periferia di una squadra; figuriamoci, allora, quanti si degnerebbero di riservare un significativo spazio al ruolo del vice-allenatore, quella persona che agisce nell’ombra solo perché le telecamere non hanno tempo di indugiare su tutti.

Le televisioni inquadrano il calciatore prima di un rigore, ascoltano le sue sgrammaticate parole in conferenza stampa; gli occhi si rivolgono molto spesso verso l’area tecnica dell’allenatore, diventata ormai un palcoscenico teatrale di mugugni, facce spiritose e gesti con le mani.

Nessuno ha davvero voglia di scostare il sipario e introdursi nel retroscena, perché pochi ne hanno sincero interesse. Non ci viene quasi mai mostrato il truccatore, il parrucchiere o colui che pensa ai vestiti, benché senza di essi non si potrebbe andare in scena.

Ecco, fate conto che il vice-allenatore è un po’ tutte queste cose insieme: un truccatore, un parrucchiere, uno stilista.

E noi di numerosette.eu ci siamo mossi là dove nessuno vede e nessuno sa, alla scoperta di una delle professioni più misteriose dell’ambiente calcistico (dopo il magazziniere, ovviamente).

Lo abbiamo fatto grazie alla gentilezza e alla disponibilità di Diego Bortoluzzi, più di trent’anni di esperienza tra calcio giocato ed allenato, soprattutto come spalla fedele di Francesco Guidolin. Un vice-allenatore che ha avuto modo di gestire e plasmare squadre come Palermo e Udinese nei loro anni migliori, non uno qualsiasi.

E che ha trovato modo di raccontarci un mondo nonostante fosse sabato pomeriggio, una giornata di sole, nel frastuono di una fiera insieme alla sua famiglia.

 Diego Bortoluzzi e l’arte del vice-allenatore

Buon pomeriggio Diego, e grazie per la disponibilità. Partiamo dal principio e dal passaggio naturale dalla carriera di giocatore a quella di vice-allenatore: la tua prima esperienza in panchina è stata a Palermo, nel 2004 in B, al fianco di Silvio Baldini prima e Francesco Guidolin dopo. Come hai conosciuto il tecnico veneto e come ti sei inserito nel suo staff?

Dopo aver terminato la mia esperienza da calciatore ho subito sentito la voglia, il bisogno di continuare a vivere e lavorare in questo mondo. Pensando di iniziare la carriera allenando le giovanili, ho contattato Zamparini – proprietario del Palermo da due anni -, che mi ha proposto inaspettatamente un altro incarico.

A Baldini, allenatore della prima squadra, mancava il vice, e il presidente mi ha offerto di fargli da spalla; io, senza pensarci, sono partito da casa (Vittorio Veneto, non una scampagnata insomma ndr) non facendomi scappare questa serie di incredibili coincidenze. L’avventura con Silvio è durata poco perché a Dicembre venne esonerato: ovviamente, pensavo che anche per me fosse già finita. Invece, chiamato Guidolin per risollevare le sorti dei rosanero, il presidente e l’allenatore hanno deciso di trattenermi e così, quando tutto sembrava compromesso, è iniziata la mia collaborazione con Francesco, che continua tutt’ora nonostante il momento di pausa. E’ stata una serie di avvenimenti sorprendente.

Hai lasciato Guidolin solo in due occasioni, le brevi parentesi al Verona di Mandorlini e nel Treviso di cui sei stato anche allenatore in Serie A. Come ti sei trovato in quella veste così carica di responsabilità?

In quel periodo della mia vita ho avuto problemi personali che, purtroppo, non mi hanno permesso di seguire Francesco nelle sue esperienze al Genoa e al Monaco. Non so se chiamarla casualità o fortuna, fatto sta che ho accettato di andare ad allenare la primavera del Treviso e, dopo l’esonero di Cavasin, sono subentrato io come allenatore.

Benché la squadra fosse quasi retrocessa già a metà campionato, per me è stata comunque un’opportunità di crescere, capire ancora meglio il ruolo delicato dell’allenatore e mettermi alla prova: poi, il Treviso in Serie A era qualcosa di unico, e sono fiero di averlo vissuto sulla mia pelle.

A livello professionale, tuttavia, è stato un periodo negativo, visto che poi la stagione successiva in Serie B sono stato esonerato proprio dal Treviso, forse in maniera affrettata.

Anche se l’esordio con pareggio ad Empoli e lo 0-0 con la Juve rimangono comunque dei bei ricordi…

Si, assolutamente, questi sono gli episodi che ricordo ancora con felicità; soprattutto la partita contro quella Juventus: potevamo aver preso 5 reti nella prima mezz’ora, ma alla fine con tanta bravura ed un pizzico di fortuna abbiamo retto. Sono momenti che ti danno ancora più forza e consapevolezza, questi.

 Direi che nemmeno Ibrahimovic e Cannavaro se l’aspettavano…

Poi sei tornato a Palermo, da Guidolin, e lì hai avuto modo di dare continuità a quella che è di fatto la tua professione. Entrando nello specifico, cosa fa un vice-allenatore, e perché è fondamentale?

Principalmente, un vice-allenatore è una seconda voce. Il mio compito è quello di proporre un punto di vista differente in vari aspetti, dalla formazione ai cambi passando per il metodo di allenamento e tante altre questioni. Inoltre, importante è saper filtrare e gestire ciò che succede tra squadra e allenatore: essendo quest’ultimo ruolo pieno di difficoltà e responsabilità, un vice-allenatore deve “alleggerire il carico” di lavoro sulle sue spalle.

Dal punto di vista tecnico, preparo gli allenamenti in base alle esigenze dell’allenatore, organizzando tempistiche e materiale; da casa analizzo le partite giocate, gli avversari da affrontare, in modo da fornire alla squadra un quadro generale di ciò che li aspetta. Faccio un po’ tutto dell’allenatore, ma insieme a lui: con Francesco in particolare, ho guadagnato la sua fiducia dandomi da fare e mi lascia spesso carta bianca proprio nel programmare le sedute.

La parte preferita del mio lavoro, oltre appunto l’allenamento, è quella riguardante i video. I filmati che creo non riguardano solo l’ambito tecnico, ma anche e soprattutto quello psicologico-motivazionale: i giocatori devono essere stimolati già da inizio settimana e, facendoli concentrare su particolari aspetti, avranno più possibilità di dare il meglio nei 90′.

E i giocatori stanno attenti o fanno come quando erano a scuola?

Il livello d’attenzione è tendenzialmente basso, perciò devo essere bravo nel porre l’accento su due-tre aspetti fondamentali. Poi ho trovato squadre più o meno propense all’ascolto, ma in linea generale meglio poche cose, ma spiegate con cura.

A parte le battute, concentriamoci sulle tue esperienze. Hai visto da vicino il calcio e le sue dinamiche interne, hai affrontato grandi squadre e allenato tanti giocatori: chi di loro ti ha impressionato maggiormente a livello tecnico e umano?

Me ne sono passati davanti talmente tanti che faccio fatica a fare dei nomi.

Sicuramente, a livello tecnico è impossibile non citare Toni a Palermo, oltre che Totò Di Natale e Sanchez a Udine, che insieme formavano una coppia gol devastante.

Dal punto di vista umano, ho avuto ottimi rapporti in particolare con Eugenio Corini: il leader per eccellenza, uno che sapeva gestire lo spogliatoio nel vero senso della parola collaborando con me e il mister. Da elogiare sicuramente ci sono anche Bernardo Corradi e Gokhan Inler a Udine, capitan Morrone a Parma: puoi avere tanti giocatori forti, ma se non hai chi sa far mantenere una certa linea a tutti, arrivi poco lontano.

A questo punto ho introdotto la parentesi Swansea, definendola “l’esperienza inglese” e chiedendo come si sia trovato in Inghilterra. Diego, per prima cosa, ha corretto il mio lapsus dicendo che è stato in Galles, errore non da poco se sei britannico.

Poi, però, ha ammesso che anche lui si sbagliava prima di partire…mi sono sentito meno ignorante.

E’ stata un’esperienza bellissima.

La Premier League ha un suo fascino già “da fuori”, io ho avuto la fortuna di viverla “da dentro” e posso dire solo una parola: entusiasmante. Sotto tutti i punti di vista. Le differenze sono tante e notevoli; in sostanza, c’è un modo totalmente diverso di pensare, seguire e vivere il calcio, dal tifo alla televisione all’allenamento.

A livello di ambientamento, ora realizzo che mi sarebbero mancati tre o quattro mesi ancora per sentirmi davvero british, principalmente a livello di linguaggio: inizialmente studiavo a memoria ciò che dovevo riferire ai ragazzi, ho trovato l’inglese tecnico non eccessivamente difficile da imparare. Poi abbiamo avuto la fortuna di essere affiancati da Ambrosetti, ex Chelsea, che sapeva benissimo l’inglese, oltre che da Nelson Jardim, anche lui perfetto in inglese oltre che bravissimo con l’italiano (un traduttore perfetto, insomma! ndr).

Uno dei più grossi dispiaceri di essere tornato a casa è stato appunto quello di non aver potuto completare il percorso di “studi”: in Italia, benché mi fossi riproposto di continuare a imparare, è molto difficile, quindi per adesso penso e parlo in italiano.

 Altro dispiacere: non poter più abbracciare Leroy Fer

Sul campo avete ottenuto una salvezza quasi miracolosa, frutto di un cammino quasi impeccabile dal vostro arrivo sulla panchina gallese (si, stavolta ho detto bene)…

Siamo stati praticamente travolgenti, abbiamo avuto anche una buona dose di fortuna in partite cruciali come quella con l’Arsenal.

Purtroppo non abbiamo ripetuto questi risultati ad inizio stagione, il che ci è costato un esonero amaro, benché poi lo Swansea non abbia ancora risolto ancora la situazione problematica in cui sta navigando.

Chiudiamo questa intervista con la domanda forse più comune tra i curiosi di calcio: quali sono state le partite più belle che ha vissuto da calciatore prima e da vice-allenatore poi?

Da calciatore cito Venezia-Juventus di Coppa Italia, terminata 4-3: risultato epico, sicuramente il più vivido nella memoria dei tifosi veneziani – anche se sono trevigiano, spero che i miei concittadini non se la prendano.

Seduto in panchina ho vissuto l’esperienza più bella l’anno della promozione in Serie A con il Palermo. Si era creata un’atmosfera irripetibile, un entusiasmo senza eguali, ho provato delle sensazioni uniche. Ogni partita al Barbera, prima dell’ingresso dei giocatori in campo, uscivo sempre qualche minuto prima per godermi quegli istanti da brividi.

La partita che in assoluto mi ha fatto emozionare di più è stata l’impresa di Anfield con l’Udinese. Quel 2-3 ancora mi fa venire la pelle d’oca, senza considerare che sono sempre stato un estimatore di capitan Steven Gerrard: profanare quel tempio ha avuto un sapore totalmente differente da tutte le altre partite che ho visto giocare da vicino.

 Per chi avesse dei dubbi, guardare la faccia di Pasquale

E per il futuro?

Per adesso nulla in programma. Spero di tornare in Premier, la sua bellezza mi ha rapito letteralmente, ma ora penso a stare insieme alla mia famiglia: quando arriverà il momento e Guidolin mi vorrà con sé, a quel punto valuterò cosa fare.

Così abbiamo passato 20 minuti in compagnia di un uomo simpatico, sincero e soprattutto competente. Diego ci ha spiegato ciò che succede oltre i 90 minuti, oltre il rettangolo verde, oltre il pallone da spingere in porta.

Ha ammesso che ci vorrebbero “ore, giorni per raccontare tutto”, ma proprio non aveva più tempo: i figli lo stavano strattonando, e nell’immaginarmi la scena mi è scappato un piccolo sorriso di fronte allo schermo.

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