Diavolo Qatar Sette

Ma perché devono andare così lontano per una partita?

Questa domanda me l’ha posta mio padre mentre tornavamo a casa in macchina. Lui guidava e non mi guardava. Io lo guardavo e sorridevo.

Già, e vaglielo a spiegare che lo fanno per i soldi – tra me. Ci ritorneremo.

Prima, però, sono sorte alcune domande anche a me, senza porre l’accento sulla parola “una” che testimonia forse quella che dovrebbe essere l’essenza di questo sport. E ritorneremo anche su questo.

Perché la Supercoppa Italiana riferente alla stagione 2015/2016 si gioca all’anti-vigilia di Natale? Perché lo stadio non era pieno? Perché una persona di cultura araba tifa per la Juventus o per il Milan che sono squadre italiane? Se ci fosse stata l’Alessandria al posto del Milan, si sarebbe giocata a Doha? Anticipo subito. Sì e si sarebbero trovati tifosi dell’Alessandria in quello che sarebbe stato il derby del Piemonte più internazionale di sempre. Cosa ne sa l’abitante del Qatar della storia di Lapadula? Come fa un qatariano a esultare così tanto per un trofeo italiano? Perché il Community Shield non si è mai disputato in terra extra britannica? Forse questi britannici hanno, in fondo in fondo, il concetto di Brexit – Gran Bretagna Caput Mundi – che scorre nelle vene?

La smetto. Sarà che in queste settimane ho seguito appassionatamente La mafia uccide solo d’estate – la serie, tratta dall’omonimo film di Pif, e diretta da Luca Ribuoli su Rai 1, ma è venuta anche a me la sindrome di Salvuccio. Nel senso che una sera mi sono messo al pc e non la finivo più. È contagioso.

Per chi se lo fosse perso, Salvuccio, cioè Salvatore Giammarresi (Pif è l’inconfondibile voce narrante di Salvuccio da adulto) è il protagonista della serie, un bambino di quinta elementare che, nella Palermo del 1979, anno della prima guerra di mafia, incomincia a farsi una serie di domande tanto semplici quanto intelligenti. Le più disparate da “Perché mia sorella sta con quello scemo di Angelo?” a “Chi sono i mafiosi?”. Le scrive tutte, preso da un flusso di coscienza, su un quadernino a righe che troverà fortuitamente suo padre Lorenzo, interpretato da Claudio Gioé. A quelle domande non c’è bisogno di rispondere…

Io proverò a farlo. Intendo alle mie domande.

PERCHÉ DOHA? (non ci sono ricascato, è il titolo del capitoletto)

Che il format adatto, in Italia, per disputare questo trofeo ancora non si sia ben trovato, questo è poco ma sicuro. Per la nona volta si gioca all’estero, e la prima risale addirittura al 1993 negli Stati Uniti. In 29 edizioni si è giocato a Giugno, Agosto, Settembre, Novembre, Dicembre e Gennaio. A Torino è capitato che una sera si siano presentati poco più di 5 mila spettatori (Juventus 1-0 Parma del 17 Gennaio 1996, allo Stadio Delle Alpi).

Per la seconda volta è stata designata a furor di cartamoneta Doha, capitale del Qatar, nella “cornice” del polifunzionale Jassim Bin Hamad Stadium che, usualmente, ospita le partite dell’ Al Sadd, la squadra di Xavi. Lo spagnolo, oltre ad essere il capitano della squadra qatariota, è l’uomo simbolo degli Emiri per sponsorizzare il Mondiale che verrà nel 2022 in Qatar, tra i mesi di Novembre e Dicembre. Perché in Qatar, per chi viene da lontano, Giugno e Luglio è poco consigliabile. Sarà una rivoluzione…

Intanto risolviamo il primo quesito che mi sono posto. Per metà.

Perché rimane, comunque, assurdo come una finale, il cui accesso è stato conquistato a Maggio, si debba disputare a Dicembre con squadre, in parte, stravolte. Ma questo è un problema che si pone anche se si fosse giocato, come solito, ad Agosto. Ed è un problema di molti trofei, la cui importanza – diciamocelo – è relativa. Un po’ come la Confederation Cup insomma…

Lo Jassim Bin Hamad Stadium ha una capienza pari a 14 mila spettatori, e non è più bello e spazioso di alcuni stadi italiani come lo Juventus Stadium di Torino, il Mapei Stadium di Reggio Emilia (casa in Serie A del Sassuolo) il nuovo Sant’Elia di Cagliari, o il Dacia Stadium di Udine. Per scrivere quelli più recenti e conformi all’indice della modernità, senza star troppo a scomodare – lo faremo – l’importanza del valore storico di giocare in alcuni stadi come l’Olimpico, il San Paolo, il Meazza, il San Nicola o il Renza Barbera. Che una sistematina, poi, non farebbe così schifo.

Non è stato opzionato, quindi, il Qatar per una questione di riempimento. Anche perché non è che ci fosse proprio il pienone; e anche perché lo stadio in questione non ospiterà una – fosse una – partita dei Mondiali del 2022. Ma tra una maglietta bianconera, una rossonera, un kandura e un burqa, e seggiolini bianchi e neri, l’effetto era quello di un’atmosfera variopinta e astratta, neanche fossimo tra i sedili (vuoti) multicolor del Dacia di Udine.

 Gianluca senza confini

 Tra i nostalgici, sbuca un tifoso romanista.

 

Il punto è che l’emirato – quanto riporta l’Unità – ha messo a disposizione 6 milioni di euro da spartire. Una piccola parte alla FIGC e in egual misura tra le due squadre.

Come se si trattasse di un incontro di boxe, un pacchetto. Io ti pago per quello che valete, per lo spettacolo che potete offrire, per i campioni (pochi) che ci intratterranno stasera. Cioè questo. Sul piatto. Ecco perché se ci fosse stata l’Alessandria al posto del Milan non sarebbe cambiato niente, solo minori introiti comunque superiori a qualsiasi contesto italiano, offerto da imprenditori nostrani, poco disponibili a prendersi carico delle sorti della Supercoppa. Ecco perché se ci fossero state Barcellona e Real Madrid molto probabilmente vicino al 6 avrebbero posto un 0.

Quindi, in medias res, entra sulla scena la questione audience. Due anni fa l’incontro tra Juventus v Napoli, vinto ai rigori dai partenopei – per scrivere che, alla Juventus, il Qatar, per il momento non porta proprio bene – è stato l’undicesimo programma più seguito dagli italiani sulla Rai. Che cosa vuol dire? Il palinsesto Rai è da rivedere? All’italiano medio piace il calcio? Il periodo, ovvero quello natalizio, è perfetto per questo tipo di incontro? Ops, ci sto ricascando.

La risposta è positiva (non nell’accezione) a tutte le domande, e la soluzione è una combo presto scritta. Questa partita s’ha da fare. A Doha, il 23 Dicembre. Almeno fino al 2018 da contratto. Il boxing day italiano.

Che suona malissimo, ma mi permette di fare una considerazione. Il calcio inglese è quello che più di tutti e in vari ambiti ha anticipato i tempi. Nella fattispecie, stravolgendo il calendario del weekend, giocando ad ogni ora, ad ogni giorno, incasellando partite di Premier League qua e di Championship là. Piegandosi, ben volentieri, alle imposizioni del mercato asiatico. Eppure il Community Shield non è mai stato giocato in terra straniera. Perché? Beh, forse perché gli Emiri e gli Sceicchi posseggono già quasi tutte le squadre di calcio inglese. Vero. Perché in Inghilterra si ragiona in termini di pacchetto, mentre nel resto del mondo pallonaro ancora no. Vero anche questo. Fatto sta che, per dei tifosi inglesi, andare a Wembley significa vestirsi di sacralità. E Londra, per un inglese, è più accessibile che Doha, non propriamente dietro l’angolo. Aereo volendo.

Ecco altri due snodi, per me fondamentali. I valori dei luoghi e l’ esperienza diretta della partita.

Il Qatar, e non me ne voglia il qatariano imbattutosi in questo articolo, mi sembra la perfetta definizione della parola nonluogo di Marc Augè. Una nazione senza concetto d’antropologia. Costruita a tavolino per volere di poche famiglie in competizione a chi ce l’ha più lungo, senza l’impulso dal basso dell’Uomo. Perché dal basso, fondamentalmente, lì non proviene nessuno.

Quanti tifosi italiani – e tralascio il concetto di vero tifoso – del Milan e della Juventus erano presenti a Doha? Pochi. E senz’altro benestanti. Non credo di cascare nello stereotipo.

Ma il calcio non dovrebbe essere lo sport più popolare? In grado di far andare tutti oltre la quotidianità almeno per 90 minuti, a volte 120 più rigori, e rendere tutti sognatori, quindi liberi dai propri pensieri? Si può sognare a Doha stando stravaccati sul divano a Milano, a Torino o a Palermo? Scusate. Ma è contagioso, v’avevo avvertito.

Forse è cambiato il concetto di esperienza, non solo in ambito calcistico, e il valore esperienziale è sempre più un guanto virtuale e globale, capace di unire Qatar e Italia in un trofeo e due squadre blasonate. Motivo per cui un ragazzo nato a Doha può godere quanto un ragazzo nato a Milano. Forse.

Di sicuro, per alcuni, tutto questo varrà un dato auditel.

LA PARTITA

Il campo (in perfette condizioni) invece ha detto Milan. Dopo 120 minuti e 10 rigori. Dopo il gol di Chiellini di testa sugli sviluppi di un corner, e il gol di Bonaventura che inzucca illuminato dal sempre splendente Suso.

La prima chiave dell’incontro è stato il cambio forzato Evra per Alex Sandro. Il brasiliano è uscito al 32′ del primo tempo per un problema muscolare, dopo averci deliziato con un tunnel di controsuola su Suso. Inutile dire che il francese non ha il passo del 12 che, oltre a mattare la fascia sinistra, ha costretto l’iberico a preoccuparsi molto più della fase difensiva. Dinamica di gioco ampiamente invertita con l’ingresso in campo dell’ex United. La seconda chiave è stata un’ulteriore sostituzione obbligata. Quella di Sturaro, migliore in campo della Juventus, al cui posto è entrato Lemina. Er Basetta del Gabon non ha ben figurato – mettiamola giù così – concedendo spesso un facile dribbling al solito Suso, mancando quel raddoppio che Sturaro, in pratica, ha garantito per 80 minuti su tutti gli uomini a disposizione (e non). Manco ci fosse la garra di Mascherano sulla cancha.

L’ingresso di Lemina ha, quindi, obbligato Allegri a privarsi del suo uomo in più Cuadrado, decisivo dalla panchina. Ma soprattutto a esaurire le sostituzioni al 79′. Mentre Montella aveva da poco effettuato il primo cambio: dentro la leggerezza di Pasalic, fuori la geometria di Locatelli.

Il Milan è stato fisicamente più brillante, anche per le situazioni prima descritte, e mentalmente più ordinato. Prerogativa di quest’anno. Giocate semplici di transizione fino ai piedi di Bonaventura o Suso – pensateci voi – e raccoglimento collettivo e compatto in fase passiva, intorno alla roccaforte Romagnoli-Paletta. L’italo-argentino, a mio parere, il migliore in campo. E quest’anno sta capitando spesso.

 Mostruoso

 

Ciò non è stato sufficiente a battere nei 120 minuti una Juventus, comunque, tecnicamente superiore. E questa la dice lunga sulle sorti del campionato. Di fatto non è arrivata la giocata di Locatelli, decisiva come qualche mese fa. Ma i bianconeri, come accaduto nei tre precedenti incontri del 2016, non sono riusciti a dominare il Milan, sempre preciso nel seguire i dettami di Montella, al primo trofeo in carriera da allenatore, e per la prima volta apparso emozionato, umano in queste vesti.

Un pareggio giusto, quindi, maturato con le reti nel primo tempo, e che si è perpetrato per i restati 75 minuti di gioco effettivi, con occasioni lapalissiane per entrambe le squadre, capitate sui piedi nobili di Dybala e Bacca.

Il colombiano ha confermato il periodo sottotono, e neanche l’appellativo di uomo delle finali l’ha tirato su. É stato sciupone a inizio del primo tempo supplementare quando ha sbagliato il controllo e ha fatto scrostare Galliani dal trono, mentre si era dovuto arrendere alla smanacciata, poco spettacolare ma difficilissima, di Buffon a meno dieci dal termine regolamentare sul suo colpo di testa a schiacciare. Poi poco altro. L’ha sostituito al 102′ l’attesissimo, anche dal pubblico, Lapadula che non ha inciso e ha sbagliato il primo rigore della serie milanista. Non è una questione di essere Niang (il francese non è neanche entrato).

L’argentino, invece, è entrato a metà del secondo tempo al posto di Pjanić (in ombra) come trequartista. Una Joya (leggetelo letterale) per gli occhi veder giocare il ragazzo di Laguna Larga lì. Idealmente perché l’esperimento, con Higuaín e Mandžukić, non è riuscito un granché. Sorprende, però, coglierlo così scoordinato nel colpire la sfera, spedendola nel deserto al 116′. Ed è ancora più sconvolgente quando sbaglia l’ultimo rigore della serie juventina. Insomma, non è proprio una questione di essere Niang. É una questione, più che altro, di essere Donnarruma. Il napoletano, con la mano di richiamo, toglie il cuoio, dalla cannonata a incrociare dell’argentino, destinata sotto il sette. In quel tuffo, in quella mano, c’è l’ideale passaggio di consegna tra il numero 1 italiano che fu, e il numero 1 italiano che sarà. Ma il numero 1 italiano che fu – ce lo ha insegnato – è duro a morire.

Chi ha completamente steccato è Higuaín. Poco da scrivere. Mai incisivo, per niente ispirato. Non sbaglia il rigore, e questo è un passo avanti – suo, personale – perché nelle finali, e in patria glielo rimproverano ogni volta che ci va, dagli undici metri ha sempre fallito.

Si presenta, così, Pašalić sul dischetto. Nei suoi piedi, le sorti dell’incontro. Il croato con la faccia da ragazzino – lo è – sbuffa, prende la rincorsa, e spiazza Buffon.

Il Milan è per la settima volta supercampione d’Italia.

 Abate la tocca piano

FOTOGRAFIA DELLA SERATA

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