Pep Guardiola è un demiurgo; un abile artigiano bravo a prendere un ammasso di talento e trasformarlo in un giocatore fenomenale capace di incanalare le sue abilità per raggiungere un obiettivo. Il suo ultimo prodotto? Kevin De Bruyne.
La stagione 2017/18 passerà agli annali come la definitiva consacrazione del guardiolismo su scala internazionale. Dopo aver rivoluzionato il calcio con il Barcellona, Pep era emigrato in Germania, radicalizzando gli aspetti tattici di una squadra già fenomenale (il Bayern); lì aveva dominato la Bundesliga, sfiorando più volte il successo europeo.
In Inghilterra, dopo una prima stagione tutt’altro che esaltante, Guardiola ha avuto la coerenza di tener fede ai propri principi. Egli stesso, a fine campionato scorso, aveva ammesso che il calcio inglese è diverso da tutte le altre forme di football in giro per il mondo, perché la Premier è un campionato a tratti incomprensibile, in cui anche l’ultima in classifica può battere la prima della classe, e le partite non possono mai veramente dirsi chiuse.
Un capolavoro di mentalità
Quest’anno il City si presentava come una delle favorite, ma di certo non la più quotata. Lo United di Mourinho si era rafforzato; il Chelsea di Conte rimaneva comunque la squadra da battere, mentre Liverpool e Tottenham speravano in una definitiva consacrazione in campo nazionale. Oggi, a due partite dalla fine, il City raccoglie un bottino straordinario di 90 punti, con un vantaggio sulla seconda che non vale neppure la pena di quantificare.
La rosa del City è ultra-competitiva, ed è soprattutto profonda. Ma avere trentadue fenomeni in rosa non basta, per vincere trofei. Il capolavoro di Pep è stato soprattutto un capolavoro di mentalità; a tratti, questo City ha ricordato molto da vicino il Barcelona del periodo 2009-12, che incantava il mondo col suo pressing alto e con le geometrie di passaggi capaci di irretire qualsiasi difesa. Sarà forse l’iniezione di sangue latino americano, che mancava al Bayern ma non al City? Come a dire che i vari Aguero, Silva, Danilo, Otamendi e via discorrendo siano naturalmente inclini verso il tiqui taqua di sapore mediterraneo?
Idea suggestiva, ma non del tutto esatta. Perché Pep non ha agito solo sulla tattica; il guardiolismo estremo, quello del Barcellona che viaggiava con una media del 75% di possesso palla a partita, è diventato modello insostenibile. Pep ha scelto un’altra soluzione, compiendo una decisione saggia: ha adattato i suoi principi ai campioni che aveva a disposizione.
Pep e la corte rinascimentale
Il Manchester City assomiglia, in tutto e per tutto, a una corte rinascimentale. Sarà il colore azzurro delle divise, che ricorda i cieli della Cappella Sistina; sarà il nuovo stemma retro, che a qualcuno ricorderà le attenzioni filologiche che gli umanisti riservavano al passato classico.
Pep ha fatto vincere un principio. Ha voluto attorno a sé un gruppo di calciatori intellettuali: tutti i suoi uomini, quando sono dentro il rettangolo di gioco, pensano. Il portiere, Ederson, potrebbe tranquillamente fare il centrocampista; i difensori centrali sono stati scelti più per la loro capacità a impostare che per le qualità difensive. Per non parlare poi di quelli davanti, dato che il City gioca a tutti gli effetti con cinque punte, e molto spesso con un centrocampista offensivo come Gundogan davanti alla difesa.
Una squadra di intellettuali non può che produrre idee. Idee che si sono abbattute sul campionato inglese come un tornado equatoriale.
De Bruyne è un pensatore
Le squadre di Guardiola hanno sempre avuto bisogno di un cervello, in campo. Di un calciatore che fosse in grado di trasmettere il giusto esprit alla squadra. Ai tempi del Barça, i cervelli erano addirittura due: Xavi e Iniesta. In Germania, invece, tutto passava attraverso quell’incredibile agglomerato di neuroni calcistici che è Toni Kroos.
In Inghilterra, invece, il cervello è diventato un giovane fiammingo di venticinque anni.
Kevin De Bruyne è, a tutti gli effetti, un pensatore. Nella corte medicea del nostro Guardiola, lui è sicuramente il preferito; è l’Angelo Poliziano del Manchester City. Pep ha capito che De Bruyne non era un attaccante, né un esterno, né un trequartista; il suo posto era più lontano, dove la visuale di gioco si allarga e le possibilità geometriche e tattiche diventano esponenziali. Guardiola ha vinto il campionato soprattutto perché ha spostato De Bruyne – che rischiava altrimenti di far panchina – come mezzala nel suo 4-3-3. Gli ha dato in mano le chiavi della squadra. Lo ha trasformato in puro pensiero.
E i numeri gli danno ragione.
Kevin De Bruyne: bibliografia minima
Il nostro pensatore fiammingo ha disputato fino ad oggi 49 partite ufficiali. E le sue statistiche sono impressionanti: 12 gol e 20 assist. Non male, per uno che tecnicamente dovrebbe fare la mezzala.
Alcuni dei suoi assist sono così deliziosi da oscurare del tutto il gol del compagno di turno. Dovrebbero coniare un termine specifico per definire la corrente artistica di De Bruyne: perché sì, il belga ha uno stile tutto suo nel mandare in porta il prossimo. Lo raggiunge con palloni rischiosi, forti, e soprattutto rasoterra. Hanno un coefficiente di difficoltà altissimo, debruyniano. Un vero e proprio gesto rinascimentale.
I limiti del Rinascimento
Qual è la differenza principale tra il Barcellona e il City della gestione Guardiola?
Molto semplice: il Barça fu rivoluzione, il City rinascimento. Quando si fa la rivoluzione, la si esporta in tutto il mondo: persino l’Italia, patria per eccellenza del difensore tradizionale, ha obbligato i suoi stopper a partecipare alla manovra offensiva – con buona pace di Chiellini, che si lamenta spesso e volentieri di questo imborghesimento del reparto difensivo. Il City, invece, è rinascimento. Riscoperta tecnico-tattica, attuata da giocatori che pensano in maniera straordinariamente efficace.
La differenza tra rivoluzione e rinascimento sta nella loro praticabilità. La rivoluzione può arrivare dappertutto: guardate i principi dell’Illuminismo francese, nati tra le Tuileries e Versailles, e diffusi in ogni parte del globo. Il rinascimento, invece, è un fenomeno di corte, di città. Non riesce ad imporsi. Quando il mecenate se ne va, non resta che vivere di ricordi. Come accadde alla splendida Firenze dopo la morte di Lorenzo De Medici.
Guardiola ha costruito una delle squadre più sontuose degli ultimi tempi. Ma se non vuole arrestarsi di nuovo alle vittorie nazionali, forse dovrà pensare a qualcosa di nuovo. Se non vuole che il suo City rimanga tagliato fuori dalla Champions (come quest’anno), dovrà armare la sua corte. Perché in alcuni momenti della stagione, anche i giocatori più inclini al pensiero devono prendere le armi. Sennò si finisce schiacciati.
Ritratto impressionistico
Anche qui, la soluzione potrebbe già essere in casa. Al City manca quel briciolo di cattiveria sporca che serve per arrivare sino in fondo in Europa; il pensatore belga, però, sembra essere qui a dimostrare che quella forza il City la possiede già. Deve solo imparare ad usarla.
Perché De Bruyne è sì un pensatore, ma sa anche combattere. Da artista a trasformarsi rapidamente in capitano di ventura, come i prìncipi del Rinascimento. E basti un esempio a dimostrarlo: il match tra Manchester City e Crystal Palace del 31 dicembre scorso.
Siamo in piena lotta per il titolo: i tabloids non riescono ancora a decidere chi sia la favorita tra il City di Guardiola e lo United di Mourinho, eterni rivali. Nel giorno di San Silvestro, i Citizens affrontano una squadra alla disperata ricerca di punti: il Crystal Palace. Se riguardiamo gli highlights della partita, sembra che Roy Hogson avesse dato precise indicazioni ai suoi: centrare De Bruyne, farlo uscire dolorante, distruggere il cervello del City.
Al 13′ ci prova Dann, capitano del Palace. Esito: rottura del legamento crociato anteriore. De Bruyne, dopo poco, torna in campo. Nel finale ci riprova Puncheon, andando a rinfrescare la cicatrice procurata dal suo capitano. Esito: rottura del legamento crociato anteriore. De Bruyne è ancora in piedi, e anzi, sembra più forte che mai.
Un pensatore indistruttibile.