Alla fine, è tutta questione di maturità. Il calcio è nato come una passione ingenua, e solo con il tempo si è evoluto fino a diventare una cosa seria. La cosa più importante delle cose meno importanti come direbbe Arrigo Sacchi.
Cinquant’anni fa, i nostri nonni prendevano a pegno gli scarpini da gioco nelle sale degli oratori, rimediando vesciche paurose. Oggi, artisti del pallone come Enrico Campari progettano scarpe con tacchetti flessibili per ridurre la frequenza delle onde lunghe che, durante le vibrazioni di gioco, causano gli infortuni più gravi.
Cinquant’anni fa, il grande Helenio Herrera tappezzava gli spogliatoi dell’Inter con frasi motivazionali nel suo inconfondibile misto di milanese e spagnolo. Ora, al taca la bala si è sostituito un team di mental coach che aiutano i calciatori a spremersi fino all’ultimo in ogni partita.
La strada è stata lunga, ma ormai il calcio e la scienza viaggiano sullo stesso binario. Tutti i club professionisti si stanno attrezzando con i prodotti della rivoluzione informatica che ci circonda: dalle relazioni dei match analyst ai post dei social media manager, ormai il football non può più essere pensato senza la tecnologia.
Calcio giocato e calcio pensato camminano mano nella mano.

Calcio giocato, calcio pensato
Il calcio di oggi è un calcio scientifico. Lo si potrebbe chiamare cybercalcio, perché ormai internet e l’analisi algoritmica svolgono un lavoro di supporto che nessuno staff tradizionale potrebbe mai compiere adeguatamente. Ad esempio Meunier, terzino del PSG, ha candidamente affermato di aver firmato il suo primo contatto da professionista quando una squadra francese visionò i suoi video su YouTube.
Ma da dove arriva il cybercalcio? Si può individuare l’origine del matrimonio tra football e scienza?
Io credo di sì, e in tutta onestà penso che il padre del calcio scientifico sia Albert Camus.
Camus nacque in Algeria, in una città che oggi si chiama Dréan, nel 1913. Prima di diventare uno dei più grandi scrittori del Novecento, Albert giocava a pallone per le strade di Algeri e si era pure fatto un nome come portiere. Poi, a diciotto anni, contrasse la tubercolosi che lo segnò per tutta la vita e lo allontanò per sempre dal calcio giocato.
Dal calcio giocato, appunto. Costretto ai margini del rettangolo di gioco, Camus fu tra i primi a riflettere sul calcio come metafora della vita. Fu il primo a dargli un valore ontologico. Non a caso, tra le sue massime più conosciute troviamo frasi del genere:
Tutto ciò che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio.
Camus faceva il portiere, ruolo solitario per eccellenza. Condannato come tutti i numeri uno a guardare il gioco da distante, ha sviluppato un modo distaccato di pensare al calcio. Ed è con la tubercolosi di Camus che comincia il calcio pensato, il calcio di tutti coloro che verranno progressivamente marginalizzati dal professionismo, ma troveranno comunque un modo efficace di incidere sullo sport.

Il primo apporto della scienza
Come sempre, gli scrittori ci arrivano prima. Questione di intuizione, o di appercezione sensoriale, come direbbero i neuroscienziati: la capacità di leggere prima la realtà, di intuire il futuro e svelarlo a tutti gli altri. I più grandi autori di tutti i tempi non sono che numeri 10 che vedono autostrade dove gli altri intuiscono i sentieri.

Dopo Camus, per tutto il resto del Novecento gli scrittori e gli studiosi hanno rincorso il gioco del calcio cercando di carpirne l’antico segreto. E la parte del leone l’ha fatta l’antropologia, disciplina ibrida, a metà tra lo studio delle origini della razza umana e la ricerca di rituali coi quali circondiamo costantemente la nostra vita.
Credo che la più grande conquista scientifica dell’antropologia sia stata scoprire la chiave del successo del calcio. Perché il football è così amato, a qualsiasi latitudine? Ce lo spiega Vladimir Dimitrijevic, ne Il re calcio.
Il calcio è il re dei giochi. Per quale motivo? Perché vi riporta alla preistoria dei vostri movimenti. […] Potete adoperare soltanto piedi e gambe, gli antenati sottosviluppati delle mani e delle braccia. Ed ecco che, non potendo più fare ciò che per voi sarebbe normale o naturale, siete ritornati a funzioni arcaiche. Costretti a riannodare il legame con una memoria animale sepolta dentro di voi.
Per quanto possa sembrare banale, il calcio ha successo proprio perché è fatto coi piedi. I piedi, mani regredite che non sono capaci neppure di afferrare un oggetto, figurarsi di riprodurre la destrezza e la precisione degli arti superiori. I piedi ci riconnettono alle zampe, e credo che la chiave stia nella perifrasi memoria animale. Una reminiscenza di tempi lontanissimi, che neppure la società iper-civilizzata di oggi riesce a distruggere del tutto.

L’evoluzione dello sport
Se ci pensiamo, sono più o meno cinquanta gli anni che ci separano da quel calcio in bianco e nero, dal sapore un po’ amatoriale, che in molti rimpiangono come autentico. Nel frattempo, che cosa è successo? Come si è passati da Camus e Dimitrijevic sino alla scienza sportiva di oggi?
È successa una cosa fondamentale: la nascita dell’industria sportiva.
Il duo rappresentato da Silvio Berlusconi e Arrigo Sacchi è uno dei massimi emblemi del nuovo calcio degli anni Ottanta. Sacchi era un tecnico che proveniva da categorie inferiori, ma aveva sistemi di allenamento rivoluzionari: quando Berlusconi spese il capitale necessario per costruire una squadra altamente competitiva, il profeta di Fusignano la rese pressoché imbattibile.
Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta i principali club europei cominciano ad accumulare capitali sempre più ingenti. Mentre gli ingaggi dei giocatori crescono (così come il divario tra professionismo e amatoriale) le strutture calcistiche si fanno più complesse. Ormai tutti utilizzano una preparazione atletica basata su rigorosi principi scientifici, e ben presto per ottenere la vittoria in una competizione si rende necessaria una cura maniacale verso ogni minimo dettaglio.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Oceano, un’altra industria sportiva compiva passi di gigante. Si tratta della National Basketball Association, la NBA, che proprio alla fine del secolo comincia a introdurre l’uso delle statistiche per migliorare le performance dei giocatori predicendo addirittura i risultati delle partite. In Europa non ci abbiamo messo molto a capire che, anche per il calcio, quella era la sola strada percorribile.
Match analysis
Per molto tempo la match analysis è appartenuta a figure stravaganti del calcio. Allenatori alla Bielsa, completamente ossessionati dalla loro visione filosofico-calcistica: uomini sedotti dal potere della scienza e pronti a tutto pur di obbedire alla legge della statistica. Nel giro di dieci anni, però, è cambiato tutto. Il futuro del calcio passava per gli algoritmi.

Pro e contro
Molti si ricordano l’assurdo 3-3-1-3 utilizzato da Guardiola nei momenti più sperimentali vissuti in Germania. Una formazione insolita, ontologicamente squilibrata, che però ci appare ragionevole se la illuminiamo con la luce della match analysis.
Guardiola schierava molto spesso un solo centrale di ruolo, affiancato da due centrocampisti mascherati da terzini (Lahm, Kimmich, Alaba). In fase di costruzione, gli esterni bassi avevano l’obbligo di portarsi al centro del campo, senza allargarsi come fanno di solito. Guardiola stava trasformando in realtà il più famoso risultato delle predizioni calcistiche. Le fasce non servono a nulla, perché la chiave sta nel mezzo.

Una scelta coraggiosa, ma produttiva. Non a caso, Guardiola ha riutilizzato questa formazione centripeta al City, dove sulle fasce (teoricamente) laterali giocano dei mediani (Delph, Fernandinho) o addirittura dei trequartisti (Zincenko, Foden). Gente capace di gestire il pallone e di mantenere un controllo costante del centrocampo in un campionato complesso come quello inglese.

The (video)game
Le vie del cybercalcio sono infinite. L’Avant-Garde Caennaise è una squadra di sesta serie guidata dal trentatreenne Julien Le Pen, allenatore “formale” del team, che deve sottostare alle decisioni di un collettivo di duemila allenatori-tifosi che votano ogni aspetto della squadra (dalla formazione ai cambi) in base a un’accurata serie di statistiche in tempo reale. Tutto passa attraverso l’app United Managers e i risultati sono incredibili: l’anno scorso i francesi sono stati promossi e quest’anno comandano la classifica.

Ora, l’impatto di questo (quasi?) videogioco sul calcio reale è ancora tutto da verificare. Bisogna infatti tener conto che l’Avant-Garde Caennaise ha acquistato giocatori più forti di quelli che militano nel corrispondente della nostra prima categoria e sarebbe davvero interessante immaginare una simile gestione in area professionistica.
The brain game
Ma le novità non finiscono. Il cybercalcio è entrato in orbita e i club europei fanno a gara per investire ingenti somme di capitali nella costruzione di nuovi modelli algebrici applicati al gioco. La stessa daily routine del calciatore è profondamente orientata a un solo risultato finale: il miglioramento del pensiero collettivo.

Il pensiero collettivo è il mantra del calcio moderno. E proprio in questo senso si è mossa una delle ricerche più interessanti degli ultimi tempi, guidata dal Professor Massimo Marchiori dell’Università di Padova:
Il cervello vede il campo in maniera diversa da come lo vediamo noi; l’obiettivo è pensare nel modo migliore impiegando il minor tempo possibile. Questa nuova visione è in grado di svelare i segreti del calcio.
Ma la ricerca del team di Marchioro ha identificato persino un nuovo spazio fisico all’interno del campo da calcio, il cosiddetto contro-centrocampo, ossia la zona centrale del rettangolo che non viene occupata dalla palla in quel preciso momento. Si tratta dell’area nella quale avvengono le transizioni offensive/difensive dopo la perdita della sfera. Chi possiede la superiorità numerica, aumenta esponenzialmente la propria pericolosità.
La frontiera del calcio pensato è avanzata di parecchi chilometri. E non è detto che il colpi di scena siano finiti qui.