La spedizione azzurra
Un punto, tre gol subiti, uno segnato (su rigore). Nella classifica virtuale del nostro mini-torneo inglese, l’Italia sarebbe ultima a un punto, e dunque eliminata ai gironi: espressione a cui, negli ultimi mondiali, ci siamo dovuti abituare nostro malgrado.
La nostra nazionale non ha giocato realmente contro Argentina e Inghilterra, ma contro i propri fantasmi. Perché guardando gli azzurri si ha la sensazione che la maglia, la selezione stessa, sia stregata.
Forse è dall’estate del 2006 che non riusciamo a guardare oltre. Alzando la coppa d’oro sotto il cielo di Berlino, la nostra nazionale si è fermata. Gli epigoni del mondiale tedesco hanno avuto davanti ai loro occhi un modello irraggiungibile, e non sono riusciti a dare una vera e propria identità all’Italia campionessa in carica. E si sono dimenticati di pensare al futuro.

A dodici anni dal quarto mondiale portato a casa, tocchiamo il punto più basso dell’ultimo mezzo secolo, e siamo costretti, come un ghepardo in cattività, a far allenare le altre nazionali.
Sapore agrodolce
In Inghilterra, l’Italia ha fatto vedere cose buone e cose cattive. In primis, il 4-3-3 che Di Biagio ha scelto (quasi spinto dal furor di popolo, che ha rigettato istintivamente ogni altro schema dal sapore venturiano) ci ha regalato una quarantina di minuti (su 180) di buon calcio. L’asse Jorginho-Insigne ha ricordato l’azzurro di Napoli, e la difesa ha fornito, nella media, una prestazione più che soddisfacente.
Le lacune, però, sono troppo evidenti. Contro l’Inghilterra, gli azzurri hanno avuto tre occasioni clamorose nei primi sette minuti, e Immobile non è mai riuscito a centrare la porta. Dall’altra parte, il criticatissimo Vardy -gli inglesi non gli perdonano il fatto di essere una punta operaia, poco elegante per i nuovi canoni estetici della Premier League- ha segnato alla prima occasione, sfruttando un clamoroso calo d’attenzione della nostra difesa. Ci manca la giusta dose di malizia, che è componente fondamentale di questo sport.
Il bivio italiano
Il nostro mini-mondiale, come lo ha definito Di Biagio, è ormai giunto a metà. Sembra doveroso fare un primo bilancio, cercando di essere obiettivi.
L’Italia non mancava la qualificazione al mondiale dal lontano 1958. All’epoca, i gironi di qualificazione erano da tre, e l’Irlanda del Nord ci strappò la qualificazione (ultimo arrivò il Portogallo) vincendo lo scontro diretto in casa. In quel mondiale esplose Pelè: sembrava la fine del calcio all’italiana, e l’inizio del calcio carnascialesco di San Paolo. Il 1982, poi, smentì questa prospettiva.
In quel lontano 1958, l’Italia non disputò amichevoli tra la fine della qualificazione e l’inizio del torneo. Non si generò l’inusuale fase di transizione a cui assistiamo ora: una nazionale blasonata e pluricampione che è costretta al rango di sparring partner, di gregario per i protagonisti.

L’Italia è a un bivio, calcistico e federale. Abbiamo davanti agli occhi l’esempio dell’Olanda, che ha subito un tracollo molto simile al nostro. Dopo lo splendido mondiale del 2010 e l’inaspettato terzo posto nel 2014, gli Oranje sono ormai alla seconda esclusione consecutiva da un grande torneo, e forse la maglia che fu di Cruijff e Van Basten rimarrà fuori dalle partite che contano per altri anni a venire.
La drammatica situazione olandese dovrebbe essere un canto di sirena per la nostra nazionale. L’Olanda dimostra che, nel calcio, la tradizione e la storia non possono salvare dal tracollo. Occorre serietà, e soprattutto bisogna essere onesti e ben poco nostalgici. L’Olanda sta ancora coltivando il mito del 2010, della romanticissima finale persa contro la Spagna di Iniesta. Hanno fatto il nostro stesso errore.
Solo che noi, forse, dalla lunga dipendenza dal 2006 ci stiamo per uscire. Dopo dodici anni di complessa transizione, la federazione ha affidato la panchina a Di Biagio e l’ufficio centrale a Costacurta. Uomini – calciatori – di azione, ben poco inclini ai compromessi, e ancora abbastanza idealisti. Riusciranno però a gestire questa delicatissima fase del nostro movimento calcistico? O falliranno, condannandoci al nobile anonimato olandese?
La sindrome di Augusto
Quello della nazionale è un problema di transizione del potere. Nel calcio, ogni grande vittoria richiede un rinnovamento: significa guardare avanti ed essiccare i sentimenti, se necessario. Nel 2014, nella Germania campione in carica, dal tetto del mondo fior fiore di professionisti hanno dato l’addio alla nazionale. Pezzi da novanta come Lahm e Schweinsteiger, che potevano dare ancora qualcosa (in termini di esperienza e tecnica) alla loro selezione.

In Italia si sente spesso parlare di ricambio generazionale. E non è solo un problema calcistico: è un dilemma sociale. Sembra che la penisola se lo porti dietro sin dai tempi di Augusto, che fondò l’Impero di Roma ma, poiché amava troppo il suo ruolo di primus, non si curò di dare una legge ereditaria allo Stato. Questa sindrome di Augusto, questo guardare al passato glorioso senza programmare il futuro, sarebbe poi stata la rovina di Roma. Una rovina nata cinque secoli prima della fine effettiva dell’Impero.
Quindi, i guai della Nazionale hanno profonde radici. Qualcuno se n’era accorto, quasi tutti hanno preferito non farsi troppe domande. Ora, a Di Biagio e Costacurta l’ingrato compito di salvare tutto in extremis.
Translatio imperii
La nostra nazionale sente come un macigno il fardello della tradizione. Forse solo gli inglesi condividono con noi lo stesso grado di angoscia; loro il calcio l’hanno inventato, e per decenni si sono sentiti quasi obbligati a vincere ogni partita. Il peso della Storia è un fattore che non va dimenticato, ma non deve diventare totalizzante. Di Biagio potrebbe guardare all’esempio di Carlo Magno, che nell’800 si fece incoronare imperatore col chiaro intento di emulare Augusto.
Carlo Magno forgiò il suo impero in maniera ottimale, con rispetto e ammirazione verso il modello romano. Ma non per questo si dimenticò che viveva in un sistema feudale, dominato da altre leggi e altre genti. Se Di Biagio e Costacurta riusciranno a bilanciare programmazione e tradizione, forse anche noi riusciremo a passare indenni attraverso la nostra translatio imperii calcistica.
Un papa di transizione?
Il punto è: Di Biagio potrà veramente fare qualcosa di concreto, considerando che a maggio verrà probabilmente sostituito da un allenatore più blasonato? E lo stesso Costacurta, che in fin dei conti riveste un ruolo d’eccezione, potrà davvero agire sulle complesse leve burocratiche della FIGC?
Forse stiamo vivendo dentro un papato di transizione, e non ci si dovrebbero nutrire aspettative troppo alte. I papati di transizione sono fatti per prendere tempo, per riorganizzarsi, per scegliere l’uomo forte a cui affidare la guida del gregge. Ma sembra quasi pleonastico ricordare che uno dei più grandi papi della storia, quel Karol Józef Wojtyła che si fece chiamare Giovanni Paolo II, doveva durare pochi anni e invece, con il terzo pontificato più lungo della storia, guidò il mondo oltre la guerra fredda e la minaccia nucleare.
Di Biagio è un papa di transizione, ma questo non gli impedisce di dire messa a San Pietro. E la sua mano è già evidente: comportandosi da selezionatore, Di Biagio ha schierato l’Italia con un naturale 4-3-3, che sfrutta i giocatori nei loro ruoli più efficaci. Con l’Argentina e con l’Inghilterra, non c’era nessuno fuori ruolo. Le prestazioni arriveranno. Ci vuole pazienza.

Furor di popolo
All’Italia è toccata in sorte una tifoseria di sessanta milioni di persone. E il furor di popolo si è spesso fatto sentire, in questi ultimi anni. Nel bene e nel male, sia chiaro: la nazionale di Conte, che forse era la meno tecnica della nostra storia, godé di un sostegno popolare senza precedenti. Ventura, invece, è diventato una specie di generale Cadorna applicato al calcio, e non se la sta passando affatto bene.
Contro Inghilterra e Argentina non possiamo recriminare nulla alla nazionale, sul piano dell’impegno. Magari abbiamo mostrato poca malizia, a volte eravamo intimoriti dall’avversario. Ma la squadra non si è nascosta dietro a nulla, non ha messo la testa nella sabbia. Si tratta di un inizio, anche se alla gente potrebbe non bastare. C’è la volontà di guardare oltre, finalmente. Se e quando Buffon dirà addio alla nazionale, non ci saranno più ricordi fisici di quel lontano 2006. E allora non avremo più scuse.
Bob Dylan diceva che l’ora più buia è proprio quella prima dell’alba. L’azzurro notte della nazionale potrebbe tornare un’azzurro splendente, mattutino. Ma siamo a un bivio, e le prossime scelte federali saranno decisive. Guardiamo al nord Europa, tra il modello Olanda e il modello Germania. I nostri papi di transizione hanno ora tutte le carte in regola.
