Attraverso la sua sofferenza

Per quanto uno ci provi, la società di oggi chiede di emergere dalla massa, riuscendo, nello stesso tempo, a rompere gli schemi senza uscire dal loro contorno. Ci chiede anche di essere open mind, ma entro i limiti da lei imposti. E infine, ci chiede di cercare la vittoria. Nel loro essere un controsenso, queste parole trovano pratica attuazione in quelle situazioni nelle quali, apparentemente senza nessun motivo particolare, si cerca la redenzione di sè stessi ai danni di altri.

Siamo – si, parlo anche di me – alla costante ricerca di qualcosa che ci valorizzi, che ci gratifichi, che faccia sapere al mondo che noi esistiamo. E per questo cerchiamo di lasciare traccia di noi: lungo le strade che percorriamo, nelle teste delle persone che conosciamo; abbiamo un costante bisogno di sentire che esistiamo.

C’è chi riesce a farlo cantando, chi scrivendo, chi insegnando. E chi, in maniera incredibilmente ispirazionale, praticando sport.

Il tennis è la perfetta metafora della vita odierna: bisogna mandare una pallina dall’altra parte di una rete,  facendo sì che l’avversario non la prenda. Sostanzialmente si deve provare a essere più forti dell’avversario.

Semplice. Un po’ come quando ci dicono di cercare un modo per scavalcare gli ostacoli che ci si parano davanti, superandoli con caparbietà e decisione. Lo sport tutto, ma il tennis in maniera propriamente mirata, riesce a incarnare questo desiderio.

Ma per riuscire, tanto nello sport, quanto nella vita, bisogna essere estremamente al di fuori di quegli schemi di cui sopra, cercando di pensare e operare in maniera non convenzionale all’interno di un mondo che ci vuole docilmente addomesticati.

Open

Le centinaia di migliaia di palline che Andre Agassi ha gettato ogni giorno dall’altra parte della rete, sono state la ragione per cui ha amato e odiato il tennis per tutta la sua vita. Si è trovato un giorno a guardarsi allo specchio, e a chiedersi cosa sapesse fare davvero nella vita. E la risposta l’ha trovata in un campo e in una racchetta.

Ogni mattina una pallina veniva lanciata, e puntualmente doveva fare in modo di tirarla al di sopra di quella rete che divideva in due perfette metà quel maledetto campo, delineato dal padre nella loro casa in Nevada. Una sensazione di routine mista a odio, nei confronti di quell’ingranaggio escogitato per forgiarlo, ha traboccato per anni nella testa di Andre.

Pensare che questo avveniva negli anni ’70, fa riflettere su come, in maniera del tutto ciclica, il tempo e la storia si ripetano. Ancora oggi, sono numerosi i genitori che impegnano la vita dei propri figli, convincendoli che, per il loro bene, hanno la necessità vitale di primeggiare in tutto. E quindi, per riuscirci, devono essere sempre pronti. E allenarsi. E lanciare migliaia di palline oltre la rete ogni giorno.

 

Ed è durante questi allenamenti che un tarlo comincia a insinuarsi, lentamente, all’interno: se non dovessi farcela? Se non riuscissi in quello per cui mi sono preparato per tutta la vita? Allora bisogna essere pronti sempre, perchè non sia mai arrivi il momento a cui rispondere, bisogna farsi trovare e stringere forte la racchetta.

Ma pronti per cosa? Per una pallina che dovrà arrivare a 100 km/h verso di noi? O per fare in modo che mamma e papà siano fieri che quella palla non ci prenderà in faccia? La risposta forse sta nel mezzo, ma di sicuro non ci si può allenare per essere pronti a tutto, ma solo per provare a vincere. Ricordandoci, però, che non è l’unica cosa che conta.

Così, durante una partita di tennis, si cerca il più possibile di ragionare nell’arco di un tempo decisamente breve. Provare a indovinare dove potrebbe tirare il servizio l’avversario, mette a dura prova i neuroni, che comunque sono stati allenati per vincere. E in questo momento, in cui si entra in campo e si capisce che si è davverso soli, si capisce che ci si trova a un bivio: la partita terminerà con una vittoria o con una sconfitta.

Vittoria o sconfitta secondo Open

E allora si aprono gli scenari: in caso di sconfitta ci si chiederà cosa si sia sbagliato, perché quel rovescio non è stato smorzato al punto giusto, perché ho provato a tirare un lungolinea col campo coperto, come mai la prima di servizio l’ho tirata a uscire e non al centro. Insomma, inizieranno una serie di domande rivolte a sè stessi, che termineranno solamente in un modo: rabbia.

E sarà poi questa rabbia che alimenterà la necessità di rimettersi di nuovo, ogni mattina e ogni pomeriggio, a tirare palline contro una macchina, dall’altra parte di una rete che odiamo a tal punto da amare. E che amiamo a tal punto da sapere che non si potrà mai amare nessuno come lei.

Ma se in caso contrario, dovessimo uscire dal campo con la vittoria in tasca, allora state pur certi che quella sensazione, quel sentimento di perfezione e d’invulnerabilità, ci farà credere di non aver sbagliato nulla, di essere stati perfetti. E durerà poco.

Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente.

Open – Andre Agassi

In questa precisa situazione, in cui il sapore della vittoria non lascia lo stesso amaro, ma neanche la stessa sensazione di sazietà della sconfitta, che s’inserisce la domanda successiva a cosa sappiamo fare: vogliamo davvero fare questo? La paura di perdere e la continua ricerca della vittoria, sta seminando costantemtente una strada che percorriamo senza poter scegliere.

E’ il mondo che ci vuole vincitori o noi che abbiamo deciso di provare a esserlo? O, addirittura, è forse qualcun altro che ha messo le mani in pasta nelle nostre vite, costruendo delle macchine lanciapalline che non si fermano mai?

In questo clima di precise indicazioni, dimentichiamo spesso la cosa più importante: si può scegliere. Andre odiava il tennis; ma è stato indotto ad amarlo, perchè quella sensazione di appagamento e di soddisfazione che fare un 15 gli dava, era la sua aspirazione. Che nel corso degli anni ha preso la forma di una medaglia d’oro olimpica, quattro Aus Open, due U.S. Open, un Wimbledon, un Roland Garros e quant’altro.

Lui ha scelto di lasciar scegliere il padre e il tennis, per lui. E ha scelto di vivere la parte restante della sua vita abbracciato a quella disastrosa quanto opportuna decisione. E ora, in un mondo in cui ci barcameniamo per piacere a chiunque, ci siamo dimenticati di scegliere. Stiamo facendo l’errore che siano altri a scegliere per noi.

A indicarci che racchetta usare, che pallina prendere, che dritto tirare. Stiamo rotolando lentamente in un’indifferenziata raccolta di menti sottoposte a un lavaggio continuo, dove la parola chiave è una e una sola: emergere. Non importa come, non importa perchè. Emergere.

Bisogna farsi notare?

Ma tutto questo – vittoria, sconfitta o altro – è il risultato di domande che fin quando non siamo in grado di intendere e volere si pongono i nostri genitori, ma nel momento in cui compiamo 18 anni decidiamo se confermarle o se cambiarle.

Come Open fa ben capire, Andre ha dovuto cambiare modo di essere, di allenarsi; ha cambiato modo di approcciare alla vita. Provando a esasperare il suo concetto di divertimento, si è lasciato andare a piaceri e vizi che lo hanno portato a diventare un’icona pop in uno sport dal taglio decisamente classico. E’ diventato un personaggio al di fuori del tennis, un modello per chi, nella società di allora, ci stava stretto.

Mi noteranno di più così

Così è nato un movimento che ha dato linfa a tutti coloro che pensavano fuori dagli schemi, che si muovevano fuori ritmo, che vivevano con scelte fatte in autonomia. Ma non per questo, perdenti. Perchè non si vince solo nell’attimo in cui la coppa si ha tra le mani, ma quando si capisce il percorso fatto per arrivare ad alzarla.

Si vince quando si capisce che non è così fondamentale farsi notare o primeggiare su tutti, bensì quando ci si rende conto che la cosa più importante è essere fieri di sè stessi.

Viceversa, si perde quando non si ha stima di sè stessi; quando si cade e non ci si rialza perchè non siamo stati in grado di prendere la vita di petto. E come scusa diciamo che è troppo dura. Adagiandoci sulle solite frasi fatte, contornate da quel continuo piagnucolio di sottofondo.

E ripensiamo a quella macchina sparapalline, a quelle scelte fatte dai nostri genitori, pensando che avevano ragione a spronarci e a far sì che fossimo dei vincenti. Ma non è ancora questa la visione giusta della vita. E forse neanche del tennis.

La spiegazione di tutto questo potrebbe risiedere in un’altra frase di Agassi, che terminerà questo scritto. Ma prima voglio dirvi che la modificherei in maniera molto lieve, dicendo che alla fine, tra un opposto e l’altro, esistono mille sfumature, che si colorano in base alle scelte che facciamo, giuste o sbagliate che siano. Quindi non è fondamentale emergere, farsi notare, brillare; è fondamentale guardarsi allo specchio e sapere che gli occhi che ci guardano, sono fieri di ciò che vedono.

La vita è un incontro di tennis tra estremi polarmente opposti. Vincere e perdere, amare e odiare, aperto e chiuso. È utile riconoscere presto questo fatto penoso. Quindi riconoscete gli estremi contrapposti in voi e se non riuscite ad accettarli o a riconciliarvi con essi, almeno ammetteteli e tirate avanti. L’unica cosa che non potete fare è ignorarli.

Open – Andre Agassi

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