Avere meno di trent’anni in una quarantena senza sport fa riflettere.
«O Computer Pensiero Profondo» disse
«il compito per il quale ti abbiamo progettato è questo: vogliamo che tu ci dia la Risposta!»
«La Risposta?» ripeté Pensiero Profondo.
«La Risposta a cosa?»
«Alla Vita!» esclamò Fook.
«All’Universo!» disse Lunkwill.
«A Tutto Quanto!» esclamarono all’unisono.
(D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, p.182, Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2015)
Quando Giuseppe Conte annuncia il Lockdown, Catanzaro e Bari sono ancora in campo al Ceravolo: il cronometro segna il 47’ e Massimiliano Carlini, appena entrato tra i padroni di casa per Cristian Riggio, si becca un cartellino giallo. Materiale a sufficienza per i teorici del Butterfly Effect. Poco più di quaranta giorni, sei settimane e un cambio d’ora che ha allungato irrimediabilmente, almeno fino al prossimo autunno, le riflessioni pomeridiane: sempre più cupe, sempre più complesse. Sempre più vere. Tanto è passato dal “prima”, linea di impercettibile, quanto necessaria demarcazione tra ciò che siamo stati, appunto, “prima” di tutto questo, e ciò che saremo. Se non ci troviamo a bordo di una nave spaziale che viaggia spedita grazie ad un Motore ad Improbabilità Infinita lo dobbiamo all’esclusivo (o maledetto) dono che separa la nostra realtà, quella terrestre, dalla fantascienza. Il caso. Fatto sta che, dissociati dalle regole del nostro stesso respiro, abbiamo sì riacquisito il dominio sul nostro tempo, ma perso le nostre abitudini e i nostri vizi: il Coronavirus ha sospeso perfino quelle poche certezze del vissuto che, quasi nella totalità dei casi, corrispondevano del tutto alle diverse e personali definizioni di sport. Ci siamo ritrovati, quindi, con una “Domanda Fondamentale” in testa: «Cosa significa, perché e cosa ci lascerà tutto questo?».
In quarantena a meno di trent’anni
Come abbiamo resistito – anche – senza sport
Avere meno di trent’anni e assistere, in un lunedì sera, ad uno dei più importanti annunci alla Nazione dell’ultimo secolo rientra a pieno titolo nelle coincidenze più strane e improbabili che la vita ti possa offrire: non hai ancora un lavoro stabile, il Paese chiude ed è pure lunedì.
E fuori fa freddo, troppo freddo. E, soprattutto, non puoi lontanamente immaginare che un giorno non troppo lontano ti ritroverai a fissare con occhi secchi (quando non sbatti le palpebre non ci sono alternative) la foto di un corteo di bare che lascia la città di Bergamo perché quelle bare lì, persone prima che altro, non sanno più dove metterle.
Ci siamo riscoperti “solidi”: prima certezza. La nostra volontà è diventata il nostro presente, i nostri pensieri si sono trasformati nelle nostre parole, nelle nostre mani, nel nostro corpo.
Abbiamo, più direttamente, convertito in teoria la pratica “liquida” che Bauman ha attribuito, a ragion veduta almeno fino a qualche settimana fa, alla società che rappresentiamo.
E con un saluto non più indifferente siamo ritornati ad essere comunità.
Rinascere comunità
E senza sport a tenerci compagnia: guarda un po’ il destino beffardo. Nel periodo in cui siamo rinati comunità non c’è neanche un evento sportivo di cui godere (o di cui rammaricarsi) insieme. Siamo stati cresciuti a pane e «l’Italia è un Paese unito solo quando gioca la Nazionale» e adesso non c’è più una Nazionale che nel brevissimo (mesi) può godersi il Paese unito.
A spese altissime: nel nostro esserci-per-la-morte di cui discute il professor Heidegger in Essere e Tempo, riconosciamo ciò che siamo stati, più di prima, ultimamente.
Tristemente, siamo, siamo stati e saremo “dopo” (tutto ciò, dopo la quarantena) quanto noi definiamo come “senso”, in cammino costante verso ciò che non è ancora, superando ciò che è già stato: noi, per intenderci, erranti nel mondo.
Ed è proprio questo In-der-Welt-Sein, l’esserci nel mondo, a braccetto strettissimo con il Mit-Sein, l’essere-con-l’altro (e per l’altro), che dona ulteriore significato a ciò che abbiamo vissuto. Abbiamo smesso di scioglierci: ci siamo solidificati insieme.
Ripensando ancora a quel lunedì sera, viene in mente una correzione a quanto scritto prima: non hai ancora un lavoro stabile, il Paese chiude ed è pure lunedì. E hai una lista infinita di Serie TV e film da recuperare, in quarantena a meno di trent’anni. Quanto siamo ingenui.
Siamo i nostri ricordi
Lo sport come collante con il passato
Per la fredda cronaca: la partita del Ceravolo finirà con il punteggio di 1-1.
Alla rete di Antenucci risponderà, poco dopo l’ammonizione di Carlini, Kanoute.
Equa distribuzione della posta in gioco: a volerci vedere un senso, se questa sarà stata l’ultima gara dell’attuale stagione di Serie C (per voi del futuro: mentre scriviamo questo pezzo il presidente della Lega Pro, Francesco Ghirelli, sta tirando le orecchie a chi ha fatto uscire l’ipotetica proposta della sospensione definitiva del campionato post quarantena) il destino avrà dimostrato ancora una volta di avere un discreto senso dell’umorismo.
Riacquistato (ad un prezzo che abbiamo definito altissimo) il nostro corpo, è sopraggiunto il problema del nostro passato: la dimensione corporea del vissuto è la resa concreta della memoria che già è e già non è più. Insomma: siamo ciò che siamo già stati.
Dal punto di vista sportivo tutto questo può essere tradotto nel termine “nostalgia”.
Non c’è nient’altro che ci lega al passato come un evento sportivo che ne ha segnato i momenti e modificato (perché la mente li rielabora continuamente) i ricordi. In un certo senso, quindi, siamo i nostri stessi ricordi: seconda certezza, questa.
Sono aumentate, in media, le ricerche riguardanti le più importanti giornate di sport vissute dal nostro Paese: prendendo in esame il periodo che va dal 10 marzo al 20 aprile e analizzando la tendenza degli ultimi tre anni, si nota un trend maggiormente costante dei termini di ricerca “Italia-Germania” e “Italia-Francia”. In questo senso, le iniziative promosse da Sky Sport e RAI con la trasmissione di alcune degli incontri calcistici più importanti nella storia italiana hanno fornito un contributo importante.
Just can’t get enough…o no?
La Terra non finisce con noi: lo sport forse sì
«Pretendevo di essere un’eccezione. E invece, la notte del due giugno è stata l’ultima anche per me. Il resto, il ‘dopo’, niente altro che una frode della superbia solipsistica.»
(G. Morselli, Dissipatio H.G., Gli Adelphi, 2012)
Quando il protagonista di Dissipatio H.G. di Guido Morselli, che poi altro non è che l’alter ego dell’autore, si risveglia lontano da una Crisopoli assolutamente deserta, uno dei primi e opprimenti pensieri che muovono il suo andare è «Ma gli altri? Ma il mondo?».
Non solo siamo i nostri ricordi, ma siamo anche riusciti a metterli da parte.
Fatta eccezione per i due esempi di cui sopra, la tendenza riscontrata nelle ricerche di termini come “Juventus”, “Inter Champions”, “Milan Champions”, o “Serie A” e “Calcio” registra un calo rispetto allo stesso periodo nel 2019 e nel 2018.
E noi che del «senza calcio, senza sport non si può stare» abbiamo fatto il motivo ricorrente delle nostre vite, ci siamo mostrati nella nostra naturalezza di “animali domestici” e “politici” (come abitanti della polis più grande, qual è il mondo) rispettando il nostro Essere-nel-mondo e il nostro Essere-con-gli-altri, distruggendo alla radice il concetto di “Just can’t get enough”.
Pretendevamo di essere un’eccezione alla vita senza sport, e invece siamo diventati la regola. «Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi, scrive ancora Morselli.
La Terra non finisce con noi: lo sport forse sì.
Non siamo/sono invulnerabili
Per il seguace sportivo non esiste solo lo sport
Ora: un’altra cosa che ci ha consegnato fin qui la quarantena è il ridimensionamento della figura dello sportivo-appassionato di sport, in toto.
E finalmente, anche.
Nessuno è invulnerabile: nella concezione più ampia del termine.
La consapevolezza ingiustamente diffusa circa lo sportivo insensibile al mondo circostante si è sgretolata sotto i colpi di un virus che ha rivoluzionato tutto.
Vuol dire, questo, che da adesso in poi vivremo in un effettivo “stato-mondo sociale”? E’ possibile, ma anche troppo presto per affermarlo con certezza.
Demolita la tradizione, in ambito sportivo, e nello specifico calcistico, il fulcro della discussione si sposta agilmente dalle opere benefiche dei club e dei singoli (tra donazioni, taglio degli stipendi e impianti sportivi messi a dispozione per l’emergenza – alcuni effettivamente trasformati in ospedali, come il Pacaembu di São Paulo – ) alle campagne di sensibilizzazione sociale.
La lotta di Samuel Eto’o e Didier Drogba (e sostenuta da Kalidou Koulibaly e altri) è, forse, la più significativa.
Nel corso di un confronto sul canale all news francese LCI avvenuto lo scorso 2 aprile circa le sperimentazioni di un vaccino contro il Coronavirus, Jean-Paul Mira, che opera come capo della rianimazione all’ospedale parigino Cochin e Camille Locht, che all’Istituto nazionale di salute e ricerca medica ricopre il ruolo di direttore di ricerca la buttano sulla fantascienza (almeno per noi): «Est-ce qu’on ne devrait pas faire cette étude en Afrique, où il n’y a pas de masques, pas de traitements, pas de réanimation?», «Questo studio non dovrebbe essere svolto in Africa, dove non ci sono maschere, cure o rianimazioni?», domanda Mira.
Dalla fantascienza al surreale
E da lì in poi la storia prende una piega surreale: si passa presto all’esempio delle sperimentazioni delle cure contro l’AIDS fatte sulle prostitute alla soluzione finale: «Vous avez raison, on est d’ailleurs en train de réfléchir à une étude en parallèle en Afrique», «Hai ragione, stiamo pensando ad uno studio parallelo in Africa», risponde Locht. E’ la fine di qualsiasi discorso sensato.
Il capo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, definisce “razziste, vergognose e orribili” le frasi dei due scienziati, il Governo francese fa trapelare smentite e i Mira e Locht si scusano. Ma «le parole sono importanti», ed Eto’o, Drogba, Koulibaly e gli altri insorgono: «N’est-ce pas l’Afrique est vôtre terrain de jeu…», «L’Africa non è un parco giochi», scrive su Instagram l’ex Inter e Barça, in uno dei momenti socialmente più importanti di questa quarantena.
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L’eccessiva vulnerabilità delle leghe calcistiche minori
Dallo sfogo di Giuseppe Caccavallo (Carrarese) su Instagram
«[…] Adesso parliamo della SERIE C, dove la maggior parte dei presidenti non vuole pagare, dove le società che già “prendevano per c**o i calciatori su contratti ridicoli, non pagando indennità ecc” potrebbero e molto probabilmente falliranno. Non fatemi il paragone con calciatori di A con quelli di C, in questo periodo di crisi mondiale, i calciatori di C molto probabilmente non potranno garantire un qualcosa ai propri figli, non potranno pagare un mutuo. Ricordiamo a tutti che i nostri contratti sono determinati e non pensate che in C si guadagnano soldi, c’è anche chi guadagna 1300 euro al mese. Probabilmente alla fine di tutto ciò ci ritroveremo senza una società, senza una squadra, senza un posto di lavoro. Tutto questo perché chi dovrebbe tutelare le serie minori non l’ha mai fatto…».
(Così Giuseppe Caccavallo, calciatore della Cararrese, su Instagram lo scorso 30 marzo)
Un altro esempio di vulnerabilità proviene direttamente dalla Serie C: in un ampio sfogo sui social, Giuseppe Caccavallo, ex Lecce e Catania, attualmente sotto la guida di Silvio Baldini alla Carrarese, ha riassunto un concetto chiave che definisce le differenze abissali tra le categorie del nostro calcio.
Cosa significa, perché e cosa ci lascerà tutto questo?
Lo scorso 24 marzo il consiglio direttivo della Lega Pro ha presentato alla FIGC lo studio condotto da PwC TLS circa l’impatto del Coronavirus sul calcio italiano: analisi che ha stimato un danno tra i 20 e gli 84 milioni di euro relativo alla Serie C con una contrazione del 30% sul fatturato medio annuale dei club, con conseguenze fatali: il rischio fallimento per alcune squadre è altissimo.
Ed è da qui che parte la nostra riflessione finale. Ci siamo ripromessi di trovare una risposta alla Domanda Fondamentale «Cosa significa, perché e cosa ci lascerà tutto questo?».
Mai come adesso abbiamo sperimentato la tremenda sensazione di veder scorrere il nostro tempo, perdendolo.
Il concetto stesso di “perdita di tempo”, che astrattamente e teoricamente fa a botte con quello di “eternità di tempo a disposizione”, ha dato forma e vita alle nostre paranoie.
Rivedere le nostre priorità è perciò un passo fondamentale: mantenere una parvenza di società solida può essere fondamentale per applicare effettivamente qualcosa che in realtà siamo già, ma non nel profondo. Uno Stato-mondo sociale.
Il sistema calcio va revisionato
Altro dono: l’opportunità di rivedere lo sport, e il calcio, alla luce di questa esperienza.
Prima di tutto con riforme economiche da attuare in caso di altre emergenze, fondi “salvagente” con diverse modalità di impiego a seconda della categoria e a tutela dei dipendenti delle società (non solo calciatori). Un’ulteriore necessità è quella di poter contare su piani pratici sportivi per episodi simili: idee chiare sulla sospensione e sulla ripresa dei campionati dopo un’ipotetica quarantena, precise regole in caso di sospensione definitiva (sempre in Serie C, mentre scriviamo questo pezzo, stanno riflettendo sulla possibilità di promuovere una quarta squadra in Serie B tramite sorteggio tra le ventisette squadre dalla seconda alla decima posizione di ogni girone), ripensare ad eventi a porte chiuse in maniera efficiente (chi scrive ha vissuto in prima persona l’esperienza di una gara a porte chiuse, nell’ultima giornata finora disputata, e conosce benissimo le difficoltà del caso).
Più in generale, dal punto di vista calcistico questa quarantena ci consegna anche il ripetuto bisogno della riforma dei campionati: ma se ne discuterà più avanti.
Sul significato di questa quarantena, di questo periodo, insomma, di tutto questo non possiamo e non sappiamo rispondere. Una cosa, però, possiamo dirla. Con ogni probabilità, se Massimiliano Carlini non si fosse fatto ammonire al 47’ di quel Catanzaro-Bari staremmo parlando d’altro. Ma sapete com’è: il Butterfly Effect.